Renato Barilli ricorda Maurizio Calvesi, scomparso pochi giorni fa
Scomparso a 92 anni, Maurizio Calvesi è stato un critico d'arte dalle competenze enormi e dalla grande capacità divulgativa. Qui lo ricorda il collega Renato Barilli.
Con Maurizio Calvesi sparisce forse l’ultima grande figura di critico e storico d’arte capace di passeggiare con disinvoltura lungo i secoli, dal Quattrocento al Seicento, fino alle scommesse più arrischiate sul contemporaneo. Una virtù in cui lo avevano preceduto personaggi come Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Francesco Arcangeli, Cesare Brandi.
GLI ESORDI DI CALVESI A BOLOGNA
Era partito dalla Soprintendenza, e come ispettore era giunto a Bologna negli Anni Cinquanta, dove io, allora giovane di primo pelo, ebbi l’opportunità di conoscerlo e di divenirne amico, un rapporto mai cessato, nonostante che su molti argomenti e occasioni fossimo stati anche concorrenziali, ma sempre rispettandoci e, da parte mia, professando verso di lui una stima profonda.
A Bologna aveva già avuto modo di mettere a frutto le sue buone conoscenze sul Seicento, partecipando alle grandi mostre che Cesare Gnudi vi organizzava sui Carracci e compagni, ma nello stesso tempo un incontro profondo con Arcangeli gli permetteva di accedere all’Informale, magari non aderendo fino in fondo agli “ultimi naturalisti” del critico petroniano, ma accettando da lui, per esempio, il culto per Vasco Bendini, che non avrebbe mai più tralasciato.
L’APPRODO A ROMA E IL CONFRONTO CON PALMA BUCARELLI
Dopo il soggiorno bolognese, gli era venuta la promozione nella sede romana, a Valle Giulia, ma in quel luogo aveva dovuto subire l’arcigna e possessiva presenza di un altro mito di quei tempi, Palma Bucarelli, con impatto a lui non proprio favorevole.
Però era ben presto avvenuta la liberazione mediante il passaggio alla carriera universitaria, dapprima a Palermo, poi proprio a Roma La Sapienza, quasi a ereditarvi il ruolo di Argan, ma non senza conflitti e dispute.
AVANGUARDIA DI MASSA
Della Capitale, Calvesi aveva colto molto bene la natura di “ponte” con gli Stati Uniti, cogliendo per primo le grandi innovazioni che si compivano a Manhattan negli Anni Sessanta. Fu tra i primi in Europa a capire l’importanza travolgente del duo New Dada, Rauschenberg e Johns, che in un certo senso inoculò nel DNA di Bendini, inducendolo a concepire l’episodio dello Studio Bentivoglio, quasi un anticipo bolognese dell’Arte Povera.
Ma Calvesi aveva ben capito che a quelle punte avanzate bisognava dare un solido fondamento, cercandolo tra le avanguardie storiche, cui diede contributi fondamentali insistendo sui due alfieri del Futurismo, Balla e Boccioni, e da lì giungendo al padre di ogni avventura “concettuale”, Marcel Duchamp, di cui aveva ben compreso il compito storico di superare il visivo per affiancargli l’“invisibile”, il mentale, dividendo questa interpretazione con un altro nonagenario che ancora resiste, Arturo Schwarz.
Uno di quei punti di confluenza cui ho accennato si è avuto quando egli ha steso un saggio in cui ha osato collegare la nozione di avanguardia a quella di massa [Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1978, N.d.R.], il che corrispondeva perfettamente a due nozioni su cui io insistevo per cercare di definire appunto le avanguardie “seconde”, normalizzazione e abbassamento.
MILANO E IL CORRIERE DELLA SERA
Dominatore in Roma, Calvesi era stato invitato pure ad assumere la direzione della pagina dell’arte del Corriere della Sera, un merito in più della compianta Giulia Maria Crespi, anche lei scomparsa da poco.
Ma l’ambiente meneghino gli era stato ostile, contrapponendogli la lancia spezzata del longhismo nella persona di Giovanni Testori, caldo, rovente, tumultuante, quanto invece Calvesi era ponderato e circospetto nelle sue mosse. Un terreno di scontro fu proprio il Caravaggio, di cui Testori dava la tipica interpretazione longhiana, tutta lacrime e sangue, mentre Calvesi vi indagava con i ferri appuntiti dell’iconologia, andando a scoprire lati sconosciuti nell’opera del Merisi.
L’ESPRESSO E LA BIENNALE DI VENEZIA
Persa la tribuna milanese, Calvesi chiese accoglienza in una sede tipicamente romana come l’Espresso, dove a dire il vero c’ero io da esponente allotrio, mentre vi pontificava pure Argan. Ci fu un periodo di coesistenza a tre con qualche difficoltà, ma, come già detto, non venne mai meno la “cordiale entente” tra me e lui.
Gli venne pure l’intronizzazione ufficiale, negli Anni Ottanta, in qualità di Direttore per le arti visive della Biennale di Venezia.
SULLE TRACCE DI GIORGIO DE CHIRICO
E poi ancora, ecco un’altra area di nostra confluenza reciproca, fummo entrambi ammiratori di Giorgio de Chirico, accettandolo in toto e in particolare nella sua ultima stagione, cuore del cosiddetto postmoderno. Ne approfittammo per arruolare entrambi dei movimenti derivati dallo stesso de Chirico: furono i miei Nuovi-nuovi, con Ontani e Salvo come capofila, e i suoi Anacronisti, o seguaci di un’Arte colta. Con quelle due schiere, quasi confederate, partimmo alla contestazione della Transavanguardia di Bonito Oliva. Ma Calvesi, dall’alto dei suoi ampi interessi, avrebbe potuto dichiarare che quelle erano solo beghe meschine, liti da pollaio, mentre lui doveva fare i conti ad alto livello con la “Storia dell’arte”, il titolo della rivista cui ha affidato il suo ultimo magistero, s’intende pur sempre esercitato “in utrumque ius”, sul moderno e sul contemporaneo.
‒ Renato Barilli
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