Il destino della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Intervista a Stefano Coletto
A lungo istituzione fra le più sperimentali in Italia nel campo dell’arte strettamente contemporanea, oggi la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia ha ridotto il proprio personale e dato un netto ridimensionamento alla ricerca nell’ambito delle nuove generazioni. Ne abbiamo parlato con l’ex curatore Stefano Coletto.
Un tempo curatore e responsabile degli atelier assegnati ai giovani artisti, Stefano Coletto racconta la parabola compiuta dalla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia negli ultimi anni. Da emblema di sperimentazione e ricerca a istituzione sparita dai radar della scena contemporanea.
Una delle ultime volte che ci siamo visti eravamo su una barca e stavamo trasportando delle opere per allestire una mostra. Era una bella giornata e parlavamo del lavoro all’interno di un’istituzione pubblica….
Ho tantissimi ricordi in barca con gli artisti, per fare allestimenti, sgomberare le opere dagli Studi o per i traslochi. Abbiamo sempre cercato di aiutare gli artisti in tutti i sensi e quindi anche fisicamente con il trasporto delle opere. In barca nascono sempre dei dialoghi interessanti perché l’artista ti sente vicino. Secondo me fare il curatore significa proprio questo, non solamente avere una preparazione teorico-critica (sono abilitato a insegnare storia dell’arte nelle superiori), ma stare appresso al corpo e allo spazio dell’artista, e quindi essere dentro le sue pratiche, cercando di coglierne il senso. Mi fa piacere pensare che il lavoro in BLM sia o sia stato in buona parte questo …
Lavori da molti anni in questo posto. Hai sempre svolto il ruolo del curatore?
Ho iniziato a lavorare in BLM quando con la presidenza di Luca Massimo Barbero. Mi occupavo di gestire i contenuti e la grafica del sito internet della Fondazione. In quegli anni, fine Novanta, con alcuni amici immaginavamo come la grafica multimediale e la rete avrebbe potuto stimolare la fruizione delle opere, creando nuovi contenuti critici. Un tema ancora attualissimo.
Successivamente alla Bevilacqua arriva Angela Vettese, che riunisce un gruppo di persone motivate e formate per lavorare con entusiasmo su tantissimi fronti. Io mi occupavo ancora del sito, e quindi degli allestimenti. Proprio dagli allestimenti delle opere imparai la complessità del dialogo con gli artisti. Con la riapertura degli Atelier, dopo il restauro, lavorai alla gestione di questi spazi; successivamente divenni una sorta di responsabile delle attività della Bevilacqua, anche se il tutto faceva capo al Presidente e al Direttore.
A un certo punto le persone che lavoravano o collaboravano con l’Istituzione erano tredici tra guardia sala, direzione, comunicazione, curatela per gli allestimenti, segreteria, consulenza per l’archivio e la biblioteca.
In che anni siamo?
Dal 2002 al 2016 circa. Eravamo uno staff giovane, preparato che riusciva a realizzare il progetto-mostra in toto; dalla selezione, alla produzione, dalla comunicazione all’organizzazione degli allestimenti. Si era creato un ambiente dove gli artisti erano visti come coloro che venivano a casa – come sintetizza la famosa battuta di Angela: “Bevilacqua la Casa”- perché l’istituzione doveva essere come una casa per gli artisti, in cui essere accolto, supportato, ascoltato, ma anche criticato, se necessario. In questo contesto avevamo creato la figura del curatore degli studi che doveva occuparsi esclusivamente dei ragazzi degli atelier e delle attività connesse.
Questo compito spettava a te?
Sì aa un certo punto il mio compito era diventato questo: seguire gli Atelier e l’attività formativa. Ma si faceva quasi tutto in collaborazione con i colleghi; ricordo Marco Ferraris, Marinella Venanzi, Mara Ambrozic, Rachele D’Osualdo…
Nel 2015 tuttavia la Fondazione ha subito un profondo cambiamento…
Esatto. Un nuovo Cda con una nuova Amministrazione. C’è stata una riorganizzazione importante. La BLM rientra adesso all’interno della direzione Sviluppo e Promozione della Città e Tutela delle Tradizioni. L’obiettivo di questo CdA è stato quello di lavorare di più sul territorio. Nelle riunioni avute sulle attività da intraprendere, emergeva l’opinione che la programmazione precedente fosse stata troppo sperimentale… Inoltre, avrebbe dato eccessiva visibilità ad artisti internazionali.
La BLM comunque lavorava in modo molto intenso sui giovani con grande attenzione e qualità perché convocava e coinvolgeva gli attori principali del mondo dell’arte contemporanea e quindi curatori, artisti, Fondazioni, aziende, agenzie no profit in Italia e all’estero. Ecco, la qualità di questo lavoro e di un metodo è stata difficile da trasmettere.
Perché secondo te questo lavoro non è stato compreso?
