Brescia riparte dalla cultura. Intervista a Stefano Karadjov, direttore di Fondazione Brescia Musei
In questi giorni la Fondazione Brescia Musei ha siglato una nuova “Alleanza per la Cultura”: un innovativo patto pubblico-privato che riscrive i vecchi format di fundraising culturale adottati dalla Fondazione e dal Comune di Brescia. L'obiettivo? Stabilire un rapporto duraturo, partecipativo e mutualmente beneficiale tra la Fondazione e le aziende, ma anche tra le istituzioni formative, enti e fondazioni di sviluppo del territorio.
In un momento di grande trasformazione sociale e culturale dovuta alla pandemia, la Fondazione Brescia Musei decide di reinventarsi con una operazione coraggiosa e inedita nel panorama italiano: ripensare se stessa, attuando una nuova prospettiva di valorizzazione e promozione, tanto del patrimonio culturale locale quanto della sua partecipazione, chiamando a sé soggetti pubblici e privati, con forme e modalità diverse. Ne abbiamo parlato con il direttore Stefano Karadjov.
Quando parliamo di questa nuova “Alleanza per la Cultura” di cosa stiamo parlando?
Di un patto pubblico-privato che abbiamo costruito nell’arco di un semestre, tra il 2019 e il 2020, con l’obiettivo di affiancare alle nostre revenue consolidate (come per tutti da un trimestre ormai sottoposte a forte rischio in ragione dell’emergenza sanitaria che viviamo) un nuovo tipo di supporto economico, stabile, svincolato da specifiche iniziative, mostre o eventi, su cui ovviamente avevamo e continuiamo ad avere delle opportunità di sponsorizzazione verticale sul prodotto.
La novità è data soprattutto dalla durata triennale del rapporto, e dalla natura del “patto”. La Fondazione Brescia Musei si impegna a essere un fattore di sviluppo culturale per il territorio, sviluppando un programma culturale triennale identitario, teso alla valorizzazione del patrimonio materiale con progetti di restauro, riqualificazioni dei siti monumentali e archeologici, nuove accessibilità – tutti elementi che potenziano l’attrattività della piattaforma territoriale su cui insistiamo – e immateriale, con un progetto di eventi tematici temporanei che sono legati alle specificità bresciane e lombarde, come per esempio il riposizionamento culturale della nostra area archeologica (una delle più significative dell’Italia settentrionale), la riscoperta dei pittori di realtà dal Rinascimento al Barocco bresciano e lombardo (partendo dal grandissimo Ceruti, su cui abbiamo un progetto in via di sviluppo), e dando lustro anche a collezioni erroneamente considerate “minori” (penso al patrimonio eccezionale di disegni e stampe della Collezione dei Musei Civici, che ad esempio valorizzeremo con una mostra importante a ottobre 2020, Raffaello: alle origini del mito, intorno al nostro giacimento raffaellesco, in questo anno così significativo).
E per quanto riguarda le aziende?
Le aziende e le autonomie funzionali di Brescia, dal canto loro, recepita questa svolta rispetto a una gestione episodica per progetti spot, pure con alcune produzioni valide, ma priva di questo accento di valorizzazione territoriale di lungo periodo, ci sostengono entrando nel nostro mondo, stringendo un rapporto duraturo, partecipativo e direi mutualmente beneficiale all’insegna della valorizzazione e della promozione del patrimonio artistico cittadino e del sostegno ai grandi eventi della comunicazione culturale di Fondazione Brescia Musei, garantendo un sostegno stabilito dall’inizio per tre annualità e la visibilità sulle risorse a disposizione, e quindi la possibilità di programmare, fare qualche economia di scala.
Un segnale importante, non solo per la città e per la comunità coinvolte, che offre una indicazione chiara sul ruolo che può e deve avere la cultura in questa complessa fase di rilancio del Paese. Solitamente (purtroppo) in Italia i rapporti tra eccellenza culturale e nuove proposte d’interpretazione con finalità “altre” (anche economiche) del patrimonio vengono spesso travisati e messi in contrasto, ma nel caso della Fondazione Brescia Musei, pare invece esserci un giusto equilibrio.
L’equilibrio non può che venire da alcuni fattori chiaramente esposti con trasparenza. Li sintetizzo brevemente.
