Tra il visibile dell’arte e l’invisibile dello spirito. Intervista a Wolfgang Laib
Protagonista di una mostra “diffusa” nel cuore di Firenze, Wolfgang Laib racconta la sua arte. Tra spiritualità e attenzione al presente.
In occasione della mostra diffusa Without Time, Without Place, Without Body, in corso fino al 26 gennaio in quattro luoghi simbolo del centro storico fiorentino, abbiamo incontrato l’artista tedesco Wolfgang Laib (Metzingen, 1950). Le opere dialogano con i capolavori senza tempo di Beato Angelico, Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti.
È noto per l’uso di materiali naturali e organici nei suoi lavori: finalmente questo è accaduto anche a Firenze. Che tipo di riflessione ha voluto sollecitare negli edifici storici inclusi nel circuito di Without Time, Without Place, Without Body?
Organizzare mostre in siti storici così famosi è una grande responsabilità ed è anche un onore per me. Alcuni anni fa ho lavorato a una mostra a Ravenna, in Sant’Apollinare in Classe. Era la stessa situazione: mi hanno invitato, esattamente come ha fatto Sergio Risaliti a Firenze, e ho agito in modo analogo. È molto importante non utilizzare questi luoghi solo come sfondo. Ci deve essere una vera connessione con essi. Io devo essere sicuro di poter instaurare una relazione con l’arte al loro interno: questa è la sfida e non avrei accettato l’invito se non fossi stato sicuro di poter instaurare oggi, nel XXI secolo, una relazione così incredibile con un’arte che ha 500, 600 anni. O addirittura 1500 anni, come successo a Ravenna.
La sua è una sfida che tira in ballo la categoria del tempo…
Per me è molto bella la sensazione di poter superare il tempo. Credo che l’arte davvero importante sia senza tempo. Penso ci sia qualcosa che collega l’arte lungo i secoli. Questo è il motivo per cui ho voluto fare questa mostra; se avessi dovuto usare le opere del passato solo come sfondo, avrei dovuto declinare. Non sarebbe stata una condizione adatta a me.
Firenze ha avuto, per lungo tempo, un rapporto complicato con l’arte contemporanea, anche “a causa” del suo patrimonio culturale. Qual è il potenziale dell’arte dei nostri giorni in una città con un’eredità tanto straordinaria, quanto gravosa?
Se vivi in una città con così tanta arte e storia, l’arte contemporanea penso abbia un ruolo rilevante. Vivi l’oggi, e pensi all’oggi! È molto importante avere una vita nel presente, ma anche guardare al futuro. Quindi se puoi mettere in relazione la tua vita, quello che stai facendo e pensando ora, e il tuo pensiero sul futuro con il passato, è qualcosa di incredibile, molto bello e forte. Ed è questo ciò che spero la mostra faccia. In realtà Without Time, Without Place, Without Body è molto più di una mostra: è una vera e propria presa di posizione su quel che si può fare oggi e in questo secolo, e sul connetterlo con il passato.
Ha dichiarato di nutrire un sentimento speciale verso San Francesco d’Assisi. Che ruolo occupa la spiritualità nel suo lavoro?
Per qualche ragione, fin dalla mia infanzia i miei genitori sono stati molto interessati a San Francesco: con loro sono andato spesso ad Assisi. In qualche modo la vita di San Francesco ha avuto una grande influenza su di me, a tutti i livelli. L’arte di Giotto, e anche il luogo doveva viveva ad Assisi, appartengono a un tempo, il Medioevo, che sembra molto diverso, distante da oggi. Eppure è così importante per la nostra vita e per il nostro futuro.
Oltre all’Umbria, da bambino ha viaggiato molto in Asia. Riconosce una correlazione diretta tra la memoria di quelle terre e l’uso di materiali come il riso o la cera?
Sì, certamente. Le mie opere nascono dalla mia vita e a essa sono profondamente connesse. Altri artisti, anche bravi, hanno le loro vite completamente separate dalla loro arte, che in effetti non ha nessun legame con la vita. Invece il mio lavoro viene totalmente fuori dalla mia vita, è “generato” da essa. Naturalmente c’è chi mi chiede: “Come ti è venuta l’idea di fare questo? E quello?’’ Ma non è che un’idea viene fuori in un pomeriggio al ristorante…! La mia vita arriva a un certo punto e l’arte viene fuori da questa stessa vita, da cose che sono successe, anche molti anni fa.
Restando sulla materia della sua arte, ha dichiarato che “gli elementi naturali sono chiaramente elementi naturali, ma sono anche qualcosa di più, perché esistono oltre all’individuo”. Cosa intende?
Pensiamo a tutta l’arte rinascimentale che possiamo vedere qui, a Firenze. Michelangelo e tutti gli artisti di quel tempo sentivano che stavano creando qualcosa: stavano creando l’arte, erano “i creatori”, appunto. Io, oggi, ho realizzato queste piccole montagne di polline a San Marco, poi usato il polline e la cera nella Cappella Pazzi: quelle materie non sono mie, non le ho create. Ho raccolto il polline, l’ho messo lì, l’ho installato. L’essenza di questo è lontana da me, è molto distante dall’idea dell’artista creatore che dipinge un dipinto, che crea una scultura. Penso sia una posizione che derivi anche dall’influenza di altre culture, come quelle asiatiche.
Dopo Firenze, è già al lavoro su altri progetti?
Nella mia vita ho fatto così tante mostre: sono molto “viziato”, perché mi sono “abituato” a realizzarle e vederle nei musei più belli del mondo. Più di recente, in questi ultimi anni, ho lavorato a molte meno mostre. Come artista potrei fare ogni secondo una grande mostra, in tutto il mondo, ma non sono più così giovane: quindi voglio fare solo cose speciali. E cose, come questa, che non avevo mai fatto prima.
O come quella dello scorso anno a Lugano?
Sì, la mostra a Lugano è stata molto bella. In futuro farò altre mostre, ma soprattutto vorrei lavorare a qualche installazione permanente. Vorrei fare un’opera che sia una camera/stanza in Himalaya. Magari nessuno la vedrà, ma io vorrei dedicarmi a questo. E posso dirtelo, non è ancora successo, ma da anni mi piacerebbe realizzare una mostra a Siena, dialogando con i dipinti di Duccio di Buoninsegna. È complicato, ma chissà!
‒ Valentina Silvestrini
ha collaborato Marta Atzeni
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