Il futuro dei parchi d’arte nel post pandemia. Parla Arte Sella
A pochi giorni dall’apertura prevista per il 18 maggio di musei e luoghi della cultura, ci si domanda come e quando riuscirà a ripartire uno dei settori maggiormente provati dal lockdown. Lo abbiamo chiesto al direttore artistico di Arte Sella, Emanuele Montibeller.
Sono trascorse ormai dodici settimane dalla chiusura di tutte le realtà museali e culturali. Quasi tre mesi che hanno messo in ginocchio un ambito già strutturalmente fragile, per quanto diffuso e radicato sul territorio nazionale. Un’analisi condotta da Federculture evidenzia come le realtà interrogate abbiamo registrato una diminuzione dal 20% al 70% degli incassi, per una perdita complessiva che si aggira attorno ai 3 miliardi di euro per attività culturali e ricreative, e un calo previsto dei consumi nel settore del 20% circa nel prossimo semestre. Dati che descrivono una situazione drammatica, sia per il composito sistema di musei, spazi non profit, fondazioni, parchi, teatri e cinema che si reggono finanziariamente sul numero di visitatori, ma in particolar modo per gli impiegati del settore. L’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali ha condotto un’inchiesta fra la metà di marzo e gli inizi di aprile, intervistando 1889 lavoratori: il 79% dichiara di aver avuto una ricaduta economica, quantificabile per i più in una cifra compresa fra gli 800 e i 1000 euro; la maggior parte degli intervistati ha un’età compresa fra i 30 e i 45 anni (fascia già di per sé vulnerabile) e, dato ancor più allarmante, più del 30% dichiara di conoscere almeno 50 colleghi nella stessa area o città che stanno attraversando una situazione analoga. La presa di coscienza della scarsissima tutela a cui è sottoposto il settore ha già portato alla nascita di un movimento, Art Workers Italia, che sottoponga all’attenzione delle istituzioni la necessità di riconoscere professionalmente chi opera nei beni culturali, salvaguardandone i diritti e regolamentando i rapporti di lavoro.
Fra i vari attori e soggetti di questo panorama complesso, i parchi d’arte rappresentano una rete diffusa e consolidata, con all’incirca una ventina di realtà registrate nei Luoghi del contemporaneo, il database redatto e aggiornato dal MiBACT. Abbiamo chiesto a Emanuele Montibeller, direttore artistico di Arte Sella, uno dei più famosi e longevi musei en plein air nel panorama nazionale e internazionale, di illustrarci, secondo la loro esperienza, in quali termini e a quali condizioni possa avvenire la ripresa.
L’INTERVISTA A EMANUELE MONTIBELLER
Arte Sella è nata ormai trentaquattro anni fa e da allora vi siete fatti promotori in Italia di un modo totalmente inedito di produrre, ma soprattutto di esporre e interagire con l’arte, introducendo due fattori importantissimi, la natura e il tempo. Come, o se, a tuo avviso, cambieranno questi aspetti dopo l’entrata in campo di una terza variabile ‒ la pandemia ‒, con tutte le ricadute politiche, economiche e socioculturali che già intuiamo ma che si manifesteranno del tutto solo nei prossimi mesi?
Per noi questa è la seconda profonda crisi in pochissimo tempo, dopo la tempesta Vaia che a ottobre 2018 ha investito in pieno il parco causando moltissimi danni. In realtà per noi si è sempre trattato di cambiare, di evolvere, di rinnovare quello che facciamo e che proponiamo al pubblico. Nell’ultimo decennio la massiccia e capillare diffusione delle tecnologie ha reso i visitatori in media meno preparati, meno aperti alla diversità ma paradossalmente più esigenti: si aspettano che la realtà esterna corrisponda al mondo virtuale, offrendo loro un’esperienza sempre aggiornata, personalizzata. Inoltre, in questi trent’anni e più è cambiato l’atteggiamento nei confronti della questione ambientale: allora investiva esclusivamente la sfera dei comportamenti, di come interagire individualmente con ciò che ci circonda e con lo spazio espositivo. Ora la consapevolezza è enorme e di conseguenza dobbiamo riorganizzare la fruizione, ricercare costantemente nuovi modi per aprire interrogativi inediti in modo inedito, che abbiano una capacità predittiva, che siano attuali anche fra cinquant’anni.
