Gli artisti e la ceramica. Intervista ad Andrea Salvatori
Da sempre la ceramica è la materia prima dell’opera di Andrea Salvatori, nato nella terra per eccellenza di questo strumento artistico.
Andrea Salvatori (Faenza, 1975) vive e lavora a Solarolo, dove ha organizzato il suo studio/laboratorio, a pochi chilometri da Faenza. Dal 1997 ha partecipato a numerose esposizioni sia personali che collettive ed è stato vincitore del 56esimo Premio Faenza. Fin dagli esordi ha eletto la ceramica come il mezzo espressivo più efficace per la propria scultura.
Nel corso di questo ciclo di interviste abbiamo incontrato persone che lavorano la ceramica da più o meno tempo. La tua frequentazione di questo mondo ha ormai radici lontane.
Sono vent’anni che lavoro la ceramica, purtroppo.
Perché purtroppo?
Perché forse dovrei cambiare, ma per me è difficile, quasi impossibile. Principalmente io amo la scultura e fin da quando ero studente il mezzo per fare scultura, per me, è sempre stato la ceramica. Questo perché, inizialmente, essendo io nato a Faenza, questa era la soluzione più vicina e comoda. Fin da ragazzo, infatti, ho frequentato il locale Istituto d’arte che era impostato sulle tecniche ceramiche. A quell’età non sai bene cosa fare e sapendo io lavorare con le mani ho deciso di prendere quella strada. Non è stata neanche una scelta, ma una naturale evoluzione: la mia famiglia viene dalla campagna, mio padre lavorava la terra che dona frutti e io lavoro con una terra fertile in maniera diversa.
Dopo la scuola però hai continuato sulla stessa strada.
Sì, terminata la scuola mi è sembrato altrettanto naturale proseguire a Bologna, dove mi sono specializzato in scultura. Durante gli anni in Accademia ho frequentato la bottega di Bertozzi e Casoni, che è stata per me come una bottega del Cinquecento. Da loro ho imparato moltissimo: ho appreso con le mani, ma anche con gli occhi. Mi sono abituato alla bellezza, ma anche a incontrare altri mondi, altri gusti, altre persone. È stata per me un’evoluzione: dal ragazzino con poca voglia di leggere i libri ‒ e che quindi voleva solo lavorare con le mani ‒ sono cresciuto imparando sempre a fare, ma anche e soprattutto a guardare.
Citavi i libri: nel tuo studio sei sommerso dai volumi d’arte che collezioni senza sosta.
Sì certo, non è nella normalità? Questo perché, come ti dicevo, mi piace guardare (prima ancora di leggere…). Prima di internet andare a una mostra e portare a casa un catalogo significava costruire una memoria dell’esperienza. Per me era un modo per conoscere il mondo e portarlo fra le mura del mio studio. Da quando ho memoria viaggio con valigie di libri, e questo forse anche perché sono approdato al computer tardissimo: il mio primo pc è arrivato solo nove anni fa.
Dai tuoi racconti sembra di percepire che ogni forma di conoscenza è per te fisica, passa attraverso il contatto, ma anche il possesso. Sei un grande collezionista per esempio: collezioni ceramiche, arredi, libri, vinili.
Sì è così, ma proprio perché la scultura ‒ che è tutto quello che mi interessa ‒ è fisica. Faccio fatica a fare degli acquerelli o dei disegni, anche se ieri sera ho fatto il mio “primo” disegno. Mi è venuto questo istinto, e poi mi sono chiesto come mai, e allora sul retro ho scritto “a 45 anni, il mio primo disegno”. Non so cosa voglia dire, so solo che da lì sono nate anche le idee di sculture a parete, una negazione strana dell’ingombro e della presenza fisica della scultura. Sto cercando di “far volare” la fisicità pesante e delicata della scultura in ceramica.
Questa fisicità entra con forza anche nella tua pratica, che non nasce dal modellato, ma dal lavoro sugli stampi (che aderiscono appunto all’oggetto reale). Questa rinuncia al modellato libero era già presente nelle tue prime sculture ed è sempre rimasta.
