Trent’anni dalla morte di Carlo Alfano. L’intervista con la figlia Flavia
Parola a Flavia Alfano, figlia dell’artista scomparso trent’anni fa e responsabile dell’archivio che ne custodisce e promuove l’opera.
Il 25 ottobre 1990 moriva a Napoli Carlo Alfano, padre nobile dell’arte contemporanea italiana. Sperimentatore della forma e dello spazio, capace di muoversi con disinvoltura dalla bidimensionalità all’ambiente, da percorrere con il pensiero e il corpo. La figlia Flavia guida un archivio impegnato costantemente nella promozione dell’opera del padre, com’è stato tre anni fa con la grande retrospettiva al MART di Rovereto. L’abbiamo incontrata per fare il punto sulla sua attività.
Partiamo da un ricordo personale, da un ricordo di suo padre.
Più che un ricordo preciso posso dire che la figura di mio padre ha inciso profondamente sulla mia formazione e su quello che oggi sono. Ogni giorno parlo di Arte con i miei studenti e mi accorgo che dietro le mie parole c’è, quasi sempre, un suo silenzio, un suo sguardo e le sue parole, sempre trasversali e per questo illuminanti.
Quando e com’è nata l’ipotesi dell’archivio? Immagino che già Carlo Alfano lo avesse avviato come raccolta del materiale corrente legato al suo lavoro.
Credo che ogni artista viva il suo mondo come parallelo a quello sociale; nello spazio chiamato studio convivono desideri, possibilità e suggestioni in forma di pensieri e cose assai eterogenei. Accanto a questa immaterialità convivono di fatto oggetti, materiali e opere che sono esperimenti compiuti o in progress; un vasto catalogo il cui senso più vero è anche chiuso nella privata storia personale.
Piuttosto che di archivio stricto sensu, è stato il concetto stesso di Archivio per mio padre a sostanziare un tema fondamentale della sua ricerca artistica, declinata attraverso la sua opera centrale che si chiama appunto Stanza per voci , Archivio delle nominazioni, 1969,’70,’71,’72,’73,’ 74…, 1969-74, un lavoro germinale, che si proponeva non tanto di rappresentare l’impermanenza o l’ineffabilità di una lista di soggetti o persone, quanto di riflettere sul concetto di archivio come dispositivo in senso foucaultiano, come sistema atto alla formazione e trasformazione degli enunciati.
Ci spieghi meglio.
Ogni catalogo vive nell’ombra di un enunciato diverso dalla realtà che, di fatto, è sempre frammentaria; Carlo Alfano si è ritagliato uno spazio obliquo, un osservatorio dal quale seguire l’impossibilità della tassonomia, egli ha indicato lo scarto tra tempo e spazio nella rappresentazione, sempre attuale ma anche distante in luoghi e tempi indefinibilmente infiniti come nel ciclo Frammenti di un autoritratto anonimo. Penso con tenerezza che tra quei frammenti di persone ritratte nell’Archivio delle nominazioni ci sono anche io, bambina che descriveva in un nastro registrato la sagoma del suo profilo accanto a quella del padre: era il nostro ritratto.
L’ARCHIVIO ALFANO
Com’è proseguito il lavoro su questo fronte dopo la sua scomparsa?
Certo, l’Archivio delle nominazioni è assolutamente dissimile e “altro” rispetto a quella che può oggi definirsi come “buona pratica” all’interno di una precipua missione della Storia dell’Arte, una disciplina che tende a creare un ordine e a “normare” l’attività di un artista. Non nascondo di aver subito questa dualità e che per molto tempo ho avuto timidezza e riguardo rispetto al fascino che emana dal criterio del disordine; una esitazione nell’applicare il mio rigore di storica dell’arte a questo patrimonio. Forse il bisogno di ordinare è un segno, ma più che di rispetto per l’artista, di amore verso il prossimo; una staffetta che corre dal passato verso il futuro, un impegno che ci vincola a dare un assetto e creare criteri di lettura condivisibili per gli altri.
Custodire, archiviare, studiare e avviare nuove connessioni legate alla ricerca sull’artista: queste alcune missioni dell’archivio. Potrebbe raccontarci come si svolge l’impegno quotidiano nell’Archivio Alfano?
Archiviare è un processo complesso che suggerisce sempre nuovi itinerari, alcuni espliciti altri impliciti nell’opera artistica, ma anche paradossalmente e sorprendentemente estranei rispetto al contesto originale e dunque vivificanti: esiti che creano altri possibili sensi di lettura. È un cammino quotidiano, un pellegrinaggio non scontato e senza un’unica meta, che può a volte comportare il ripensamento e l’affinamento di considerazioni precedenti, perché nuovi dati o documenti possono arricchire o modificare i preconcetti granitici con cui si era dato avvio al progetto di archiviazione, dunque di ordine.
Nel quotidiano ciò che mi affascina sono le epifanie “archeologiche”, riscoprire un’opera di cui si erano perse le tracce o scoprire un’opera inedita, così come parlare o confrontarsi con altri studiosi o collezionisti che stimano la ricerca artistica di Carlo Alfano.
