Pittura lingua viva. Intervista a Diego Gualandris
Viva, morta o X? 72esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Diego Gualandris (Alzano Lombardo, 1993) vive e lavora ad Albino. Ha studiato presso l’Accademia di Brera, Milano, e l’Accademia Carrara, Bergamo. Attualmente è in residenza a Roma presso Castro Project. Dal 2017 fa parte di Altalena, progetto di ricerca indipendente.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Ingenuamente mi convinsi che un bel quadro potesse essere il più potente afrodisiaco. A dire il vero un po’ ci credo ancora.
Credi nella specificità del mezzo?
A volte mi capita di vedere un film e mi dico che forse sarebbe stato meglio se fosse stato un dipinto o viceversa.
E il corpo che ruolo svolge? Diventa unità di misura in alcuni dipinti…
Sì, lavoro principalmente su grande formato perché cerco un rapporto fisico e dinamico con l’opera e il mio corpo diventa appunto unità di misura della composizione. Ma ciò che più mi interessa è il corpo del dipinto. Io penso che un buon dipinto sia tale quando, tagliato in mille pezzi, ciascuno di questi pezzi risulta essere un buon dipinto.
Parlando del corpo, mi vorrei collegare a sessualità ed erotismo. Sono per tua stessa affermazione molto presenti nelle tue opere.
Credo che l’arte sia la più sofisticata forma di seduzione. Nei secoli ha reso attraenti cose terribili come le guerre e uomini agonizzanti inchiodati a pezzi di legno. Voglio che la mia pratica diventi sempre più consapevole della sua natura erotica e attrattiva.
Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
Di recente Barceló per la sua indole primitiva, O’Keeffe per la sensualità, Schifano per la sua faccia.
Favola, mito, religione e leggenda come entrano nelle tue opere?
Il lavoro è il frutto fecale della digestione continua di cose vissute. Sono stato attratto da questi immaginari da bambino e ora ritornano trasfigurati.
Il cinema, la musica, la letteratura influenzano i tuoi immaginari?
L’horror e il fantasy sono stati fondamentali per la mia formazione. Di recente mi sono innamorato della musica di Cartola, Luiz Bonfá, Vinicius de Moraes, li ascolto sempre in studio e li ballo, se così si può dire.
E che ruolo ha la scrittura? Penso a Fiabette, che hai composto per tua sorella.
Non sono uno scrittore, mi è capitato di scrivere quelle fiabe perché sapevo che erano dedicate a un lettore ben preciso, mia sorella Chiara appunto. Poi ho pensato che poteva essere interessante pubblicarle con Altalena.
Come nascono i titoli delle tue opere?
Qualche volta ho utilizzato nomi di personaggi delle mie fiabe come titoli, tipo Antonelloboy. Il più delle volte li penso come se dovessi dare un titolo a una canzone o a un racconto, immagino l’opera come il germoglio di una storia che poi si attiva nel tempo.
Quante vite può avere un’opera?
Una sola, e tendenzialmente molto più lunga della nostra. Mi piace l’idea che un’immagine non sia qualcosa da vedere ma che al contrario sia essa stessa capace di vedere una serie di cose. Un manufatto del Paleolitico è interessante non tanto per la sua fattura ma per quello che ha “visto” nel corso dei millenni. Mi interessa l’attivazione, che prescinde dalla pittura in sé e dal gesto del dipingere. Attivare delle dinamiche. E poi le cose succedono, che lo si voglia o meno.
E quindi l’eventuale errore o l’aleatorietà vanno a completare l’opera…
Sì, l’intento è quello di complicare la vita alla composizione. Quello che io vedo come un errore diventa qualcosa che riscatta la composizione stessa, la rende più intelligente e rende più intelligente anche me.
La composizione, appunto. Hai affermato che vuoi complicarne la vita. E qui intervengono le velature, il dipingere immagini su immagini, le stratificazioni…
Spesso realizzo velature nascondendo le immagini sottostanti. Mi affascina molto l’idea di spreco, di dispendio di energia, la generosità di un gesto che poi va ad annullarsi. È un principio di entropia. L’anno scorso ho realizzato un trittico molto grande, composto da tre dipinti. C’è una narrazione, un racconto mitologico su Isaia, un personaggio che ho realmente conosciuto e che poi ho scoperto essere un assassino. Attraverso tre aneddoti che si sviluppano nei tre quadri racconto questa Isaide, fatto di cronaca e mito personale. Ecco, alla fine uno di questi tre dipinti, di formato 3×2, l’ho arrotolato ed è diventato una sorta di forcone, un corno. È diventato una scultura, intravedi solo un po’ il dipinto. Ci ho lavorato per quattro mesi e alla fine il lavoro iniziale si è annullato.
Parlavi prima dei grandi formati delle tue opere. In generale, ci sono forme o tecniche che prediligi?
Preferisco la forma semplice del rettangolo per l’idea di una base di partenza, un campo da gioco. Per quanto riguarda la tecnica, ho sempre utilizzato l’olio per friggere in modo abbastanza selvaggio e molto spesso i peluche come pennelli.
Perché fare pittura oggi?
Se c’è un’esigenza reale di dipingere è bene farlo oggi, domani, dopodomani.
Cosa pensi del panorama della pittura italiana contemporanea?
Vedo tanti artisti interessanti. È un terreno fertile.
‒ Damiano Gullì
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