Sì, per me è importante partire da qualcosa che già esiste: è un punto di partenza, per poi assemblarlo, smontarlo e rimontarlo o anche distorcerlo. I miei interventi di modellato sono piccoli, sporadici o di complemento; un domani mi piacerebbe modellare interamente da zero, ma credo ancora di non aver detto tutto quello che volevo. Mi piace molto il lavoro di persone in grado di modellare con libertà, ma più in generale mi piace la ricerca di chi non mi assomiglia, di chi è totalmente il mio opposto. I miei maestri sono tutti, specie quelli che non capisco, che non mi sono apparentemente vicini. Perché quando non capisco mi faccio delle domande e torno a guardare, che è quello che mi interessa e credo mi aiuti a crescere.
Un altro elemento che rimane pressoché costante nel tuo lavoro è un uso molto limitato del colore.
Sì, la ceramica è pericolosa, bisogna stare molto attenti con il colore. Una volta applicato lo smalto non si torna indietro. Amando la scultura classica sono anche convinto che il colore venga dai piani dell’opera, per questo ho bisogno di monocromie. Non ho ancora esaurito la mia ricerca con il bianco, potrei arrivare anche al colore, ma per il momento sento di dover portare avanti questo percorso. Che poi è un lavoro sulla monocromia come ti dicevo più che il bianco in sé: ad esempio l’Ercole è bianco, ma forse avrebbe avuto ancora più senso in terracotta. Perché è una copia di una copia, deriva dal Cinquecento dove è vero che esisteva il marmo, ma i mezzi busti si facevano proprio in terracotta (o al limite in gesso) prima delle fusioni. Inoltre al suo interno ‒ come un teatrino ‒ è pieno di bozzetti di sculture del Novecento (e i bozzetti da sempre si fanno in terracotta).
E quindi anche il Testone nasce dentro a questa ricerca?
Il Testone nasce da un invito a una residenza nella città di Montelupo Fiorentino, dove si producevano servizi da tavola per la famiglia dei Medici, e in più la loro tradizione è anche quella degli orci, contenitori per vini e olii, anche in grandi dimensioni; quindi era per me scontato lavorare con la terracotta in quel caso. In più era importante lavorare con dimensioni e professionalità nuove, qualcosa che non posso incontrare nel mio studio. A Montelupo Fiorentino è stato fondamentale l’apporto della stampante 3D, è quindi qui incominciata la collaborazione con l’azienda WASP di stampanti 3D anche per l’argilla, con la quale abbiamo eseguito lo stampo in polipropilene. Abbiamo scannerizzato un modello della testa del David e abbiamo deciso di non rifare in dimensioni aumentate la testa in 3D, ma di produrre direttamente il negativo, e cioè lo stampo. Quindi in questo caso la tecnologia è stata fondamentale per la parte tecnica. Diversa è la collaborazione, sempre con loro, che ho fatto sui vasi/scultura Ikebana Rock’n’Roll.
Spiegati meglio.
In quel caso, mentre la forma prestabilita usciva già in argilla dalla stampante 3D, io intervenivo direttamente sul materiale con l’inserimento di alcuni miei moduli, sempre nella medesima argilla. Lavorando su questi soggetti, un po’ alla volta, mi sono accorto che potevo creare una sorta di “spina dorsale” dell’opera, qualcosa che reggesse il nuovo volume stravolto. Non era solo una distruzione della forma prestabilita, ma anche una rinascita. È stato ovviamente solo un inizio, ma era per me qualcosa di stravagante, vicino esteticamente a certe cose dei nuclearisti: anche lì potrei sperimentare ancora moltissimo, ma servirebbero tanti me.
In questo nuovo progetto di vasi/sculture Ikebana Rock’n’Roll c’era un inseguirsi di irregolarità e imprecisioni, qualcosa di nuovo rispetto al tuo lavoro, che è sempre molto pulito.
Certo, la pulizia, la chiarezza e la semplicità sono necessarie alla mia visione: se voglio fare una sedia in ceramica quella sedia non può essere crepata, deve essere sedia. In ceramica, ma una sedia. Io parto dall’idea di tradurre una cosa in ceramica. Il mio forse è un “gioco” di ritagli e copia e incolla. Anche nell’Elefantino “Overweight” era quello: un corpo bianco con ritagli di colore. Essendo scultura, i cerchi ritagliati sono diventate sfere colorate. Questi Ikebana invece sono più vicini a veloci sperimentazioni, idee spinte a concretizzarsi, e quindi ogni crollo e lacerazione è per me da salvare e monumentalizzare, come quasi un taglio di Fontana.
Le sfere colorate che hai menzionato fanno parte di una tua ricerca con la geometria: protagonisti delle tue opere per molto tempo sono stati stelle, cubi, piramidi.
Mi piace molto la rifinitura di un oggetto, la sua pulizia e perfezione, lo scorrere del tempo fuori dal tempo, è una pratica molto Zen. Un esempio perfetto è quello del drago (un lavoro di diversi anni fa): pulitissimo, ricco di dettagli, perfetto. Così perfetto che mi aveva annoiato. Allora ho cercato di ottenere la stessa pulizia in una nuova ricerca che si basasse su forme geometriche, dalle quali comunque tutto nasce. E così ho ottenuto tutto un nuovo mondo, potenzialmente infinito. Mi piaceva il contrasto tra una figurina realistica e questi mondi perfetti, astratti e idealmente non concretizzabili. Le stelle sono la parte più complicata di questo universo (anche come forma, essendo coni assemblati a dei poligoni). Il mio iper-barocco giovanile è diventato questo nuovo barocco alla mia maniera: scientifico, geometrico e bianco.
Un barocco che guarda anche al design nel tuo caso, anche se la tua sembra più una parodia di quel mondo.
Sì è divertente. Le mie sculture portatili sono anelli impossibili, ma potenzialmente funzionali, un po’ come certi spremiagrumi che non permettono di spremere le arance. Mi piace e mi diverte giocare con le icone, avvicinandole anche al kitsch. I miei tappi sono nati così: appoggiai un solido su un vaso o un altro soggetto dal mio repertorio e lo trasformai in un tappo. È nato tutto per gioco qui in studio, poi riguardandoli ho capito che erano seri. Si muovevano su tanti piani. Stare in studio, guardare ciò che mi circonda tutti i giorni, è fondamentale. Posso anche spostarmi, o essere al lavoro in un altro studio, ma ovunque io vada porto sempre con me questo spazio e questo bagaglio. Per me queste radici sono state una forma di libertà: qui posso fare scultura in maniera autonoma ogni giorno. Io sono chiuso qui nel mio Stato Libero di Banana. Sono il cittadino più libero del mio stato, ma sono anche lo schiavo di questo posto, che non posso abbandonare.
‒ Irene Biolchini
LE PUNTATE PRECEDENTI
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
Gli artisti e la ceramica #12 – Emiliano Maggi
Gli artisti e la ceramica #13 – Benedetto Pietromarchi
Gli artisti e la ceramica #14 – Francesca Ferreri
Gli artisti e la ceramica #15 – Concetta Modica
Gli artisti e la ceramica #16 – Paolo Gonzato
Gli artisti e la ceramica #17 – Nero/Alessandro Neretti
Gli artisti e la ceramica #18 – Bertozzi & Casoni
Gli artisti e la ceramica #19 – Alberto Gianfreda
Gli artisti e la ceramica # 20 – Sissi
Gli artisti e la ceramica #21 – Chiara Camoni
Gli artisti e la ceramica #22 – Andrea Anastasio
Gli artisti e la ceramica #23 – Michele Ciacciofera
Gli artisti e la ceramica #24 – Matteo Nasini
Gli artisti e la ceramica #25 – Luisa Gardini
Gli artisti e la ceramica #26 – Silvia Celeste Calcagno
Gli artisti e la ceramica #27 – Michelangelo Consani
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