Natura, arte e pandemia. Intervista a Marco Scotini
In occasione della giornata dedicata alla Terra, in programma il 22 aprile, Marco Scotini, curatore delle mostre organizzate dal PAV di Torino, dice la sua sulla situazione attuale e sul ruolo che gli artisti possono, e devono, giocare in questo momento. Spaziando dalla pandemia alla centralità della natura.
Il dialogo tra arte e ambiente è stato declinato negli anni nei modi più diversi e ha assunto numerose forme. In ambito italiano, l’esperienza del Parco Arte Vivente di Torino fa incontrare e mescola un’arte che si nutre di natura e nella natura vive con produzioni più orientate alle soluzioni sia tecnologiche che sociali e lavori e artisti con le radici ben piantate nell’antropologia. Nato nel 2009 da un’idea dell’artista Pietro Gilardi, il parco comprende spazi espositivi all’aperto come anche all’interno, dove ospita inoltre laboratori didattici.
Il PAV organizza mostre temporanee che esplorano le varie declinazioni di un’arte che sperimenta nuovi modi di relazione tra uomo e ambiente e indaga sul ruolo della creatività nella ridefinizione di queste relazioni. A curare le mostre, dal 2014, è Marco Scotini, critico, autore e curatore. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare il lavoro al PAV, la filosofia che lo anima e come il parco sta affrontando l’emergenza COVID-19.
Arte ed ecologia si incrociano sempre più spesso. Un incontro declinato in maniere molto diverse che spaziano dall’attivismo alla rappresentazione di dati scientifici, passando per l’arte ambientale. C’è una definizione che preferisci tra arte ecologica, arte ambientale e altre? Qual è la tua personale definizione di arte che parla di questioni ambientali?
A essere rigorosi, un’arte così concepita non dovrebbe avere nessun attributo perché finirebbe nella categoria delle tendenze e degli stili. Tra arte minimalista, Pop Art o arte ambientale non ci sarebbe alcuna differenza sostanziale: rientrerebbero tutte in un manualetto di storia dell’arte. Piuttosto, la stessa categoria di arte dovrebbe subire una forte inversione perché l’arte, come la scienza, la geografia o la storia, nasce da una separazione originaria: così come la mente dal corpo, il pensiero dall’azione, la cultura dalla natura. Diciamo che questi dualismi (tipicamente occidentali) sono anti-ecologici. Come ha fatto Timothy Morton con il suo libro Ecologia senza natura, ne dovremmo scrivere un altro intitolato Ecologia senza arte. Secondo quale principio per secoli siamo riusciti a ipotizzare una natura senza storia e un uomo senza natura è un mistero ancora da sciogliere. Personalmente preferisco lavorare entro un paradigma estetico, in rapporto a quello scientifico che, al contrario, ha dominato e continua a dominare la modernità. Anche se poi, quando è chiamato direttamente a dare spiegazioni ‒ come nella pandemia attuale ‒, il pensiero scientifico mi pare il grande assente a livello sociale.
Pensi che sia una responsabilità dell’arte e degli artisti di oggi sensibilizzare il pubblico sui temi ambientali? Quale può essere il contributo concreto dell’arte al dibattito sui cambiamenti climatici e il futuro del Pianeta?
Credo che la responsabilità degli artisti consista piuttosto nella ricerca di una de-professionalizzazione dell’arte e nel coltivare un nuovo tipo di creatività. Il modo apocalittico in cui i problemi ambientali sono posti oggi può solo generare un’estetica del sublime o del terrore, cioè qualcosa che ancora si situa entro la dimensione modernista del capitalismo e del razionalismo. Che cosa potrebbe mai fare un artista (o qualsiasi altro soggetto) in uno scenario simile? Lo stato e l’impresa (scientifica) possono solo incoraggiare a trovare soluzioni tecno-burocratiche ed economiciste, attraverso decisioni autoritarie. Ma gli artisti possono formare nuovi valori e nuovi immaginari concreti per percepire e concepire il mondo attraverso nuove politiche dell’attenzione, scarti differenziali impercettibili, logiche della sensazione. O, meglio per proporre un re-incantamento del mondo, come dice Silvia Federici.
Ci puoi illustrare la filosofia curatoriale dietro il tuo lavoro al PAV?
Ho cominciato a curare progetti al PAV nel 2014 e credo che l’istituzione torinese fondata da Piero Gilardi nel 2008 sia ancora qualcosa di esclusivo nel panorama italiano, proprio per la sua conformazione. Come è noto, lo spazio verde del PAV è maggiore dello spazio espositivo e dunque l’opzione fondativa non è stata una velleità tra tante altre ma è nata da un intento preciso e pionieristico, se è vero che adesso l’ecologia in arte sta diventando il trend di edizioni di Biennali, Documenta, Manifesta e quant’altro. Quando sono arrivato, il PAV stava lavorando soprattutto sulla bioarte, mentre adesso abbiamo cercato di vedere il rapporto uomo-natura sotto una luce più storico-politica. Anzi direi geo-politica, perché abbiamo puntato il nostro sguardo su ricerche nel Sud Est Asiatico, in Cina, in Africa, valutando l’impatto del colonialismo e della schiavitù su quelle aree. Credo che il cosiddetto Antropocene vada dotato di una storia concreta e non ridotto a un’astrazione in cui tutti siamo colpevoli della crisi attuale.
Il 5 marzo era in programma al PAV la mostra da te curata Politics of Disaster. Gender, Environment, Religion. La mostra è stata sospesa per via dell’emergenza COVID-19. La riprenderete?
La mostra di Arahmaiani è stata montata pezzo per pezzo fino al giorno prima dell’opening, poi le Turkish Airlines hanno interrotto i voli per l’Italia e il distanziamento sociale ha fatto il resto. Quando abbiamo pensato al titolo della mostra non ci saremmo mai immaginati che il disastro ci avrebbe travolto. Proprio perché le opere di Arahmaiani sono una sfida individuale e collettiva al disastro (neoliberista, ambientale, di genere) e dunque qualcosa di strettamente connesso al presente che viviamo. Con il direttore del PAV, Enrico Bonanate, abbiamo deciso di sospendere la mostra e di aprirla al pubblico con la fine dei provvedimenti governativi. In accordo con l’artista abbiamo deciso però di non farne circolare alcuna immagine, di non proporre alcun tour virtuale. Visto lo tsunami digitale di cui ci ha investito il sistema dell’arte contemporanea in questi giorni, credo che la decisione sia stata saggia. Non si può combattere l’inquinamento contribuendo ad alimentarlo.
Puoi comunque dare qualche anticipazione sulla mostra che vedremo quando riaprirete?
La mostra rientra nel quadro inaugurato da Zheng Bo due anni fa e che ha visto poi le personali degli artisti indiani Ravi Agarwal e Navjot Altaf. Ora quella dell’indonesiana Arahmaiani. Il titolo Politics of Disaster mi sembra quanto mai adeguato alla situazione che stiamo vivendo in questi giorni. La parola “disastro” ricorre continuamente nelle affermazioni di Arahmaiani in rapporto alla propria storia individuale e collettiva. La dittatura di Suharto, il colonialismo olandese, il fatto di essere un’artista donna in una comunità musulmana, sono tutti temi chiave del suo lavoro radicale che si fonda sul proprio corpo, o meglio sulle forze che lo muovono. Il disastro, e non i suoi effetti, è il punto di partenza di Arahmaiani che cerca di sfidare le forme di oppressione sulla natura e sulla donna attivando pratiche associative e immaginari ecologici che ci riguardano tutti.
Hai citato la triste preveggenza del titolo della mostra, un titolo che riunisce tre temi che possono sembrare non immediatamente collegati. Ci puoi spiegare se e perché vedi una correlazione tra questioni di genere, religioni e ambiente e come questa correlazione traspare nel lavoro di Arahmaiani?
Fuori dai dualismi occidentali, il resto del mondo è vissuto per millenni all’interno di culture sincretiche in cui minoranze etniche, pluralità religiose e forme di auto-sostenibilità potevano convivere tra loro, senza escludersi reciprocamente. Questo paradigma sincretista (che avrebbe ricevuto forti smottamenti dall’arrivo della modernità) è quello rivendicato con forza da Arahmaiani. In nome di che cosa? Del rispetto delle diversità e delle minoranze, dell’abbattimento delle gerarchie e delle ineguaglianze, della ricerca di terreni comuni tra culture, credenze, generi, valori. Il fatto che abbia cercato di lavorare per anni e anni in Tibet, nei monasteri buddisti, è un segno chiaro di come per l’artista non esistano comunità attardate e avanzate. Se l’aspirazione massima di un artista è quella di lavorare al MoMA, di quale ecologia dovremmo mai parlare? Infatti dalla sua critica Arahmaiani non esclude il sistema dell’arte, del suo potere, delle gerarchie che esso produce.
Ritieni che l’arte asiatica sia più sensibile o vicina ai temi ambientali di quella occidentale? C’è qualcosa che gli artisti occidentali possono imparare da quelli asiatici riguardo a questa materia?
Non ho dubbi in proposito. Il rapporto fusionale con la natura in Oriente non è mai stato messo in discussione se non con l’arrivo del capitalismo e dell’idea di democrazia occidentale. Il fatto che storicamente queste soggettività si siano nutrite di buddismo o taoismo ha fatto sì che per tali ambienti Sisifo non sia visto come un condannato ma come un uomo felice. A parte questo, credo che il maggiore contributo alla crisi ecologica attuale ci arrivi dalle donne del Sud del mondo. Mi viene in mente Vandana Shiva ma anche le lotte delle donne indiane contro le deforestazioni, di quelle africane per i commons, di quelle latino-americane per la giustizia sociale. Ben diversa è in Occidente la questione del femminismo che ancora si limita (in molti casi) a una forma di auto-affermazione individuale.
Come si sta muovendo il PAV durante l’emergenza COVID-19? Avete organizzato iniziative particolari? Cosa prevedete per i prossimi mesi?
Per sua matrice e per la sua missione ecologista, il PAV è fortemente radicato in uno spazio fisico, contestuale e non astratto: non solo per il parco di circa 24.000 metri quadrati che ospita l’istituzione (con le sue risorse naturali) ma anche per la rete comunitaria che lo frequenta nei suoi gruppi di lavoro, nei suoi laboratori didattici, nella coltivazione dei suoi orti e nelle ricerche sui vegetali. Ora ci limitiamo a postare alcuni approfondimenti testuali. Pensare a una versione digitale delle sue attività non solo è impossibile ma è anche tutto ciò che il PAV non vuole fare. Per il PAV non si tratta di interrompere la propria attività con la quarantena ma di rivendicarla a un livello più consapevole, sapendo quali dissociazioni sono all’origine del nostro rapporto con le tecnologie telematiche: svalutazione del corpo, spersonalizzazione del lavoratore, monitoraggio totalizzante del lavoro, messa in ridicolo dei rapporti sociali, canalizzazione delle condotte, incremento delle capacità militari e di polizia della classe capitalista. Il fatto che ci ostiniamo a vedere le nuove tecnologie come portatrici di prosperità e cooperazione la dice lunga sul livello di impoverimento che abbiamo raggiunto tanto nei saperi che nei poteri autonomi, individuali e collettivi. La più lucida e coerente figura sotto questo aspetto è ancora una volta una femminista ed ecologista come Silvia Federici. In questa miseria radicale, la Federici afferma, il digitale seduce tutti con enorme profitto del capitale.
Molti stanno interpretando questa pandemia come un segnale della Terra che ci chiede di rallentare e alleggerire il nostro impatto. Tu come la vedi? Ritieni che ci sia un messaggio potenzialmente positivo dietro questa crisi? Pensi che saremo in grado di cogliere questi segnali? In che modo l’arte può essere parte di questo processo?
Penso che non c’era bisogno della pandemia per avere segnali dalla Terra (visto che sono anni e anni che stiamo discutendo della sua espropriazione) e non c’era bisogno di un confronto così diretto con le tecniche sociali restrittive per capire realmente lo stato d’eccezione nel quale ci troviamo. Il disastro che stiamo vivendo è nuovo nella sua forma ma non nella sostanza. Credo che si tratti di uno sviluppo accelerato di quanto era stato programmato ma, da anni, in riserva: senza possibilità di essere pienamente applicato. Non abbiamo a che fare con un’inversione di tendenza, con l’arresto imprevisto e drammatico di un sistema ma, al contrario, con il suo dispiegamento totalitario. Virus e globalizzazione, inefficienza dell’ipertrofia della comunicazione, il distanziamento sociale come logica conseguenza della governabilità a distanza del lavoro e della vita. Non sono così sicuro che siamo in grado di cogliere i segnali che ci arrivano da uno stato di sofferenza come l’attuale, una volta vista la risposta euforica e schizofrenica che le retoriche criminali di questi giorni hanno dato: senza porsi un freno, senza alcuna logica dell’attenzione, senza ecologia. “Lavoratori e terra unitevi!” era il monito che Zheng Bo aveva lanciato dal PAV più di un anno fa.
‒ Maurita Cardone
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