Biennale del Mercosul in Brasile. Intervista alla curatrice Andrea Giunta
Edizione numero 12 per la Biennale del Mercosul, tradizionalmente ospite di Porto Alegre, in Brasile, e quest’anno andata in scena online per effetto della pandemia. Ne abbiamo parlato con la curatrice generale Andrea Giunta.
Co-curatrice della mostra Radical Women. Latin American Art 1960-1985 (2014) e autrice di testi come il recente Contra el canon: El arte contemporáneo en un mundo sin centro (2020), Andrea Giunta (Argentina, 1960) è la curatrice generale della 12esima edizione della Biennale del Mercosul, intitolata Feminine(s): visualities, actions and affections.
Dal 1997 la biennale ha luogo nella città di Porto Alegre, in Brasile, ed è riconosciuta come il più grande insieme di eventi dedicati all’arte contemporanea latino-americana.
La direzione di questa biennale nella carriera di Andrea è il culmine di un percorso di ricerca che indaga sulle voci e sulle pratiche lasciate al margine della storiografia tradizionale. Per l’edizione del 2020, in rete in questo momento, la curatrice e il suo team, composto da Fabiana Lopes (Brasile), Dorota Biczel (Polonia) e Igor Simões (Brasile), hanno scelto di adattarsi all’urgenza del momento, non posticipando la Biennale a causa dell’emergenza sanitaria. In questa intervista Andrea Giunta ci racconta le proposte curatoriali e la decisione di passare al virtuale.
INTERVISTA AD ANDREA GIUNTA
La 12esima Biennale del Mercosul ha subito importanti trasformazioni a causa della pandemia da Covid-19. Com’è stata la decisione di adattare la strategia curatoriale che puntava sul dialogo e sul contatto diretto tra il pubblico e lo spazio espositivo al format online?
“Adattare la strategia curatoriale” è una buona forma di nominare quello che abbiamo fatto. Ci siamo adattati. Non avevamo un piano. Ciò non vuol dire che ci siamo adattati per cercare di essere efficienti, ma perché era assolutamente urgente, come prima cosa, non smantellare un team di lavoro per il quale la Biennale rappresentava anche una forma di sostentamento. Mentre i musei licenziavano i dipendenti, in primis quelli del settore educativo, noi l’educativo lo abbiamo creato e mantenuto anche oltre la data in cui si sarebbe protratto se avessimo inaugurato l’esposizione nello spazio fisico. La Biennale ha assunto una responsabilità con la sua comunità più immediata.
In secondo luogo ci siamo impegnati con il presente, con la scelta di pensare a partire dal fare, piuttosto che focalizzarci su protocolli da attuare.
Come, nel concreto?
Senza rimandare, abbiamo fatto partire la Biennale e il programma educativo. Vista in prospettiva è stata una decisione che ha permesso di attivare elementi distinti da quelli che l’attesa o la cancellazione totale, che erano anche state prese in considerazione, avrebbero provocato. La situazione in Brasile era estrema, niente avrebbe potuto garantire che ci sarebbe stato un miglioramento a ottobre o novembre. Anzi. La prova di ciò nel mondo dell’arte è la Biennale di San Paolo, slittata al 2021. Sentivamo che fosse un compromesso pensare a partire dall’arte, durante questi 100 giorni di espansione della pandemia e di paralisi.
Che cosa è cambiato nel passaggio al virtuale nel caso della Biennale?
Nel passaggio abbiamo perso molte cose, in teoria. Per questo non voglio rispondere a partire dell’exitismo. Abbiamo perso il contatto con lo spazio e l’attrito speculare, periscopico, che si produce quando le opere si installano nello spazio. Abbiamo perso questa zona di contatti e di attriti che si produce quando due opere si relazionano o si confrontano nella sala. Chi pensa e allestisce le esposizioni capisce perfettamente il momento magico in cui le opere prendono i loro spazi. Abbiamo perso questo, tra molte altre cose. Abbiamo perso il pubblico che transita per le sale, le opere site specific e i progetti che non hanno fatto in tempo a realizzarsi; ma abbiamo raggiunto nuove forme, ad esempio una sorta di universalizzazione che la Biennale non avrebbe conseguito se non fosse stata online.
In che senso?
Siamo riusciti a mettere in contatto nuovi significati tra le opere che, fuori dalle sale, stabiliscono delle relazioni che non avevamo previsto. I live, che si sono realizzati da quando il sito della Biennale è in rete, hanno permesso scambi tra gli artisti e conversazioni con il pubblico che non sarebbero stati possibili senza questi istrumenti digitali. Abbiamo avuto un tempo aggiuntivo, anche se diverso, che ci ha permesso di pensare più nel dettaglio alle opere, ai femminili e ai femminismi a partire dall’emergenza. Si sono aggiunti significati che si generavano dalle opere e dalle attività che stavamo realizzando.
