Gli artisti e la ceramica. Intervista ad Antonio Violetta
La terra è la materia d’elezione di Antonio Violetta, che dagli Anni Ottanta la utilizza come base delle proprie opere.
Antonio Violetta (Crotone, 1953) esordisce, nel 1976, con una personale presso la Galleria Ferrari di Verona, ma è con la mostra da Françoise Lambert a Milano, nel 1980, che l’artista si afferma a livello nazionale. Nel 1982 partecipa alla Documenta 7 di Kassel, dove espone il ciclo di sculture Momenti di pietra (1980) e Cieli (1982), forme geometriche che richiamano strutture megalitiche. Dai primi Anni Ottanta adotta la terra come suo linguaggio d’elezione, combinandola anche a inserti luminosi (come nel caso di Pagine, che nel 1986 esporrà alla 42esima Biennale di Venezia e successivamente alla Quadriennale di Roma). Dal 1994 si concentra sulla figura umana. Lo abbiamo incontrato per chiedergli del suo rapporto con la materia ceramica.
Come descriveresti gli anni della tua formazione a Bologna?
Gli Anni Settanta sono stati molto importanti, certo velati da grandi drammi. In quegli anni Bologna era probabilmente più vivace di adesso: la fiera era in espansione. I giorni della fiera erano davvero fondamentali, era possibile incontrare persone che venivano dall’Europa e dall’America. Certo, erano anni complessi, molti si sono poi anche persi, imboccando strade che erano apparse inevitabili.
E di questo clima che stai descrivendo sono figli anche i tuoi primi lavori, penso per esempio a Utopia, del 1976?
Per me quel lavoro ‒ che è solitamente sempre segnalato come la mia prima opera ‒ è arrivato a seguito di una serie di riflessioni ed esperimenti che avevo fatto con la carta catramata. Questo materiale è composto da due fogli, tenuti appunto insieme dal catrame: con un ferro da stiro li scaldavo e poi li aprivo. Da questo nacque la mia idea di fare lo stesso esperimento di apertura sul muro, che è stato proprio Utopia. Con l’inizio degli Anni Ottanta, poi, ho incontrato la terra, che è rimasta la materia che ho sempre prediletto.
Come mai per te è così importante la parola “terra”?
Perché è silenziosa, è l’origine di tutte le cose. Questo aspetto di origine, nel senso proprio della creazione, è fondamentale. Se ci pensi alla fine la terra è polvere, lavorarla è come ricordarsi del “polvere sei e polvere ritornerai”. Eppure questa polvere è anche forma e, grazie al fuoco, la si può fermare.
La polvere mantiene un ruolo centrale anche nell’idea del colore per te, nel senso che solitamente non usi uno smalto ceramico, ma è appunto la polvere di grafite a ricoprire la scultura.
Sì, ho cercato di capire perché io sia così attratto dalla grafite: alla fine ciò che veramente mi attrae della grafite è proprio il suo non essere un colore. La grafite è la perfetta idea della luce e dell’ombra. Trattandola in un certo modo si ottiene l’effetto di luce, mentre non trattandola rimane assolutamente buia. Sottolinea il movimento della scultura, che per me è sempre quello della natura: il vento e il mare. Sono nato e cresciuto davanti al mare e il suo continuo movimento, nel suo essere così illimitato, è una continua metamorfosi. Questa sua ciclicità, che poi è anche quella della vita, è qualcosa che deve necessariamente esserci vicino. A volte ho trovato questo senso dopo aver finito l’opera, che secondo me deve essere sempre libera di poter scorrere.
Come si inserisce la luce presente in alcune Pagine in questa tua ricerca di una fluidità incontenibile?
La luce solleva l’opera, la eleva a mezz’aria come per smaterializzarla. La scultura deve essere ferma per produrre movimento: nel suo essere immobile deve contenere tutti i movimenti possibili. Ecco, la scultura ha bisogno di un movimento, di un gesto che per me deve essere conficcato nell’umano. È soprattutto un’emozione…
È questa la tua idea di scultura?
Ti rispondo citando un brano per me fondamentale di Camus, che Nell’uomo in rivolta scrive: “La maggiore e più ambiziosa delle arti, la scultura, si accanisce a fissare nelle tre dimensioni il volto sfuggente dell’uomo. A ricondurre il disordine dei gesti all’unità del grande stile. La scultura non respinge la somiglianza, di cui al contrario ha bisogno, ma non la ricerca per prima. Quello che cerca nelle sue grandi epoche è il gesto, l’atteggiamento, lo sguardo vuoto che riassumeranno tutti i gesti e tutti gli sguardi del mondo. Non è il suo assunto imitare, ma stilizzare e imprigionare in un’espressione significativa il passeggero fulgore dei corpi o il vorticare infinito degli atteggiamenti. Soltanto allora erige sul frontone delle città tumultuose il modulo, il tipo, l’immobile perfezione che per un momento placherà l’incessante febbre degli uomini”.
Quale ruolo hanno l’emozione e l’istinto nella tua pratica?