Come vi siete mossi, quindi?
Dal 2018 abbiamo deciso di intraprendere una direzione nuova, chiedendo ad artisti e architetti di concentrarsi sul rapporto fra arte, natura e scienza. Il discorso scientifico è fondamentale per la questione ambientale, ma non è sufficiente. Lo sguardo dell’artista, con la sua incertezza, la sua curiosità, è imprescindibile per la scienza perché apre alla disponibilità e all’attenzione. L’arte può salvarci dalla deriva scientista, dalla tentazione di spiegare tutto, in modo esaustivo. Quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, che è sicuramente il risultato di un’invasione indebita nella natura, ci ha dimostrato come tutte le decisioni vengano prese sulla base del parere scientifico. Ma è importante, fondamentale tenere in considerazione anche le modalità sociali e culturali di interazione con il mondo e saper cogliere la natura nella sua immediatezza, prescindendo di tanto in tanto dal tramite scientifico.
Nelle ultime settimane nel mondo dell’arte stiamo assistendo all’emergere di due tendenze, due sensazioni opposte: da una parte chi pensa che nulla tornerà come prima e che quindi sia questo il momento per ripensare il sistema, riorganizzarlo ribaltandone le logiche e i meccanismi per renderlo più inclusivo, trasversale e multiculturale; dall’altra chi ritiene che ormai l’ingranaggio sia troppo oliato, troppo avanzato e che quindi ritornerà quasi fisiologicamente all’equilibrio. Delle due quale secondo te? O forse è più probabile una direzione intermedia?
Agli inizi del Novecento, alla fine della guerra e di un’altra pandemia, la febbre spagnola, effettivamente e forse non a caso, il sistema dell’arte mutò: nacquero movimenti nuovi, si perfezionarono alcune discipline, come il cinema, venne fondata la Bauhaus, che aggiornò completamente il rapporto fra arte e artigianato, fra tecnologia e cultura, fra estetica e funzione, e, in ultima analisi, fra persona e contesto. È innegabile che la storia dell’uomo, e con essa quella dell’arte, procedano per discontinuità, un po’ come l’evoluzione. Non è detto tuttavia che si ripeta uguale a se stessa e che questa sia l’occasione per un rinnovamento. Forse presto l’arte contemporanea così come la conosciamo verrà soppiantata, forse l’introduzione di tecnologie sempre più raffinate porterà all’elaborazione di nuove esperienze artistiche. La cura di sé, l’elaborazione psicologica della propria identità potrebbero diventare un’arte; o forse assisteremo alla nascita di un’arte sartoriale, modellata e cucita sulle esigenze e aspettative del fruitore. Forse le istituzioni museali, artistiche e culturali cesseranno definitivamente di essere dei luoghi fisici, completando quel processo di smaterializzazione iniziato qualche anno fa e incredibilmente accelerato dal lockdown. Ma è ancora troppo presto per capire se il futuro ci giudicherà inattuali. Questo, tuttavia, non deve deresponsabilizzarci nei confronti del presente, verso il quale abbiamo sempre un dovere morale e politico.
L’emergenza sanitaria ha portato alla luce la condizione lavorativa e la mancanza di tutela di chi opera nei beni culturali, sebbene molte realtà siano ben radicate, con una storia lunga alle spalle. Come mai solo ora?
Credo che in parte la scarsa tutela derivi dalla scarsa considerazione riservata a questo settore. Se dici che lavori nell’arte o nella cultura per molti è come se dichiarassi che non lavori affatto, al massimo che hai un piacevole passatempo. Io ho dovuto lottare per far scrivere “cultura” alla voce “professione” sulla mia carta d’identità. Quanto poco vengano riconosciuti il ruolo economico di questo settore e l’altissima professionalità di chi ci lavora è emerso chiaramente nelle ultime settimane: non siamo stati interpellati per redigere un protocollo, né per capire quali fossero le nostre reali esigenze.
In questo momento quali sono i punti programmatici più urgenti sia per sostenere chi lavora nel settore – non solo direttori, curatori e artisti, ma anche allestitori, mediatori, custodi etc. –, sia per supportare a breve e a lungo termine le diverse realtà museali, artistiche e culturali?
Innanzitutto, è necessario distinguere fra conseguenze di breve, medio e lungo periodo. Nell’immediato avremo ripercussioni sulla fruizione: meno visitatori significa penalizzare le realtà più virtuose, quelle che si autofinanziano, che si reggono sugli introiti di biglietti e bookshop. Sul medio e lungo periodo registreremo le conseguenze sul mercato, con la sparizione dei piccoli e medi collezionisti e galleristi, e il rafforzamento dei big, di quelli che hanno risorse finanziarie illimitate. E vedremo anche come si evolveranno le professionalità: non serve a nulla disporre di fondi se non si hanno le “maestranze”, che sono la struttura basilare per attuare le idee. È necessario dunque introdurre liquidità, con tempi di restituzione e tassi agevolati, e prevedere sgravi fiscali per chi, nonostante le difficoltà, continua a lavorare, a creare, a ideare nuovi progetti.
La riapertura ormai è vicina. Intuitivamente per le realtà come la vostra sembra più facile. Quali sono le difficoltà che potrebbero sorgere?
È innegabile che per un parco sia più facile adeguarsi ai protocolli, rispetto a un museo, una piccola galleria. Ma le persone che vengono qui si aspettano di vivere un’esperienza di un certo tipo, lontani dalla città, immersi nella natura. L’ospedalizzazione, con misurazione della temperatura, mascherine e guanti, si adatta meglio a un contesto urbano, qui è cacofonica e potrebbe scoraggiare i visitatori.
Lavorate molto con le scuole. Si è parlato, e alcuni lo hanno fatto, di utilizzare gli strumenti della didattica a distanza per i programmi dei musei. Ci avete pensato? Quali sono le possibilità e i rischi di introdurre questi metodi?
Abbiamo assistito a molte prove di resilienza da parte dei musei e delle istituzioni culturali in genere: alcune si sono completamente reinventate, con un investimento di creatività ed energia sorprendente. Le nostre attività sono pensate per essere svolte sul campo, richiedono il contatto, l’esperienza diretta e non è pensabile, a meno di non tradire la finalità per cui sono nate, tradurle in didattica a distanza. Penso che il programma educativo rimarrà fermo a lungo, perché anche quando i visitatori torneranno, almeno per il primo periodo, avremo una mobilità prudenziale, di nuclei piccoli, che si spostano per brevi tratti. Il lockdown ci ha dato modo di concentrarci su quello che davamo per scontato, sulle cose piccole, materiali, come lo spostamento e l’interazione dei corpi, che sono tuttavia ciò su cui si regge anche la più spirituale delle vite.
Quali progetti avete per il futuro?
Al momento tutto quello che era stato pianificato per il 2020 è in stand-by, ma contiamo di rimetterci al lavoro al più presto. Non posso anticiparti tutto, ma abbiamo in programma due nuove opere: un lavoro sulla fragilità delle società di Krištof Kintera e un’opera sulla migrazione delle piante. Diamo un significato ormai univoco alle migrazioni: nessuno bada al movimento orizzontale e verticale che la flora sta compiendo negli ultimi anni, indice dei cambiamenti climatici e delle trasformazioni degli ambienti. E poi ci sono le collaborazioni con l’Orto Botanico di Padova – avviata già lo scorso anno con il progetto di Michele De Lucchi su Vaia, esposto a Padova fino allo scorso gennaio – e con la Biennale di Architettura. Come vedi non ci arrendiamo: la resilienza è un atto faticoso, richiede impegno, ma ora è più che mai necessario continuare a pensare, a dare forma e significato al futuro. Altrimenti siamo perduti.
‒ Irene Bagnara
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