In primis: le spese ordinarie di Fondazione Brescia Musei, quindi tutti i costi strutturali, la didattica, la manutenzione, le spese vive per l’attività della Collezione permanente sono, come è stato dal principio della vita di questa Fondazione, garantite da risorse proprie (bigliettazione, bandi statali, regionali o di Fondazioni di sviluppo insieme al fondamentale sostegno del Comune di Brescia per conto del quale gestiamo i Musei Civici in forza di una concessione); il supporto dei partner di Alleanza per la Cultura interviene invece solo sulle iniziative speciali, ovvero quelle che sono state costruite per questo prossimo triennio, e che rispondono più direttamente alle ragioni promozionali di cui parlavamo, oppure sul miglioramento delle attività di supporto alla visita dei musei, su cui stiamo intervenendo con un progetto di formazione per gli addetti, sempre più “tutor” della visita museale, e sempre meno guardasala.
E poi?
E poi un ruolo non solo rappresentativo del Comitato scientifico, che nel caso di Fondazione Brescia Musei è un fortissimo team di stimatissimi esperti nazionali e internazionali: studiosi, direttori di musei, super professionisti della gestione museale. Abbiamo reso strutturale il loro sostegno, con incontri frequenti, ascoltando moltissimo i loro suggerimenti, facendone corpo vivo delle nostre attività con coinvolgimenti diretti nei progetti più importanti. Ci stanno dando una mano incredibile, e non è questione di solo endorsment, voglio ringraziarli e nominarli tutti (anche perché alcuni di loro si sono aggiunti solo di recente): Marcello Barbanera, Gabriella Belli, Guido Beltramini, Emanuela Daffra, Hugues de Varine, Alberto Garlandini, Paola Marini, Claudio Salsi, Valerio Terraroli.
Fiducia e consapevolezza tra più soggetti a più livelli, in quest’ottica i visitatori e i supporter non sono più soltanto destinatari ma parte attiva del processo di produzione culturale. Musei e Beni Culturali dunque diventano opera collettiva?
Direi che in nessun caso, nel corso della raccolta delle adesioni alla Alleanza, abbiamo ricevuto indicazioni specifiche rispetto al focus su determinate progettualità. Anche perché ci siamo presentati con un programma triennale, strutturato per palinsesti, 2020/22, con un fortissimo inizio dedicato al Palinsesto intorno alla Vittoria Alata (che torna a fine anno dopo un lungo e laborioso restauro all’Opificio delle Pietre Dure) e al rilancio dell’area romana, su cui interverremo nei prossimi 12/16 mesi con una dozzina di progetti straordinari, tra antico e contemporaneo, passando per l’architettura (Juan Navarro Baldeweg, che ha firmato il progetto della nuova cella del Capitolium che ospiterà la Vittoria, a cui dedichiamo come prolessi scientifica la mostra monografica Juan Navarro Baldeweg. Pittura, scultura, architettura. Figure in uno sfondo di energia e di processo al Museo di Santa Giulia dal 17 settembre), la fotografia (Alfred Seiland, di cui presentiamo in prima assoluta italiana a marzo 2021, dopo il successo europeo, la grande mostra Imperivm Romanvm – fotografie 2005 | 2020), l’arte contemporanea (con due progetti: il primo, Palcoscenici archeologici, composto da interventi curatoriali di Francesco Vezzoli nel Parco archeologico di Brixia romana; il secondo con una mostra di Emilio Isgrò, sempre nella fattispecie del dialogo con l’archeologia, nel 2021), e infine la grande mostra Vittoria. Il lungo viaggio di un mito, in cui esploreremo la trasformazione della iconografia della vittoria alata dal mondo ellenistico al Novecento, passando per Roma, il Rinascimento, il Neoclassico e l’Ottocento europeo.
Se invece ci riferiamo al sentirsi “genitori” di questi progetti, parlerei allora sì di collettività, anzi di collegialità, soprattutto nella sensazione, da parte di una parte dei player con cui abbiamo dialogato, di sentirsi trascinati in un progetto che per la prima volta non veniva proposto come un qualcosa da addetti ai lavori, senza per questo essere meno scientifico o raffinato. Ma il vertere così chiaramente su un patrimonio “affondato” nella propria identità, e percepire che qualcuno stia contribuendo ad attualizzarlo, a renderlo anche pop, in generale a risignificarlo per il tempo contemporaneo che viviamo, è stato chiaramente percepito, e dunque ha pesato nelle adesioni della trentina di realtà coinvolte.
A proposito di best practice, in un momento di profonda revisione dell’intero comparto culturale, in questi mesi molto si è discusso e fatto nel merito dell’offerta culturale (in tutte le sue molteplici forme) ma poco si è parlato della domanda. Regole e vincoli incideranno tanto sulla sostenibilità quanto sulla “voglia” di cultura, e, tornati a una nuova normalità, probabilmente anche il nostro rapporto con la cultura e i suoi luoghi, indissolubilmente legati alla relazione fisica e di prossimità, non sarà più lo stesso. Cosa dobbiamo aspettarci all’alba della riapertura? Quali sono le vostre strategie?
Lo scopriremo prestissimo. I primi 15 giorni, come nelle mostre, dallo sblocco delle visite ai musei del 18 maggio ci diranno cosa dobbiamo aspettarci per l’estate. E poi lo scalone di autunno, quando comincia a piovere e la gente torna a vedere mostre e musei. A me preoccupa naturalmente di più il calo della domanda generato da un blocco psicologico. La sicurezza nei musei è totale. Lo è sempre stata, così come nei musei è sempre stato “vietato toccare”, per la natura dei luoghi, che sono luoghi antistress per definizione, in questo tempo di emergenza delle relazioni fisiche di prossimità. Dirò che soprattutto questo vale per i musei come i nostri, che sono il 90% dei musei italiani, luoghi meravigliosi che possono garantire, normalmente, percorsi in grande fluidità e senza affollamenti. Mi aspetto che continueremo a lavorare sul digitale; che costruiremo molto di più il rapporto con l’utente prima della visita fisica, e dopo la stessa; che per un po’ di anni le mostre saranno progetti molto più dossier e “autarchici”, con beni e contenuti locali, risemantizzabili all’infinito (in questo devo dire che noi avevamo già preso, come si sarà capito, una direzione di questo tipo: la stresseremo ancora di più); che lavoreremo molto di più con la scuola, che avrà bisogno di spazi e di idee per diversificare l’offerta formativa, oltre che con la società civile dei rispettivi territori, per essere attori della ricostruzione di senso dopo questo spaesamento fisico e psicologico che non è ovviamente ancora finito.
In conclusione, se fino a poco tempo fa al patrimonio culturale veniva riconosciuto di essere un vero e proprio apparato “produttore”, sociale ma anche economico, quindi di essere elemento vivo e vitale delle città, di creazione e formazione del sapere, ma anche di essere attrazione di capitali e investimenti, oggi com’è cambiato questo orizzonte, se è cambiato? Cosa accadrà oltre l’emergenza? I nostri musei torneranno a essere ancora considerati istituti al servizio della società e centrali per il suo sviluppo? O rischiano di finire marginalizzati o relegati al ruolo di mere attrazioni turistiche?
Per me questo momento è una opportunità nel senso che tu intendi. Ma non ci si illuda che un simile servizio allo sviluppo della comunità arrivi da solo, per la sola emergenza che viviamo. Se non si adottano precise strategie, ovvero se si ammanterà semplicemente l’ordinaria gestione di questo “zucchero a velo” di sviluppo territoriale, non cambierà nulla, i pubblici se ne accorgono subito. Dobbiamo adottare un vero cambio di passo e registro. Io sto dicendo ai miei collaboratori incessantemente chiediamoci “cui prodest?” quello che stiamo facendo. Dalla programmazione del cinema all’aperto nel nostro castello Cidneo per l’estate 2020, che vorrei molto spinta sulla animazione per l’infanzia come ristoro per il sacrificio dei bambini negli ultimi 3 mesi, alla programmazione delle video-lezioni sui nostri musei per il sostegno alla didattica a distanza delle scuole, alla stessa modalità di accesso alle nostre strutture, che deve essere non solo “contingentata” ma “accompagnata”: c’è bisogno di sentire che il punto di vista nei musei è cambiato. Dalla “tutela e valorizzazione” dobbiamo passare al “prendersi cura”: dei visitatori, del patrimonio collettivo che solo temporaneamente noi direttori abbiamo il privilegio di amministrare per conto della società civile, del corpo sociale in formazione, e infine di chi ha più disagi (disoccupati, migranti, emarginati) a cui dobbiamo trovare il modo di aprire i nostri musei, facendo capire che a) è roba (anche) loro; b) questa roba è la partenza del loro reinserimento. Ce la faremo.
‒ Massimiliano Zane
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati