15 anni di Fondazione Merz. Intervista alla presidente
Parola a Beatrice Merz, presidente della Fondazione torinese intitolata a Mario Merz e attiva nel panorama dell’arte da ormai quindici anni.
Sono trascorsi quindici anni dalla nascita della Fondazione Merz a Torino, pensata da Mario e Marisa Merz alla fine degli Anni Novanta come spazio espositivo e luogo di ricerca. Ne abbiamo parlato con la presidente Beatrice Merz.
Quali gli esordi della Fondazione? Quali i momenti salienti?
La Fondazione inaugurò lo spazio espositivo nel 2005, ma come Ente nacque prima. L’idea e il progetto furono formulati con mio padre Mario e mia madre Marisa tra fine Anni Novanta e inizio Duemila. Nel giro di qualche tempo ci mettemmo in moto per trovare una sede appropriata. Avevamo intenzione di aprire una sorta di magazzino aperto, uno spazio dove collocare le opere, ovvero dove averle sempre disponibili e renderle visibili a un vasto pubblico. Cercavamo però un luogo di presentazione che si prestasse anche a divenire palestra per la ricerca di artisti invitati a confrontarsi con lo spazio stesso e con le opere di Mario. Non fu difficile trovare ciò che faceva al caso nostro: individuammo insieme l’ex centrale termica delle Officine Lancia di via Limone, in Borgo San Paolo. Fu amore a prima vista. Versava in una situazione disastrosa. Si trattava di uno spazio abbandonato da decenni, ma era anche un luogo ricco di fascino sia per il tipo di architettura funzionalista Anni Trenta sia per l’area esterna sia per il fatto di essere stato il motore termico di un’industria storica, quindi dotato di valore simbolico. L’edificio, grande ma non enorme – 3200 metri quadrati complessivi ‒, aveva una dimensione giusta, quasi famigliare. Dopo un importante lavoro di recupero, e quasi due anni dopo la scomparsa di mio padre, la Fondazione fu dunque aperta nel 2005 con una sua personale organizzata insieme a GAM e Castello di Rivoli: un omaggio dei musei cittadini all’artista scomparso. Noi, in via Limone, fummo l’ultima tappa della mostra, articolata in tempi diversi. In questo Torino ha fatto scuola, perché ha dato origine a un comparto basato sulla collaborazione fra varie istituzioni d’arte, facendolo funzionare sempre molto bene.
Marisa ha contribuito in modo importante alla nascita della Fondazione.
Sì, lei ha seguito sempre con molta attenzione il progetto della Fondazione, ne era molto felice e visse tutte le sue fasi. Ma il suo momento di maggior partecipazione fu, anni dopo, la creazione del Mario Merz Prize. Il premio nacque nel 2013 per il decennale della morte di mio padre. Era tempo che ci chiedevamo cosa fare, se organizzare una commemorazione o altro. La scelta migliore – e quella che Marisa ha sempre sostenuto ‒ si rivelò ideare un progetto ex novo, ovvero il Premio stesso. Oggi è per me molto coinvolgente fare ricerca ad ampio raggio sull’arte contemporanea, su artisti mid career provenienti da tutte le aree del mondo. In loro cerchiamo, più che un’affinità creativa, una vicinanza di pensiero all’impegno che fu di mio padre, seppur espressa con stili e modalità operative totalmente diverse. Gli artisti selezionati devono nutrire generosità verso il pubblico e denotare nelle opere implicazioni sociologiche e applicazioni politiche: in sintesi, devono mostrare una spiccata attenzione all’attualità. L’operazione è diventata un’interessante forma di scouting.
Lei è stata ab initio direttore e presidente della Fondazione, per divenirne poi solo presidente. Come è cambiato, se è cambiato, il suo ruolo?
No, direi che non è cambiato per nulla. A parte la parentesi della direzione del Castello di Rivoli dal 2010 al 2015, ho sempre seguito la programmazione della Fondazione, appoggiandomi a curatori ‘ospiti’ come alle forze curatoriali interne. Il comitato scientifico che ci affianca ‒ composto da Frances Morris, direttrice della Tate Modern, Vicente Todolí, direttore artistico di Pirelli HangarBicocca, Richard Flood, storico curatore newyorkese, e dall’architetto Mariano Boggia, che per anni ha collaborato con Mario e Marisa ‒ è fantastico, una vera forza. Fra noi ci sono dialogo, profonda sintonia e stima. Il team di collaboratori, tutti con me fin dall’inizio, ha seguito il percorso della Fondazione; 15 anni insieme, per organizzare tante mostre ed eventi, ci hanno resi compatti.