In questo modo sarebbe possibile affermare che la scelta di dare continuità al programma è un modo di posizionarsi politicamente nello scenario attuale?
Sì, totalmente. Davanti allo scenario di paralisi molti attori hanno riprodotto l’immobilità. Fermarsi è stata una decisione politica: fare una pausa nel presente per riflettere. Molte istituzioni hanno continuato con le mostre allestite e non le hanno portate in rete, continuavano in attesa dell’inaugurazione, assoggettati alla logica del biglietto, della biglietteria. Però è stata anche una decisione politica non fermarsi e investigare opere e poetiche come spazio di comprensione dello scenario critico in cui ci troviamo, come serbatoio di strumenti per riflettere su ciò che sta succedendo. Averla fatta è una forma di resistenza contro chiusure e licenziamenti; un pensiero che si è elaborato attivando la pratica e l’interazione al posto della paralisi e della solitudine. Di fatto, abbiamo iniziato domandando agli artisti: “come state?”.
Come la Biennale può contribuire a incorporare una riflessione critica sul momento attuale riguardo alle istituzioni d’arte contemporanea, non solo nel contesto dell’America Latina, ma nel mondo?
Al di là che il mondo degli opening risulti effimero, prima dell’isolamento avevo seri dubbi su un mondo dell’arte che cura e valorizza più le opere d’arte che le persone, o in cui il mercato, con prezzi voluttuari, riproduce la logica di concentrazione di capitali che caratterizza il momento presente del capitalismo globale; ma, nonostante questi dubbi precedenti all’isolamento, lo scenario di pandemia ha messo in evidenza che scommettere sulla sceneggiatura dell’opening avrebbe implicato lo spostamento del tutto in un futuro. Futuro, però, in cui lo scenario che abbiamo lasciato alle spalle non sembra ritornare.
Il distanziamento sociale, le mascherine, il gel cambiano completamente la relazione sociale dei corpi e di osservazione (attesa, interesse, curiosità dinnanzi all’opera). Abbiamo nuove interferenze e impossibilità che rendono evidente che niente sarà come prima del 13 marzo. La distanza critica verso il mondo dell’arte che abbiamo lasciato è anche la distanza critica verso le conseguenze delle condizioni del mondo nel presente, nella pandemia. In diversi modi il mondo dell’arte è stato coinvolto in ciò che ci ha portato al presente. Dobbiamo pensare ad altre trame, altre forme di comunicazione.
Storicamente la Biennale del Mercosul ha un importante legame con l’educazione e con il suo contesto diretto: la città di Porto Alegre. In questa edizione come si sta verificando questo processo?
Il processo del settore educativo è centrale, come ben fai notare, in questa Biennale. In circostanze nelle quali non si ha fisicamente il pubblico, come neanche i gruppi nelle aule delle scuole, cosa si può fare? Igor Simões, che è il curatore educativo, è stato capace di organizzare attività che hanno coinvolto 1600 maestri ed educatori del Brasile. I moduli sono stati progettati con loro. Sappiamo che l’educazione è una delle zone più sensibili di ciò che stiamo vivendo: i bambini nelle case per mesi, i maestri che insegnano online, costretti ad adattarsi in fretta a una nuova modalità di insegnamento, che però non era ancora stata istituita. Si è forzato il sistema a fare un salto importante, cosa che per Paesi come il Brasile o il resto dell’America Latina non è assolutamente semplice.
Ci sono case che non dispongono di connessione, o in cui è presente un solo computer, il quale uso dev’essere pianificato, oppure case in cui c’è soltanto un telefono. O niente. Naturalmente la Biennale non può dare una risposta a tutto questo, però ha cercato di sviluppare lezioni con educatori riguardo specifici contenuti.
Quali programmi avete messo a punto?
Una volta completato il sito sono iniziate anche le attività sulla piattaforma Zoom con artisti della Biennale. Al centro di tutte le attività ci sono gli artisti. Durante l’isolamento molte istituzioni hanno investito in attività quali il rilascio in formato pdf di pubblicazioni precedentemente realizzate, che prima erano disponibili solo in vendita, o il lancio di video, o incontri in Zoom. Incontri virtuali, nei quali né specialisti né artisti (in termini generali), hanno ricevuto onorari.
