Fare il vuoto. Intervista a Jacopo Benassi

Fino al 1° novembre il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato ospita Jacopo Benassi nella sua prima personale in uno spazio museale.

Lo scorso 8 settembre al Centro Pecci di Prato ha inaugurato Vuoto, la personale dello spezzino Jacopo Benassi, classe 1970. La mostra, curata da Elena Magini in collaborazione con la Galleria Francesca Minini, è stata accompagnata dal progetto site specific The Belt, realizzato con il contributo dell’Archivio Manteco.
I lavori esposti ripercorrono gli ultimi 25 anni di ricerca artistica di Benassi, collocati nello spazio che restituisce parte delle strutture e degli oggetti che animavano lo studio dell’artista (calchi di statue e teschi, pezzi di legno, cornici…). Sono presenti anche diversi strumenti musicali, che hanno accompagnato Benassi nell’evoluzione del suo linguaggio anche in ambito performativo.
Nello spazio le fotografie dell’artista invadono l’ambiente, quasi soffocandolo, riuscendo a mostrare un sintetico e originale campionario di umanità underground.

INTERVISTA A JACOPO BENASSI

Al Pecci vediamo parte del tuo studio ricostruito, oggetti e strumenti vari e tanti tanti calchi, fino alle ciabatte che usi quando lavori. Cosa ti ha portato a concederti così completamente allo spettatore?
L’idea non è tanto quella di portare il mio studio per mostrare come o dove lavoro, o per far rivivere degli aspetti che vivo io. Il discorso è completamente diverso. Il concetto è quello di svuotare il mio studio, quasi parcheggiandolo. “Vuoto” è il senso di vuoto che mi creerà questa mostra. Mi svuoterò di tutto quello che fino a oggi mi ha portato al Pecci. E poi è legato anche al fatto che non lavorerò, materialmente non lavorerò per tutta la durata della mostra. Non farò cornici, non farò foto, farò pochissime cose. Sarà un momento di riflessione, e poi magari ripartirò cambiando le cose in studio. Azzerare per ripartire. Quando ho fatto The Ecology of the image (2008) è successa la stessa cosa. Ho frugato dentro me stesso tirando fuori tutto; mi ha svuotato e poi sono ripartito. Al Pecci ci sono tutti i pezzi di legno che ho tagliato dalle cornici che sono in mostra e gli attrezzi fisici. Quindi letteralmente non potrò proprio lavorare, perché non avrò mezzi per farlo. Perciò non parte come cosa estetica anche se poi la diventa quando arredi uno spazio.

Jacopo Benassi. Vuoto. Exhibition view at Centro Pecci, Prato 2020. Photo © OKNO studio

Jacopo Benassi. Vuoto. Exhibition view at Centro Pecci, Prato 2020. Photo © OKNO studio

Musealizzare il proprio studio sicuramente evidenzia il ruolo che ha avuto lo spazio rispetto alla propria ricerca artistica. Questo cosa ha aggiunto al tuo percorso?
Da quando ho aperto lo studio sono cambiate tantissime cose, perché da quando ho questo spazio a disposizione mi sento meno fotografo e più artista.
Gli interventi sui vetri, prima per me erano violenti, non li accettavo, non aveva senso. Adesso invece sono quasi più importanti della fotografia stessa. Do i colpi d’accetta alle cornici, perché mi piace riportare il legno alla sua natura, cosa che prima di avere uno studio non facevo. Per me la fotografia era una cosa intoccabile e soprattutto creare delle installazioni fotografiche per me era un po’… non so, preferivo la mostra classica.
Adesso invece penso in maniera diversa, mi sento molto più scultore o comunque più vicino a un artista concettuale rispetto alla figura del fotografo.
La fotografia fa sempre un po’ da padrona però, finalmente, da qualche anno a questa parte, la uso per muovermi anche in altre direzioni: non più documentativa ma più auto-documentativa.

IL FLASH E LA PERFORMANCE

Nelle tue fotografie il flash è onnipresente, “un modo di cancellare totalmente la luce reale”. Ti riconosci ancora in questa descrizione?
Io mi rifaccio a una frase del mio grande maestro, Sergio Fregoso. Diceva sempre che col flash si emette una luce che cancella la luce reale. Io non riesco più a lavorare senza, è un po’ una cifra stilistica, non riesco più a levarmela. Non è più quella la cosa che mi interessa, ormai è dentro di me, è naturalezza, non farei mai una foto senza flash.
Ma una cosa che non sopporto è essere classificato solo come “fotografo”. Negli anni ho collaborato con diverse riviste e non rinnego quello che ho fatto, ma non è questo che mi interessa. Vorrei resettare e dalla mostra al Pecci si riparte.

Anche la performance ha un ruolo centrale nella tua ricerca artistica…
Le mie performance arrivano da un percorso musicale iniziato dall’esperienza col Btomic. C’erano concerti molto belli, con musicisti underground di alto livello.
E da qui è nata questa esigenza di buttarmi sul palco, erano anni che ci pensavo. Non sapendo suonare alcuno strumento, ho deciso di ispirarmi alla danza, che amo. Ho iniziato a fare delle piccole performance dove suonavo il mio corpo, o mi buttavo per terra sulle chitarre, creando un suono. Mi sono ispirato molto a una frase della coreografa Trisha Brown: “cadere e anche danzare”. E così ho intrapreso questa strada qua, che mi rende protagonista, cosa che mi piace moltissimo, e che mi fa stare sul palco. Anche se ho molta paura della gente che guarda, sono tranquillo, voglio essere me stesso, non voglio recitare.

Lo studio di Jacopo Benassi, 2020

Lo studio di Jacopo Benassi, 2020

FOTOGRAFIA E MUSICA PUNK

E la fotografia?
Rimane la cosa importante, perché senza fotografia non farei mai performance. Anche se non proietto la fotografia devo comunque fotografarmi, guardarmi attraverso la macchina. Se salissi su un palco solo con l’amplificatore e la chitarra, sì, potrei fare dei suoni ma e quel punto dovrei sapere suonare e sapere quello che faccio, in modo da creare un enfasi col pubblico. Invece in questo caso lo creo attraverso il mio corpo e l’immagine che proietto o con l’illuminazione del flash. Creo un suono e creo anche una drammaturgia, una storia di immagine, una scenografia in tempo reale. Mi piace anche l’aspetto scenico, dell’amplificatore, del campionatore. E devo dire che non mi sento di avere inventato niente anche perché nessuno inventa più niente ormai, ma la sento molto mia e questa cosa mi fa stare bene. Adesso mi ci ritrovo, e spero di lavorarci ancora tanto. Sono in fase di continuo studio, probabilmente ragionerò su questi aspetti in questi mesi.

E il punk?
Il punk? Punk sempre. Io collaboro con tanta gente che non ha niente a che fare col punk, per esempio Le Dictateur di Milano. Con loro ho lavorato poco, hanno fatto le grafiche del Btomic e c’è una stima grande, ma io rimango un punk.
Alla fine quello che mi piace è lavorare con i timbri, con una grafica più sporca ma perché mi appartiene. Come le cornici, le faccio male, ma le faccio come le so fare, sbaglio apposta, cerco di farle bene ma spero sempre di sbagliare qualcosa; è la mia cifra stilistica. Perché poi diventa quasi come lavorare una scultura, rimodelli e la rimetti a posto, mi piace questo aspetto. Questa cosa della scultura è emersa con Augusten, il mio compagno, che non è un artista ma ripara le cose che fanno gli artisti. Questo mi ha fatto un po’ cambiare. E punk tutta la vita, non tanto di musica, mi di immaginario.

Marlene L. Müller

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