In ricordo, ancora, di Maurizio Calvesi
Ancora un ricordo di Maurizio Calvesi, grande critico d'arte scomparso una decina di giorni fa.
Per molti aspetti, ricordare Maurizio Calvesi – così, a caldo, a poco più d’una settimana dalla sua scomparsa – è un po’ come fare i conti con un riquadro critico dentro il quale si è mossa la linea degli “arganauti”, di un scuola che, scendendo appena qualche gradino dal versante di Filiberto Menna, per via Angelo Trimarco, raggiunge la mia generazione (Stefania Zuliani, Eugenio Viola…) e mi tocca personalmente.
IL MAGISTERO DI GIULIO CARLO ARGAN
Certo, lo sappiamo, Calvesi si era laureato con Lionello Venturi che gli aveva assegnato una tesi su Simone Peterzano, ma il suo effettivo maestro è stato Giulio Carlo Argan, presentatogli dallo stesso Venturi nel 1949. “È questo, mi disse presentandomi, un mio importante ex allievo, con il quale potrai lavorare al Ministero. Io avevo ventidue anni; Argan, che divenne il mio secondo maestro, ne aveva quaranta. […] lo sguardo penetrante sotto gli occhiali, mi offrì subito la sua cordiale benevolenza”.
Grazie ad Argan (allora Ispettore Centrale al Ministero della Pubblica Istruzione), Calvesi partecipa nel 1954 al concorso per ispettori nelle Belle Arti e sempre grazie ad Argan nel 1970 viene chiamato sulla cattedra di Storia dell’Arte Medievale e Moderna all’Università di Palermo (la cattedra era stata istituita e deliberata il 28 dicembre 1955 ed era stata ricoperta dallo stesso Argan nei quattro anni accademici 1955-1959, prima di spostarsi a Roma), come del resto, sempre grazie a questo maestro premuroso, nel 1976 Calvesi diventa ordinario di Storia dell’Arte Moderna all’Università La Sapienza di Roma.
MAURIZIO CALVESI NEI RICORDI DI ANTONELLO TOLVE
Personalmente, nei pochi incontri che ho avuto con lui, forse tre ma di sicuro non si contano le dita di una mano, Calvesi è stato, con me, molto cordiale e disponibile; forse perché riconosceva una certa familiarità, perché mi vedeva legato all’amico Filiberto Menna con cui ha sempre avuto rapporti di “buon vicinato accademico”, visto che erano nella stessa “scuola” (anche se a volte, bisogna ricordarlo, un tantino turbolenti).
La cordialità si palesò specialmente quando ebbi a chiedergli informazioni, quasi una piccola intervista, ma senza registratore e dunque raccolta soltanto con il puro dado memoriale e su un taccuino viola e verde dove prendevo appunti preziosi, sull’arte degli Anni Sessanta a Roma, di cui era stato – lo sappiamo tutti! – indiscusso lettore, teorico, promotore. Allora ero ancora uno giovane dottorando che stava centrando l’attenzione sui molteplici interessi di Gillo Dorfles, e Maurizio Calvesi era solo il nome del leggendario teorico che aveva scritto Le due avanguardie (1966), Duchamp invisibile (1975), Avanguardia di massa (1978), La Metafisica schiarita (1982) e che, messe da parte le importanti analisi sul Seicento (quella sulle incisioni dei Carracci ad esempio, legata a una mostra del 1965), si era occupato a larga misura – sempre sotto indicazione di Argan – del Futurismo, di Boccioni, dei futuristi.
Affabile, lecitamente riservato e spiritoso al punto gusto, ricordo che mi mise subito a mio proprio agio e mi raccontò che quegli ormai mitici Anni Sessanta del secolo scorso a Roma erano stati qualcosa di unico, di irripetibile. Ricordo che il discorso cadde più volte su Schifano, su Tacchi, su Pascali… e poi su due “eventi” significativi da lui curati, la mostra Terra Acqua Fuoco (tenuta alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini nel maggio del 1967, con opere di Bignardi, Ceroli, Gilardi, Kounellis, Pascali e Pistoletto) che è a tutti gli effetti il primo vero antecedente di quel movimento che Germano Celant battezzerà con l’etichetta Arte Povera, e il Teatro delle Mostre (tenuta alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis nel 1968, dal 6 al 31 giugno più esattamente) che poi mi andai a leggere e a studiare con maggiore attenzione, anche grazie ad Angelo Trimarco, il mio maestro appunto, il quale non sapeva tra l’altro che io fossi andato da Calvesi (era mia intenzione lavorare per la tesi di dottorato non solo sui libri e negli archivi e nelle biblioteche ma anche con le presenze, ascoltando le storie raccontate da alcuni protagonisti in prima persona).
CALVESI TRA FUTURISMO E METAFISICA
In molti vedono Calvesi come la figura che ha riaperto il dossier del Futurismo sottoponendolo a una rettifica e a una reale correzione nei riguardi del rapporti ideologici con il fascismo (e in parte è vero, anche se è pur vero che Giulio Carlo Argan aveva dato come compito ai suoi allievi di occuparsi e di rivisitare il primo movimento d’avanguardia, sin troppo adombrato dai circuiti culturali internazionali), ma io, dal dal canto mio, ho sempre visto in Maurizio Calvesi il critico che, in tempi non sospetti, ha saputo rileggere la stagione Metafisica, contestualizzarla storicamente e darle il giusto peso anche in chiave moderna e contemporanea.
Ho sempre visto in Maurizio Calvesi il critico che, in tempi non sospetti, ha saputo rileggere la stagione Metafisica.
Nel suo libro di saggi e articoli riuniti sotto il brillante velo della metafisica schiarita, oltre alle intuizioni (dove forse si ritrova pure la “serra dell’Anacronismo, ovvero dell’Utopia“), è possibile a mio avviso trovare anche un punto di contatto con la sua origine di poeta, soprattutto quando parla, in maniera così appassionata (ma sempre disciplinata, si badi, dall’acutezza del critico che controlla e non lascia nulla al caso e alla fine ammonisce), di Carrà: e forse è proprio con le sue parole su Carrà che vale la pena chiudere queste poche righe per ricordarlo.
“Mentre Boccioni s’identifica interamente con il Futurismo e mentre de Chirico, dopo la Metafisica, stenta a ritrovare la propria consistenza e identità d’artista, Carrà trova veramente se stesso solo dopo essere uscito dal Futurismo e dalla Metafisica, cioè nel Novecento. Ed è anche la sua pittura di paesaggio dopo il ’20, un ritorno alle origini contadine: all’amore del contadino per la terra, alla forza della vanga colpita di striscio dal riflesso arancione del sole e all’odore morbido e sfatto della zolla, ed ugualmente alla misura, alla saggezza antica, al buon senso del contadino. Tutte malinconie che in qualche modo potevano riconoscersi nelle scelte culturali del Novecento conservatore e casereccio e nei suoi bonari miti razziali“.
– Antonello Tolve
IN OMAGGIO A MAURIZIO CALVESI
Stefano Di Stasio
Lorenzo Canova
Ludovico Pratesi
Renato Barilli
Alberto Dambruoso
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