L’elenco delle mostre da voi realizzate nel tempo è lungo: 70 esposizioni, con 172 artisti, e 147 eventi. Nel programma di rievocazione digitale del passato che attuate quotidianamente (#FondazioneMerzRewind) in questo periodo di lockdown, quali mostre riproponete e perché?
È un’iniziativa che abbiamo avviato per stare uniti e sta rivelando risvolti inediti e interessanti. Diamo a tutte le esposizioni organizzate in passato lo stesso peso, ma la loro riproposizione dipende molto dal materiale che abbiamo in archivio. Si tratta di documentazione presentata senza alcuna rielaborazione. Quando c’è il materiale, video e foto, non ci sono problemi, condividiamo tutto. È interessante notare come le immagini, anche dopo tanti anni, mantengano intatto il loro senso d’attualità. Fra le mostre che mi piace ricordare in questi giorni di rievocazioni, quella nel 2009 di Wolfgang Laib che metteva in scena il ‘fuoco dei bramini’, un’esperienza irripetibile e anche un po’ folle.
Che cosa accadde?
Facemmo arrivare quarantacinque bramini dall’India, mai usciti dal loro Paese, catapultandoli in una città come Torino per officiare due volte al giorno, nello spazio esterno alla Fondazione, il rito del fuoco. Un’altra mostra straordinaria fu quella del 2013 di Alfredo Jaar (Abbiamo amato tanto la rivoluzione): si poteva camminare su un tappeto di frammenti di vetro i cui ‘inciampi’ invitavano a rivivere e rielaborare i conflitti e le contraddizioni dei fatti politico-sociali degli Anni Sessanta e Settanta. Ma furono tante le mostre importanti: per esempio, quella di Christian Boltanski fu molto emozionante. Gli artisti hanno sempre elaborato per la Fondazione progetti speciali site specific, e noi abbiamo sempre lavorato passo passo con loro stimolandoli nella progettazione. Non si è mai trattato di retrospettive. Le uniche fatte sono quelle di Mario e Marisa, allestite in sede e fuori sede. L’ultima di Mario (Mario Merz. El tiempo es mudo) è ora ‘blindata’ al Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. A essa abbiamo contribuito, come di consueto, confrontandoci con i curatori e offrendo supporto scientifico. In quest’ambito è stato annunciato, tra l’altro, la vincitrice del terzo Premio, Bertille Bak. Amiamo proclamare i vincitori in situazioni espositive internazionali dedicate a mio padre, è una sorta di rito.
Negli ultimi anni si è manifestata un’importante apertura verso altre realtà: per esempio, a Palermo, nell’ambito di BAM ‒ Biennale Arcipelago Mediterraneo, ma anche in Libano, Spagna, Svizzera, Stati Uniti. Si tenderà a delocalizzare sempre di più le attività? Ci fa qualche esempio a proposito della vostra espansione al di fuori dei confini torinesi?
Abbiamo sempre concepito mostre dal messaggio forte, considerandole occasioni per mettersi in gioco con lo spazio della Fondazione da parte degli artisti stessi, però volevamo anche lavorare con altri network, trasmettere i nostri messaggi fuori Torino. Abbiamo partecipato a due edizioni della Biennale Arcipelago Mediterraneo (BAM) a Palermo, nel 2017 e nel 2019. Nella prima portammo a Palazzo Branciforte e nella piccola Chiesa di SS. Euno e Giuliano Wael Shawky (vincitore del primo Mario Merz Prize) e poi nel 2019 contribuimmo a ÜberMauer, un grande progetto espositivo che coinvolse la città, molto complesso dal punto di vista dell’organizzazione e dei contenuti. Realizzarono importanti progetti site specific, cogliendo appieno la sfida lanciata da Palermo, tra gli altri, Michal Rovner nella Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, e Damián Ortega in Piazza Magione. I vari spazi cittadini si aprirono a nuove letture grazie a loro. All’estero, in Libano, la personale di Zena el Khalil si trasformò nel 2017 per quaranta giorni in un format di eventi in un palazzo di Beirut molto ricco di memorie, posto proprio lungo la greenline, da dove sparavano i cecchini durante la guerra civile libanese. Proseguiremo in questa direzione.
E la Fondazione Mario Merz con sede a Zurigo, un vero avamposto internazionale, che ruolo svolge?
La Fondazione svizzera, anche se al momento continua a non essere dotata di uno spazio espositivo, rappresenta una parte importante del Mario Merz Prize. A Zurigo, al Kunstmuseum, abbiamo presentato in anteprima mondiale il film Al Araba Al Madfuna III di Wael Shawky. E poi, per Petrit Halilaj, vincitore del secondo Premio, abbiamo realizzato una collaborazione con il Zentrum Paul Klee di Berna allo scopo di esporre una prima parte del progetto che poi è stato completato a Torino. Sia in Svizzera che a Palermo diamo seguito a progetti in collaborazione con musei o istituzioni del luogo, siamo ospitati per poi ospitare a nostra volta: si sta trasformando in una formula di collaborazione permanente.
Lei crede che i social possano surrogare le abituali pratiche relative alla frequentazione dell’arte? Le attività online, sviluppate durante il lockdown, che caratteristiche devono presentare per essere attrattive?
Una bella domanda, credo che per molti di noi questa sia un’esperienza nuova, traslare progetti sul web è quasi una sperimentazione. Devono avere la capacità di tenere vivi i legami raccordandosi con il passato e parlando del futuro, ma quello che mi chiedo è cosa succederà dopo. La domanda è: ‘il nostro pubblico come tornerà a frequentare i musei? Con quale attenzione, e con quale spirito?’ È interessante oggi seguire questi format, ma non dovrà finire qui. Certamente dovremo continuare a utilizzare questi mezzi, ma il ri-approccio fisico – perché l’opera va vissuta fisicamente – sarà comunque prioritario. Troveremo il modo di far tornare le persone nei musei. Non ci si deve accontentare della cultura online. Non vedo l’ora di poter aprire la prossima mostra Push the limits, che abbiamo interrotto di allestire a causa del lockdown, e stimolare il pubblico a visitare nuovamente la Fondazione, pur con tutti i contingentamenti del caso. Il tema di questa esposizione, tutta al femminile, è la capacità di cavalcare e spingere i limiti fisici, sociali, psicologici, tema oggi quanto mai attuale. Nel corso della sua definizione, con la curatrice Claudia Gioia, ci siamo concentrate sulle artiste donne perché riteniamo che in loro sia forte l’attitudine a spingersi oltre.
Ci può parlare del dialogo Instagram Scusi, non capisco che state per aprire con artisti e amici della Fondazione, sul tema dell’ “utilità dell’arte in momenti di grande crisi”?
Il progetto Scusi, non capisco, a cura di Maria Centonze e Agata Polizzi (dal 3 maggio su Instagram fino a fine giugno ogni domenica alle 16.30), è impostato sul dialogo fra personaggi del mondo dell’arte e altri di diversa professionalità. Ecco alcuni interrogatovi dai quali partono le conversazioni giocate sul tema del ruolo dell’arte in epoca di crisi globale, come la pandemia che stiamo vivendo: ‘L’Arte può avere un ruolo sociale in grado di modificare gli equilibri?’ ‘L’arte, soprattutto se contemporanea, ha influenza sulla vita e in quale misura?’
A cimentarsi nelle risposte, provocate dalle domande di storici dell’arte come Costantino D’Orazio, Giusi Diana o Samuel Gross, dal tono spesso ironico, ci saranno l’avvocato, l’imprenditore, il giornalista, l’attore… Abbiamo scelto una rosa di persone che, pur non appartenendo al mondo dell’arte, ne sia in qualche modo attratta: dall’imprenditore Vito Planeta al climatologo Luca Mercalli, dai giornalisti Salvatore Cusimano e Marco Zatterin all’attrice Pamela Villoresi, tutti dotati di piglio curioso e critico, sempre pronti a mettersi in discussione.
‒ Alessandra Quattordio
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