Per capire l’importanza e il valore di una programmazione devi conoscere l’arte contemporanea recente, i musei, le dinamiche sociali, le pratiche di produzione e i saperi coinvolti. In particolare i percorsi formativi per gli artisti emergenti sono altamente specifici e complessi, richiedono attenzione, una formazione sulla necessità delle differenze espressive, sull’esercizio del dubbio che motiva la ricerca della propria forma e la maturazione delle attitudini. C’è difficoltà nel capire queste competenze, che sono anche generazionali. Non ci si può avvicinare con verità ad un giovane artista se non ci confronta con i paradigmi del presente, libri, dibattiti, eventi, musica di cui lui può aver fruito.
Forse gli addetti ai lavori danno per scontate troppe cose, e alla fine pochi conoscono questo mondo; si dovrebbe spiegare e comunicare di più e meglio!
E in che modo si muove l’attuale BLM?
Ci sono attualmente 15 Atelier, che vengono assegnati ogni anno con la collettiva annuale finale. Continua la mitica e storica Collettiva Giovani Artisti, arrivata alla 103ma edizione! Numerose mostre con artisti o sui movimenti artistici di area veneta. Ma da più di due anni ormai non partecipo più alla programmazione e alle giurie dei giovani artisti. Non faccio il curatore. Seguo la parte amministrativa, le gare, gli appalti, i contratti oppure la biblioteca, i trasporti.. ma ho un problema al menisco, non salgo più in barca!
Attualmente quanti dipendenti conta la Fondazione?
Operativi in ufficio siamo io e Claudio Donadel. Poi abbiamo altre tre persone di una società esterna per la gestione e sorveglianza degli spazi. Una collega in un’altra sede.
L’instabilità della figura del lavoratore all’interno dell’arte contemporanea in questi ultimi mesi è stata portata all’attenzione dal gruppo Art Workers Italia. Cosa pensi di questo nuovo gruppo?
Sono d’accordo con la maggior parte delle istanze trattate nel loro manifesto. I lavori dell’artista, del curatore, dell’operatore devono essere riconosciuti, devono poter godere di forme di protezione rispetto al precariato imperante. La frustrazione del non veder riconosciuto il proprio lavoro è logorante. Certo, ogni professionista vive questa condizione, ma è anche vero che ogni settore lavorativo possiede le sue specificità.
Esatto, deve essere regolamentato.
Sì, anche se la fonte di reddito di chi lavora nel teatro è differente da chi produce una tela. Bisognerebbe muoversi su diversi fronti. Da una parte abbassi l’IVA, dall’altra riconosci giuridicamente la figura dell’artista, da una parte si propongono contabilità agevolate, dall’altra istituisci sistemi di controllo fiscale adeguati alle professioni intellettuali e creative… I Paesi evolvono proprio nel migliorare la dignità dei loro lavoratori.
Uno dei principali obbiettivi a breve termine del gruppo AWI è proprio quello di garantire una retribuzione alla produzione di contenuti online.
Ecco, sono assolutamente d’accordo. Soprattutto adesso, in cui si sta investendo su questo tipo di contenuti costretti dall’epidemia. Nello stesso tempo, però, il fruitore si deve abituare al fatto che è necessario pagare (in qualche modo) per vedere quei contenuti. E Il passaggio non è per niente facile.
Credi quindi che gli obbiettivi di AWI siano irrealizzabili?
No, credo siano realizzabili. Poi la questione va inquadrata in un contesto più generale. Il precariato dell’artista non può essere privilegiato rispetto al precariato di chi raccoglie i pomodori nelle piantagioni per 15 ore al giorno, del web master che rimane 10 ore al giorno davanti a uno schermo, dei rider…
Politi, realisticamente e impietosamente, sostiene che l’arte è sempre stato un mondo per i ricchi e dei ricchi. Di sicuro è un mondo dove esistono privilegi, rendite, dove pochi guadagnano molto e tanti poco, ma possiede aspetti positivi. Un giorno mi sono lamentato del lavoro nell’arte con un dentista, che mi ha detto: “Vuoi passare dieci ore al giorno a curare la bocca delle persone?”. Le entrate sono diverse ma…
Quindi nonostante tutte le problematiche e i disagi non ti dispiace lavorare all’interno di BLM.
Amo moltissimo questo luogo, perché possiede una mission straordinaria, attualissima. “Lascio primo piano nobile e gli ammezzati a profitto specie dei giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l’ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciuti e sfiduciati non hanno mezzi per farsi avanti, e sono sovente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli e incettatori che sono i loro vampiri”. Un’idea al femminile di cura, come ricorda Il progetto di Marysia Lewandowska dedicato alla BLM, esposto alla scorsa Biennale.
Il Comune di Venezia ha il merito straordinario di sostenere questa Istituzione da molti anni, con indirizzi diversi, certo, ma è anche inevitabile. Pensa che i programmi di Atelier gestiti da Enti pubblici sono rari in Italia e comunque recenti (mi vengono in mente i Murate Art District a Firenze, adesso il Mambo con il Forno del Pane…
A Venezia, a Ca’ Pesaro, all’ inizio del Novecento, prima delle mostre e delle opere c’erano gli Atelier, spazi perché l’artista potesse esprimersi.
‒ Giacomo Segantin
Intervista elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, a.a. 2019/2020
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati