Germano Celant, il solista. Il ricordo di Renato Barilli
Il critico bolognese ricorda il collega Germano Celant, scomparso poche ore fa. Tratteggiandone il piglio e la carriera.
Confesso che fino a questo momento ritenevo che la nostra categoria, di critici, di intellettuali, fosse al riparo dai vili attentati del coronavirus, roba da lasciare a persone meno difese di noi, esposti tutt’al più ai limiti dell’età, di ottuagenari avanzati. Ma la scomparsa di Germano mi dà il senso di una minaccia che mi tocca da vicino, come di un proiettile che mi scansa per poco e per miracolo. Naturalmente posso tirar fuori dal mio dossier una trama di ricordi che lo riguardano, molto nutrita per il fatto che la sorte mi aveva consentito di partire molto prima di lui, a metà degli Anni Cinquanta, con circa un decennio di vantaggio nella carriera.
GERMANO CELANT MUTO E VESTITO DI NERO
Il primo ricordo che ho di Germano è legato a un grande storico dell’arte, Eugenio Battisti, che era capitato all’Università di Genova, ma solo nella veste svantaggiosa dell’incaricato, dove però aveva profuso un’attività enorme. Allora viaggiava in un macchinone americano dove quasi scompariva dietro il volante, e nel retro trovava posto proprio il giovane Germano, allora presenza misteriosa, muto, vestito di nero, insindacabile. Fui comunque tra i primi a prendere atto che bisognava fare i conti con lui, tanto che lo invitai a Salerno, alla corte dell’oggi giustamente ricordato Marcello Rumma, quando nel 1967 organizzai ad Amalfi un incontro per la sezione italiana dell’AICA (Associazione internazionale critici d’arte), dove ovviamente figuravano le vette del momento, Calvesi, Menna, Boatto, ma vi tenne una comunicazione anche Celant, che io persi, chiamato fuori da un impegno organizzativo, non riuscii ad ascoltarla. Così mi è rimasto sempre l’interrogativo: a che punto era già arrivato nel concepimento dell’Arte povera, riusciva a districarla da concezioni rigide, geometrizzanti, minimaliste? Poi il suo movimento fece rapidi progressi, ricordo che nel ’68 andavo in devoto pellegrinaggio alla corte di Gian Enzo Sperone, nello stanzone che aveva a Torino in Corso San Maurizio, e mi era chiaro che là si vedevano i segni della novità del momento.
L’ARTE POVERA AD AMALFI
Tanto che poi all’amico Rumma consigliai di far fare senz’altro a Germano la mostra che dava seguito a una mia, anch’essa ad Amalfi, con cui avevo chiuso il ciclo della Pop Art e affini, mentre era ben chiaro che lui apriva un nuovo discorso. E, poco dopo, proponevo anche agli amici della De’ Foscherari di Bologna di invitarlo con i suoi undici adepti. E, dunque, mi posso vantare di essere stato tra i primi a comprendere l’importanza del suo discorso, ma anche a soffrire del duro comportamento che lo portava a esigere di non aver nessuno al suo fianco. Tanto che quando, nel gennaio ’70, e nella mostra omonima al Museo civico di Bologna, riuscii a far partecipare al completo la squadra poverista, non tentai neppure di invitarlo, quasi sicuro di un suo rifiuto, puntando invece sul suo partner Tommaso Trini, che proprio dal comportamento dittatoriale celantiano è stato espropriato di un ruolo paritetico nella conduzione del fenomeno.
CELANT DITTATORE, CELANT SOLISTA
Poi ci fu l’intuizione geniale di Francesco Arcangeli, che alla Biennale di Venezia del 1972 volle proporre la sfida tra la pittura tradizionale e il comportamento, ritenendo indispensabile invitare, oltre che me, anche Celant, ma avendone il rifiuto, proprio per il suo convinto ruolo di solista. La rottura avvenne su una coppia di nomi, io optavo per Merz e Fabro, lui invece diceva che dovevamo chiamare una coppia ugualmente eccellente, Kounellis e Paolini. L’ho poi ammirato per la ferrea coerenza che mantenne quando la ruota della fortuna, e degli stili, cominciò a girare, a favore di un ritorno al museo e alla pittura, cui indulsero perfino alcuni dei suoi preferiti, come lo stesso Merz, Calzolari, Kounellis. Lui invece rimase imperterrito a difendere quello che chiamava “in-espressionismo”, mentre quasi tutti i critici cedevano alle lusinghe del ritorno a certi valori della tradizione. Per quella sua fermezza, che al momento sembrava metterlo fuori causa, egli al contrario poneva le basi del suo successo al nuovo giro di boa, quando la stagione dei revivalismi, del citazionismo e simili andò a esaurirsi, e i giochi si rifecero “duri e puri”.
ALTI E BASSI DELL’ARTE POVERA
L’Arte povera riemerse in tutta la sua autorità, ebbe il vento in poppa, perfino troppo, dal mio punto di vista, forse perché sono sempre stato un po’ il difensore delle cause perse, però mi sono battuto per tanti artisti degni al pari dei Poveristi DOC, che invece il conformismo ufficiale oggi tende a posporre ai magnifici undici della formazione celantiana. Insomma, per farla breve, e se “parva licet componere magnis”, c’è qualche tratto manzoniano nella sua parabola, tra cadute nella polvere e ritorni sull’altare, e forse vale addirittura chiedersi se “fu vera gloria”. Per fortuna nel nostro campo si può rispondere affermativamente, dato che i valori e gli artisti per cui si è battuto con estrema coerenza hanno resistito alla prova del tempo.
‒ Renato Barilli
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