Giovani artisti e quarantena. Parola ad Aurora Paolillo
Su cosa stanno lavorando da casa i giovani artisti in questi giorni? Oggi riprendono le nostre interviste in giro per l’Italia. Questa volta è il turno di Aurora Paolillo, torinese classe 1990.
Qualche giorno fa su La7 l’ex ministro dei Beni e delle attività culturali Massimo Bray, nel commentare una domanda del condutture, ha pronunciato la parola certezza. In questo momento di transizione e instabilità politica e culturale, dovremmo prendere seriamente in considerazione il significato del termine e agire in vista dalla tanto sospirata Fase 2. In questi giorni le certezze sono lontane anni luce dalla razionalità, il 4 maggio si avvicina e tutti i buoni propositi auspicati nei mesi precedenti sembrano essersi trasformati in accuse reciproche da parte degli interlocutori interessati. È paradossale quanto la situazione politica di oggi sembri essere più vicina all’Italia preunitaria che a quella attuale, visti i forti sentimenti regionalistici, i conflitti tra le regioni del Nord e quelle del Sud e le continue tensioni tra il Governo centrale e le utopiche promesse dell’Unione Europea. Insomma, ancora una volta le moderne agitazioni ci presentano nuovamente un’Italia rovesciata, appesa a testa in giù, ma speranzosa di ritrovare al più presto qualche certezza.
AURORA PAOLILLO DA TORINO
Come stai affrontando questa quarantena?
Ultimamente mi sto dedicando a vari progetti, ma con lentezza. Mi sono posta molte domande sulla produzione di un artista e su quali fossero le mie necessità al riguardo. Il risultato è stata la volontà di rallentare e di creare con più consapevolezza. Credo sia importante, soprattutto in questo momento, rapportarsi con il mondo circostante non con cecità, ma con l’ammissione che ognuno di noi contribuisce alla creazione di un ecosistema dove ogni nostra azione si ripercuote su di esso. Rendersi conto di questo è un atto di responsabilità al quale non possiamo sottrarci, neppure come artisti. Negli ultimi lavori avevo affrontato tematiche “apocalittiche” e forse un po’ distopiche, ispirandomi al Kali Yuga, un’epoca ‒ secondo la maggior parte delle scritture sacre induiste ‒ caratterizzata da moltissimi conflitti, epidemie e povertà spirituale e attribuibile alla nostra contemporaneità. Partivo da uno scenario apocalittico, ma dietro questa oscurità mi concentravo nel trovare, senza presunzione, una specie di soluzione, una specie di cura alla nostra epoca. Magari avvicinandosi alla terra e al mondo animale.
In questa quarantena sto volgendo lo sguardo al mondo delle piante, per raccontare come questi esseri siano vivi e importanti quanto lo siamo noi, guardo per esempio al loro modo di muoversi e di ricordare, per ispirarmi e mettere in dubbio la nostra visione antropocentrica. Oltre a queste ricerche sto avviando la creazione di un mio marchio, Edera Studio, che comprenderà sia gioielli per la persona (in questo caso utilizzo ottone, argento e pietre dure) sia “gioielli” per l’abitare. Lo definisco un progetto di “meta” design, un design “metaforico”, attraverso il quale l’oggetto viene rimandato a un significato altro attraverso la sua forma o la sua funzione o la sua affordance.
Come percepisci in questo periodo il tuo lavoro e che tipo di risvolti potrebbe avere la tua pratica artistica?
In questo momento non sento sia necessario scandire ogni attimo in maniera perentoria, ma, al contrario, ascoltare il più possibile i nostri stati d’animo e assecondarli. In questo periodo sembra che il tempo debba essere per forza riempito. Io preferisco invece lasciare spazio anche al vuoto per quanto a volte sia faticoso, ma credo sia importante favorire la richiesta di rallentare. Almeno è quello che sento io intimamente. Inoltre, ho la fortuna di svolgere anche un altro lavoro che mi permette di affermare questo pensiero che si volge alla lentezza. Probabilmente, se vivessi di sola arte, il discorso avrebbe preso un’altra piega. Questo periodo per me è la conferma di quanto raccontavo precedentemente, quindi credo che la mia pratica artistica continuerà orientandosi in quelle direzioni, tese al rispetto di ciò che abbiamo intorno, scavalcando le “certezze” che poco tempo fa scandivano la nostra quotidianità e, più largamente, la nostra società. Vorrei poter dare un nuovo ritmo alla vita e mi chiedo se mai sarà possibile alla fine di tutto questo.
Lo scorso autunno hai inaugurato il tuo nuovo studio e avevi dei progetti in cantiere. Una volta che terminerà il lockdown, come pensi di ritornare alla normalità?
Sì, a settembre ho inaugurato il mio nuovo studio situato in Borgo San Paolo a Torino e da novembre lo condivido con una mia cara amica e artista, Cecilia Ceccherini, con la quale condividiamo ricerche e intenti simili. In questo mese volevamo inaugurare fondo, un project space un po’ particolare, che sicuramente sarebbe stato bandito dagli attuali decreti, vista la dimensione ridotta di questo spazio. Si tratta di una buca nel pavimento le cui dimensioni sono 256 x 140 x 84 centimetri, un luogo che precedentemente era utilizzato dai meccanici per lavorare al di sotto delle macchine. La sua particolarità costringe chi lo fruisce a immergersi in una dimensione non abituale. Oltre a ospitare singoli artisti o collettivi, volevamo potesse diventare anche un luogo dedicato alla condivisione e alla vicinanza, nel quale dare spazio a lecture e performance, ma, ironia della sorte, il nostro intento “conviviale” è stato bloccato dal lockdown. Ci auguriamo di inaugurarlo presto per apprezzare ancora di più l’importanza del condividere, se così non fosse studieremo altre soluzioni per poterlo raccontare e vivere.
‒ Giuseppe Amedeo Arnesano
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