Il vero trascinamento delle cose avviene tramite l’emozione: questo non vuol dire che l’arte sia fatta solo di emozione, come non è fatta solo di storia o solo di libri… Ma è fatta di tutte queste cose messe insieme. Con l’emozione si riesce ad arrivare al cuore del problema. La scultura deve essere sempre sorvegliata, ma trovare il momento, la forma giusta all’interno dello spazio è qualcosa che arriva anche al di fuori del controllo.
Però con certi lavori, penso ad esempio a Luogo d’aurora, una preparazione, una pre-organizzazione dei materiali è assolutamente necessaria. Come nascono allora queste opere?
Per raccontare questo lavoro devo fare una premessa, che ne spiega anche la datazione (1983-1987). All’inizio degli Anni Ottanta, ero in macchina con un caro amico e critico, Sandro Sproccati, e chiacchierando gli ho raccontato di un’idea che avevo nella testa: questa idea di un cubo di marmo bianco e una carica esplosiva da mettere al centro per farlo esplodere. Come un’idea di qualcosa che dal centro delle cose fuoriesce alla luce del sole, una sorta di metafora della scultura stessa. Ma la cosa era poi finita lì, in una chiacchierata tra amici. Alla fine degli Anni Ottanta, a Villa Domenica, a Treviso, fu organizzata una mostra con undici artisti che per un periodo erano a chiamati a convivere e a produrre opere da lasciare nel giardino della villa. Questa fu per me l’occasione di dare vita a Luogo d’aurora: siamo andati in una cava dove abbiamo caricato un blocco di marmo con una carica esplosiva. Mentre preparavamo la carica dissi che mi sarebbe piaciuto ottenere cinque pezzi dal blocco iniziale, ma sapevo che ottenere esattamente questo risultato era pressoché impossibile. E invece subito dopo l’esplosione vedemmo questi cinque pezzi a terra, che poi abbiamo ricollocato nel giardino. Questa idea del frammento è presente in tutta la mia ricerca: per me la frantumazione è un modo per ricostruire le cose.
E come arriva la figura umana nella tua ricerca?
A un certo punto, molto semplicemente, il mio studio era pieno di opere popolate da parti mancanti. Mi sembrava che si agitassero in cerca di un corpo, una carne. E quindi ho deciso di accettare questa richiesta. Volevo misurarmi con questa esigenza, essere davanti a una scultura che ti guarda. Entrare nella figura, in modo profondo, serio, assoluto. Allo stesso modo sono arrivati i Torsi che uniscono la figura e il movimento del gesto: piano piano i corpi hanno perso dei pezzi e ciò che è rimasto era la loro parte più intima, ciò che li rende riconoscibili e astratti al tempo stesso.
Nelle tue parole ritornano spesso l’emozione, l’intimità, il gesto. Da dove nascono queste spinte?
Per me un artista porta con sé una certa responsabilità, legata anche all’idea di dono. Se sei un artista, lo sei per puro caso e non hai fatto nulla per meritarlo, semplicemente lo hai ricevuto. E quindi un artista è chiamato a restituire al mondo un po’ di questa responsabilità in forma di bellezza.
E quali sono gli artisti che ti “parlano”?
La grande materna compostezza di Moore, l’emozione di Adolfo di Cambio e Niccolò dell’Arca, il movimento di Bernini. Le grandi opere per me sono tutte fuori dal tempo, rintracciano, con il proprio fare, dei segni che sono vicini non solo al proprio tempo, ma alla storia del mondo. Io credo che questa sia la direzione in cui guardare. Che è come guardare al buio, ma sapendo vedere.
E Giacometti? Se ricordo bene è un artista per te fondamentale.
Assolutamente sì, anzi direi che possiamo salutarci con una poesia che ho scritto nel 1992 a lui dedicata:
“Incertezza d’esistenza nera sottile, figure dalle geometrie del pulsare,
teste, di conosciute persone, nel segno vicino.
Nell’aria che avvolge tutto, nell’aria sulla quale tutto riposa
l’inverno denuda e la velocità del treno riempie gli occhi
di un disegno che appare leggero.
Nebbia e tristezza lieve ad ammorbidire il ramo, la mano che s’apre,
il braccio nel tendersi senza corpo come ramo senza madre.
Nel cielo, infinito segno d’esistenza, dolore e gioia, nero o bianco,
contro di lui tutto si disegna, anche l’oscurità giacente negli occhi.
Sulle ruote verso luogo di silenzio e d’acqua, figura di incerto equilibrio.
Una foglia, nel cielo per la terra, leggera come il braccio.
La luce del freddo si depone sul nero tronco d’uomo.
Regolare, nella cadenza dell’abitato, il treno disegna tra gli alberi
paesaggi inesatti ed indefiniti. Occhi di foglia.
Lo scorrere delle mani sulla materia per cercare il segno che indichi l’esistenza.
Alberi che tramano il cielo, dal finestrino di un treno il disegno del tempo”.
(Antonio Violetta, 23 Febbraio 1992. Per Alberto Giacometti [Parigi, Musée d’Art Moderne, Rendiconti, 31, 1992, p. 72])
‒ Irene Biolchini
LE PUNTATE PRECEDENTI
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
Gli artisti e la ceramica #12 – Emiliano Maggi
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