Intendo che la conversazione è importante dal momento in cui il materiale è caricato sulla rete, poiché viene trasmesso a livello discorsivo, argomentativo, a partire da un materiale disponibile. La piattaforma Zoom stessa, soprattutto quando utilizzata come attività unica, conduce a una zoomificazzione; invece quando intesa come strumento per riflettere su materiali disponibili è, al contrario, uno strumento di comunicazione. Con le opere degli artisti presenti sul sito, conversare con loro è stato un ulteriore modo per espandere la riflessione e il pensiero dietro a queste opere, che sono spazi di significati e pensiero critico. Abbiamo scelto di renderle accessibili e di ascoltare gli artisti.
Il mondo dell’arte è ancora oggi molto riduttivo, esiste una cultura di cancellazione di tutto ciò che resta fuori dai canoni dominanti. Feminine(s): visualities, actions and affections si posiziona esattamente ai margini della storiografia tradizionale. Qual è l’importanza di questa scelta per la società contemporanea?
Il mondo dell’arte è patriarcale, bianco (e, in questo senso, razzista) e classista. Non mette in discussione i suoi spazi di privilegio. E, se lo fa, molte volte è a partire da approssimazioni esotizzanti. Penso alla relazione tra l’arte contemporanea e l’arte indigena del passato. Così è successo, per esempio, con il 34esimo Panorama de Arte Brasileira, dove l’arte “più antica del Paese” è stata messa in mostra assieme a lavori contemporanei realizzati da artisti che non erano indigeni. L’artista Rosana Paulino ha chiamato tutto ciò “rappresentazione senza partecipazione”. Dove sono gli artisti indigeni contemporanei?
Nella Biennale cerchiamo un’angolazione diversa.
E si può verificare che, tanto sul fronte della curatela quanto su quello degli artisti, abbiamo lavorato a partire da una rappresentazione in prima persona. Come sottolineato da Paulino, “l’arte nera è il Brasile”: più del 50% della popolazione del Brasile si rappresenta come afrodiscendente. Non lo so se siamo riusciti, questo può dirlo solo chi osserva le opere, ma ci abbiamo provato. La rappresentazione è presente in questa Biennale, anche se non daremo cifre o statistiche, dato che nello statement curatoriale, nel quale menzioniamo il pensiero di Denise Ferreira da Silva, richiamiamo il concetto di differenza intesa come molteplicità e non come separazione. Non specificheremo differenze di età, di classe, di genere o razza. Però tutte sono state considerate nel momento in cui abbiamo configurato una mappa distinta. È necessario osservare con molta cura le selezioni della Biennale in modo che diventino visibili a ognuno le generazioni, geografie, esperienze sociali di razza e genere rappresentate. Ci sono, tuttavia non le classificheremo.
La parola “affections” ha cambiato significato, o ricevuto più peso, di fronte allo scenario di pandemia?
Sì, è esatto quello che dici e l’ho percepito il 20 marzo quando, come curatrice generale, ho scritto una lettera a tutti gli artisti e quello di cui avevo più bisogno era domandare loro come stessero. La parola “affections”, che era già presente nel titolo, ha assunto nuova rilevanza, nuova centralità, ancora più che “feminine(s)”. La Biennale ha proposto una piattaforma di pensiero estetico a partire da una problematica precedente al Covid. Già nel 2018 il progetto ha iniziato a navigare in un contesto distinto, a partire dall’elezione di Bolsonaro come presidente del Brasile. La parola “feminino(s)”, (ci siamo preoccupati di non scegliere “genere”, che per gli attuali politici e i loro seguaci rappresenta una parola cattiva, un’ideologia perversa), in sé, era conflittuale. Non mi interessa evitare i problemi. Posso cercare angoli, forme per avvicinarmi a essi, ma non li aggiro.
In considerazione di questo scenario, è possibile dire che la creazione di alleanze attorno ai temi di razza, genere e sugli effetti congiunti del colonialismo, proposti dalla Biennale, diventi ancor più importante in questo momento?
Dopo la mostra Radical Women: Latin American Art, 1960-1985, era necessario affrontare altri problemi che, in quella occasione, non abbiamo potuto trattare. Una presenza più diretta e attivista nella messa in dubbio dei binarismi: artiste come Jota Mombaça, Élle de Bernardini, Sebástian Calfuqueo e Chiachio & Giannone sovvertono alcune dinamiche per riflettere a partire da identità e affetti fluidi, per pensare a nuovi modi di guardare alla famiglia e ai suoi vincoli affettivi. Decolonizzano i corpi e gli affetti normativizzati da una società eteronormativa, patriarcale, che esalta e condiziona le mascolinità e i femminini. Le alleanze tra i temi che tu proponi sono presenti nella Biennale, e lo spettatore (o l’utente del sito) può esplorare molte forme per attivarle. Le relazioni che uno trova illuminano i campi magnetici delle opere e ci portano a metterle in contatto. Quando io stessa navigo sul sito, visualizzo la mappa degli artisti e la mappa delle opere, trovando lì davanti a me, un senso di libertà che prima, fisicamente, potrei non aver provato. Posso creare nuove narrative curatoriali, trovare nuove relazioni che prima non avrei immaginato.
