Nanda Vigo, donna e artista senza paura. Il ricordo di Paola Nicolin
Essere donna in un mondo di uomini non deve essere stato facile per Nanda Vigo, ma lei seppe tenere testa a un’epoca complessa grazie alla trasversalità della sua arte e a una determinazione senza pari. Paola Nicolin la ricorda a pochi giorni dalla scomparsa.
Sarà stata dura essere donna nel Gruppo Zero. Certo Nanda Vigo (Milano, 1936-2020) avrà vissuto il clima di sperimentazione, i viaggi tra l’Italia e la Germania, l’ebrezza mista a consapevolezza di essere dentro l’avanguardia, ma anche la crudeltà del patriarcato, i maestri e non le maestre, la ragione e il torto come categorie maschili, la faticosa realtà di essere allo stesso tempo artista e compagna di un artista. Nelle foto delle numerose esposizioni ed eventi che dalla fine degli Anni Cinquanta ruotarono in Germania attorno a quel gruppo-geografia di sperimentazione e relazioni internazionali guidato da Otto Piene, Hans Mack e Günther Uecker a Düsseldorf Nanda Vigo appare il più delle volte illuminata dalla sua stessa chioma bionda. Oltre a lei ci sono Yayoi Kusama e Iris Clert; le altre figure femminili sono spesso indicate nella didascalia come “sconosciuto”. In una immagine per esempio è al centro, in abito nero, con il viso libero dai capelli raccolti da un nastro, una grande collana che le fascia il collo; al suo fianco ci sono Heinz Mack e Max Bill. Arte, design e architettura: difficile immaginare un ritratto più cristallino di questa indissolubile trilogia, di questa sintesi delle arti che sempre attraversa la natura del progetto complesso e che Nanda Vigo ha tenacemente affermato nel lavoro di una vita.
Di questa unità Nanda Vigo ha saputo dare una personalissima traduzione che forse aspetta ancora, e aspetterà sempre, una definizione esaustiva proprio per quel suo carattere personale, mosso tra le arti e al contempo precisissimo, quasi fosse in attesa di una invenzione linguistica capace di restituire le sue invenzioni visive. E in questa assenza credo stia la dimostrazione della grandezza dell’artista il cui lavoro rifugge da ogni possibile inquadramento. Nanda Vigo, che nasce e muore nella città di Milano, aveva cercato per il mondo territori fertili di sperimentazione artistica. E quando non erano per lei interessanti li mollava.
NANDA VIGO, MILANO E I VIAGGI
La Svizzera e gli Stati Uniti tra San Francisco e Chicago, Wright e Ferlinghetti, Milano con Gio Ponti e Lucio Fontana, Piero Manzoni ed Enrico Castellani, i viaggi in Germania e il Gruppo Zero, il ruolo di curatrice e interprete del lavoro di colleghi e amici – come la leggendaria e seminale mostra Zero avant-garde nello studio di Fontana nel 1965, ma anche le partecipazioni alla Biennale di Venezia nel 1972 e 1982. La sua presenza nel mondo del design con la collaborazione per esempio con Enrico Astori e Driade, le mostre personali ‒“monografica, antologica e cronologica” come lei stessa rispose durante una intervista legata alla sua ultima personale a Palazzo Reale nel 2019 – o l’intervento nella chiesa di San Celso nel 2018.
Spazio e tempo, i suoi “cronotopi” che da oggetti diventano ambienti, la luce e l’architettura come forme nella luce, da Terragni alla discoteca, il corpo e l’ambiente come luogo peculiare di una emotività fredda e calda insieme che si vive da soli o insieme.
Libera e rigorosa, Nanda Vigo l’ho conosciuta nel 2015 durante uno studio visit nella sua casa studio dove questa relazione tra spazio, tempo, luce e colore la si avvertiva immediatamente dopo aver attraversato la soglia del portone di un palazzo di Porta Romana. Al di là di questo c’era lo spazio “interplanetario”, come lo chiamava Ettore Sottsass, un unico campo di energia che si illuminava al passaggio di questa signora schietta e non accomodante, il cui tono deciso si faceva più basso quando mi chiedeva con gentilezza di non fotografie per favore i Piero Manzoni appoggiati sul tavolo.
NANDA VIGO E IL DESIGN
E al di là di tutto mi aveva colpito questa unità di sentimenti opposti che la sua presenza nello spazio del suo lavoro genera: c’è rigore e libertà, c’è allegria e melanconia, c’è precisione e accortezza nelle scelte formali così come nell’impiego della parola, c’è il talento nell’operare a “390 gradi come faceva Gio Ponti”, per usare le sue parole, ma anche la capacità di controllare questa operatività che in caso contrario si riduce in caotici e velleitari esercizi formali.
Dalla Casa ZERO agli interni progettati con artisti come Vincenzo Agnetti e ricordati nei testi di Lisa Ponti, evocati nella mostra allo spazio FMG nel 2015, Nanda Vigo l’ho intravista all’ingresso della Triennale durante un sopralluogo e non ho osato andarle a chiedere se valeva ancora ciò che aveva risposto ad Alessandro Mendini in una intervista.
Mendini: “Ti piace il ‘bel design’ italiano? Ti senti emarginata?”
Vigo: “Mi diverte molto che ci sia, molto firmato, non so in che misura ne faccio parte, l’emarginazione è un problema degli altri, sono un progettista occulto, formulo progetti e li lancio nell’aria, qualcuno poi li prende e li realizza…; prima tra la formulazione e la realizzazione occorrevano alcuni anni, ora pochi mesi, qualcosa sta cambiando. È questo un processo che esiste da sempre ma al quale non si è lavorato coscientemente”.
Chissà se il progetto ancora non realizzato di una serie rivisitata e ingigantita dei 16 animali di Enzo Mari, pensati come oggetti sospesi e luminosi per lo spazio bambini della Triennale, non possa essere uno degli esempi di questa modalità progettuale e soprattutto un processo sul quale ragionare “coscientemente”.
‒ Paola Nicolin
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