Dialoghi di estetica. Parola a Gaia Bindi
Autrice del libro “Arte, ambiente, ecologia”, Gaia Bindi riflette sull’importanza del dialogo e dell’unione fra uomo e natura, soprattutto in risposta alla pandemia.
Storica dell’arte, Gaia Bindi (Firenze, 1967) insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha lavorato al Museo Marino Marini e agli Archivi Alinari di Firenze, al Musée Picasso di Parigi. Ha collaborato con numerosi critici (tra cui Jean Clair e Maurizio Fagiolo dell’Arco) per la realizzazione di mostre di arte moderna e contemporanea. Si è occupata di arte italiana degli Anni Venti e Trenta, con mostre e cataloghi dedicati a Giorgio de Chirico, agli “Italiens de Paris”, a Pablo Picasso e al Cubismo, a Salvador Dalí, Diego Rivera, Frida Kahlo.
Dal 2009 si occupa di arte contemporanea con intento ecologico con mostre e saggi dedicati a questi temi ed è consulente scientifico del PAV – Parco Arte Vivente Centro sperimentale di arte contemporanea di Torino. Muovendo dal suo recente libro Arte, ambiente, ecologia (Postmediabooks, Milano 2019), il dialogo affronta i seguenti temi: la riflessione teorica sul rapporto tra uomo e natura, le pratiche artistiche che lo indagano, la pratica dell’orto, il rapporto arte e scienza, il ruolo delle nuove tecnologie e i possibili sviluppi delle ricerche artistiche dopo l’emergenza Coronavirus.
Nel suo libro il rapporto tra uomo e natura è affrontato dal punto di vista delle teorie e da quello delle pratiche artistiche. Consideriamo l’ambito teorico: quali sono i principali temi affrontati?
Non sembri scontato, ma uno dei principali temi su cui negli ultimi anni si è soffermata la riflessione dell’ecocentrismo è il superamento della tradizionale dicotomia uomo/natura nell’ottica del pieno riconoscimento della stretta connessione biologica nella sfera del vivente. È proprio ciò che in questi mesi ci sta insegnando il Coronavirus. Nel ventesimo secolo le scienze naturali e sociali avevano considerato il mondo come composto da individui, con distinti corpi, genomi e interessi. Le simbiosi, quando riconosciute, erano considerate rare, delle anomalie in un sistema caratterizzato da autonomie individuali e da concorrenza inarrestabile. La ricerca del ventunesimo secolo su organismi che vanno dai batteri agli insetti ai mammiferi ha mostrato che la simbiosi è un prerequisito per la vita, anche per l’Homo sapiens. Importanti pensatori – tra cui Bruno Latour, Karen Barad, Isabelle Stengers, Donna Haraway – hanno evidenziato l’esistenza di reti di collaborazione (volontaria e involontaria) tra differenti specie e, di conseguenza, la necessità di riconfigurare nel senso della corresponsabilità le relazioni dell’essere umano con la Terra e i suoi abitanti.
In che modo si inserisce l’arte nel quadro di queste riflessioni?
Riconoscere il problema della crisi ambientale e creare alleanze con gli altri esseri viventi diventano oggi strategie necessarie per la sopravvivenza. Qui entra in gioco l’arte. Perché l’arte può aiutare a vedere e a informare, facendo passare la comunicazione scientifica attraverso canali diretti, sensoriali ed empatici. L’arte può anche immaginare nuove soluzioni ambientali/sociali/economiche, creando ipotesi di armonizzazione tra uomo e natura, coltivando l’utopia di un futuro sostenibile, coadiuvando la scienza nell’orientamento di prospettive a lungo termine.
Un caso interessante è quello dell’orto che da attività umana generica può diventare anche pratica artistica. Quali sono le specificità di quest’ultima?
L’agricoltura, come l’arte, è un’invenzione umana. Opere come la Piantagione Paradise (1973-1986, Bolognano) di Joseph Beuys o il Portable Orchard. Survival Piece No.5 di Helen Mayer Harrison e Newton Harrison (1972, California State University) hanno insegnato che la pratica dell’orticoltura può individuare una coltura/cultura di opposizione ai sistemi di sfruttamento indiscriminato e alla logica del profitto. Da allora, molti altri orti sono stati realizzati come emblema di una nuova collaborazione tra uomo e natura, tra artista e società, insieme creativa e produttiva, alternativa alle diffuse ideologie di potere politico e agroeconomico. Nella mostra Resistenza/Resilienza che ho curato l’anno scorso insieme a Piero Gilardi al Parco Arte Vivente di Torino le installazioni in forma di orto erano tre: Berta (2019) di Wurmkos, una vigna strutturata come luogo di aggregazione sociale, in ricordo dell’attivista ambientalista Berta Cáceres; Cucuzza People (2019) di Leone Contini, una pergola abitabile, resa casa comune per la crescita di cucurbitacee provenienti dagli orti di immigrati da tutto il mondo; Cosmos seed garden project #1 (2014-2019) di Michele Guido, piantato seguendo il profilo della parte mangiata da un insetto in una foglia, restituiva nutrimento all’ambiente grazie alla coltura di antiche piante in grado di produrre sementi, oggi conservate alla Banca dei semi del Salento.
Ragionare su questi temi permette anche di riflettere sul rapporto tra arte e scienza. Come si è trasformato in relazione alle ricerche artistiche contemporanee che affrontano temi quali l’ecologia, l’ambiente e il clima?
Nel senso di un maggior rispetto e interesse reciproco. Abbandonando uno storico solipsismo, molti artisti adesso lavorano in team, avviando collaborazioni con istituzioni scientifiche, enti e gruppi di ricerca, attivisti, comunità locali, nell’intento di condurre una creatività che tenga conto delle varie componenti dell’ecologia integrata. Anche le istituzioni scientifiche, d’altro canto, stanno facendo sempre maggiore ricorso alle potenzialità creative degli artisti.
Che ruolo hanno le nuove tecnologie per quelle sperimentazioni che, all’intersezione tra arte e scienza, mirano a restituire possibili ‘immagini dell’invisibile’?
L’attivazione di una polisensorialità integrata attraverso le nuove tecnologie è una delle sfide più ardite che l’arte si pone oggi. Le problematiche del presente hanno bisogno di essere viste e rappresentate anche quando sono invisibili. Grazie ai progressi delle scienze tecnologiche e delle neuroscienze alcuni artisti stanno lavorando per lo sviluppo di nuove forme di percezione, che aprano inediti canali di conoscenza e consapevolezza. Cito, tra i tanti, il duo londinese The Otolith Group, che nel film The Radiant (2012) ha scardinato la veste del documentario storico-scientifico per illustrare il problema della radioattività in Giappone. Oppure il lavoro sperimentale dell’artista-biologo Carsten Höller, che con Plant Decision-Making Based on Human Smell of Fear and Joy (2018) – un lavoro realizzato in un laboratorio scientifico temporaneo nella sede espositiva di Palazzo Strozzi a Firenze – ha testato l’effetto delle emozioni umane di gioia e paura sulla crescita spontanea di piante di glicine.
Considerando l’attuale periodo di difficoltà dovuto all’emergenza Coronavirus, come potrebbero svilupparsi in futuro le ricerche di artiste e artisti che riflettono sul rapporto tra uomo e natura?
Non sta a me dirlo, ma agli artisti. Posso ricordare che, nell’ambito della Bioarte, alcuni di loro trattano anche tematiche mediche (penso, per esempio, a Marta de Menezes, a Dario Neira, a Pratchaya Phinthong, che ha lavorato sulla prevenzione dalla malattia del sonno). Personalmente credo che la pandemia ci abbia severamente colpito nella sfera sensoriale: la perdita di gusto e olfatto come effetto della malattia, ma anche l’uso di guanti o la stessa quarantena hanno di fatto limitato il tatto, la vista, l’udito. Amerei una produzione artistica che lavorasse per potenziare i sensi e la fantasia. Tutti noi abbiamo bisogno di diventare più ontologicamente creativi e sensibili.
‒ Davide Dal Sasso
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