Le prove che il razzismo esiste, e che opera nel presente – prendendo forma visibile con l’assassinio di George Floyd, di Rayshard Brooks, tra i più recenti –, rendono ancora più aggiornate le selezioni della Biennale. È molto triste, avrei preferito infinitamente che tutte queste circostanze non fossero attuali e che la Biennale risultasse anacronistica. Il razzismo è esistito e esiste. E oggi si manifesta in un movimento civico che abbatte le statue. Alcuni specialisti scelgono di difendere le statue e il suo ruolo normativo dentro il concetto stesso di “Occidente”. La relazione con la casa, lo spazio domestico, la nozione di tessuto, rete, trama, sutura, legami con la natura, la messa in dubbio della colonizzazione dei corpi, degli affetti, delle sessualità, è presente nei concetti da quando pensiamo a questa Biennale e, naturalmente, ha assunto una diversa tempestività, alla luce degli attuali governi, del razzismo sempre esistente e che prende nuova visibilità pubblica, e della violenza sulle donne, che con il confinamento è incrementata, portando molte di queste a dover convivere con i loro aggressori. A fronte di questo scenario, di cui non conosciamo il futuro, è imprescindibile stabilire alleanze. La Biennale è una piattaforma in cui si può pensare di partire dalle condizioni e possibilità inerenti all’arte.
Il contemporaneo è legato all’urgenza prodotta dalle agende incompiute dei movimenti storici, soprattutto a partire dalla metà/fine del secolo scorso. Le esposizioni in larga scala, come le biennali, sono nate in questo contesto e, anche se controverse, sono state importanti per l’emergere di nuovi dibattitti e nuove pratiche. A livello locale, qual è il ruolo di una esposizione come la Biennale del Mercosul?
La Biennale del Mercosul si svolge nella città di Porto Alegre, che non è una città “Airbnb”. Non è una città turistica, alimentata dal ritmo frenetico di visitatori, che caratterizza, per esempio, biennali come quella di Venezia o la Documenta, compresa anche quella di San Paolo. La Biennale prende posto intorno a una piazza, Alfandega, nel cuore della città commerciale, della città storica, della fiera del libro. Migliaia di persone la attraversano. La Biennale intercetta, interroga e invita la città di Porto Alegre. Questa Biennale si trova in un contesto latino-americano, quindi una geografia regionale (la rappresentazione di artisti dal Brasile, Argentina e Cile è la più distaccata), ma allo stesso tempo affronta la diaspora afro-latino-americana e la presenza africana, soprattutto nel Brasile e nei Caraibi, come uno dei suoi assi centrali. Artiste come Aline Motta ricorrono a città-acqua in Brasile e in Nigeria (Rio de Janeiro, Baia di Guanabara, Cachoeira, Lagos) e indagano l’identità e il passato del Brasile, schiavitù, discriminazione e povertà che il Covid ha amplificato, interessando principalmente settori sociali quasi senza risorse, che sono principalmente quelli delle popolazioni afro-brasiliane. La Biennale ci consente di affrontare il problema prima della pandemia, perché questo esisteva già precedentemente. È un angolo a partire dal quale si può indagare sulla cultura di tutta l’America Latina: che succede nel mondo dell’arte in cui la vita, il pensiero e gli affetti afro-latino-americani mancano, quasi del tutto? E altre domande potrebbero essere poste, come: cosa accade con la sensibilità degli attori delle comunità indigene, mapuche o tzotzil? In che modo possiamo pensare al mondo dell’arte e a questo presente urgente a partire da sensibilità e concetti che sono stati esclusi dall’egemonia di parole e pratiche? Come tornare a concepire la relazione con il mondo, tra gli umani e la natura, in questo momento in cui il pianeta ci ha fermato e rivela la sua condizione esausta? La dimensione in cui si è svolta la Biennale 12 durante questi giorni di isolamento ci ha permesso di formulare domande e pensare ad alternative.
‒ Gabriella Kolandra
https://en.fundacaobienal.art.br/
Intervista elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020
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