La mostra del MART di Rovereto del 2017-18 ‒ Carlo Alfano. Soggetto Spazio Soggetto ‒ha potuto contare sul supporto scientifico dell’Archivio. Com’è stato elaborato il progetto e come si è sviluppata la collaborazione?
La mostra al MART è stata una tappa molto importante, il risultato visibile di un lungo e operoso lavoro svolto in questi anni nell’Archivio Alfano, per me motivo di viva soddisfazione. Un’operazione culturale che ha potuto contare sulla volontà e la grande competenza e serietà del direttore Gianfranco Maraniello, nonché di un gruppo di persone appassionate e di rara sensibilità come Denis Isaia che ho accompagnato e mi hanno accompagnato nella preparazione dell’esposizione e del prezioso catalogo, ricco di apparati e propedeutico per ulteriori studi su Carlo Alfano. Con loro si è creata davvero una speciale empatia. Lo considero come un punto di snodo che ha permesso di condividere con un pubblico più ampio e qualificato molti aspetti di un artista schivo e riservato, poco incline in vita a promuovere la propria immagine.
In qualche modo, è difficile dire una parola conclusiva su questo artista; per questo, congruamente l’esposizione e il catalogo hanno cercato di inscenare i dubbi di un intellettuale elegante che ha vissuto sempre con appassionato distacco e distanza il suo tempo biografico, il lascito asciutto di un bisogno espressivo profondo, più attuale che mai.
LO STAFF DELL’ARCHIVIO ALFANO
Chi fa parte dello staff dell’Archivio?
Ho avuto e ho la fortuna di collaborare con tante persone che definisco assolutamente squisite; per me, dietro il concetto di staff c’è l’idea di un team fatto di persone che dipendono, ciò presupporrebbe una gerarchia, e sottintenderebbe un concetto di managment.
Piuttosto, quando penso alle figure che mi stanno accanto le vedo come i valorosi compagni di cordata: sai che ci sono davvero, sulla tua stessa corda, pronti ad affiancarti perché amano intensamente ciò che fanno e credono nei progetti da portare avanti: una mostra, un catalogo, un film, un grande progetto di restauro.
Un parterre di conoscitori dell’opera di Carlo Alfano, ieri come oggi; alcuni sono stati amici di Alfano condividendone brani di vita, come Lea Vergine, scomparsa in questi giorni, Mimmo Jodice, Fabio Donato, Bruno Corà, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva, Michele Bonuomo, Maria Pia Incutti e altri ancora che non ci sono più e che ho potuto ammirare sin da piccola. Accanto alla generazione di mio padre che stimo molto, nel presente amo interfacciarmi, di volta in volta, con la mia generazione e con chi è più giovane, in un’ottica di ricambio generazionale proficuo per la vita dell’Archivio Alfano.
Ovvero?
Oggi posso contare sul legame e la complicità che mi lega a tante persone come Maria De Vivo per la competenza specifica storico-artistica o mia madre Diana, vigile testimone della storia di Carlo; sono in sintonia con le letture fotografiche di Luciano Pedicini; mi affascina la sensibilità nel restaurare le opere pittoriche di Karin Tortora e per le carte di Antea Tramontano; spesso ricorro alla grande competenza di Corrado Tamborra che ha lavorato con mio padre e ha reso possibile oggi il recupero e la rifunzionalizzazione di alcune suggestive installazioni; custodisco il prezioso ricordo dei lucidi consigli di chi, purtroppo, non c’è più come Carla Pellegrini; infine penso che il mondo sia migliore di quanto a volte ci appare grazie alla solarità di un mecenate lungimirante e acuto come Gianfranco D’Amato, che mi fa immaginare di vivere in un altro tempo.
Sono estremamente grata a quanti mi sono sempre vicini con intelligenza e continuano a diffondere l’opera di Alfano. Lo scorso anno grazie ad Artecinema curato da Laura Trisorio, amica che conosco da sempre, è stato prodotto il film Carlo Alfano: tra l’Io e l’Altro con l’attenta regia di Matteo Frittelli, che ha stimolato molte persone e soprattutto le nuove generazioni ad approfondire alcuni dei temi cari a mio padre. Occuparsi di un archivio è anche creare rapporti intensissimi e contingenti come quelli con Francesco Tedeschi, Andrea Viliani o tanti altri studiosi, con i quali mi piacerebbe lavorare di nuovo per portare avanti futuri nuovi progetti. Persone e progetti sono la chiave di volta per attività non fini a se stesse ma che hanno l’obiettivo di indurre e invitare colui che ama l’arte di Carlo Alfano a porsi di nuovo, semplicemente, di fronte all’opera, osservarla e stabilire con essa un rapporto empatico e intimo. Anche questa intervista ha, in fondo, tale finalità.
Cosa è emerso in questi anni di attività dell’Archivio rispetto all’archiviazione delle opere?
Uno degli aspetti più esaltanti è quello di trovare e seguire le tracce sotterranee, i non detti, i pentimenti; penso sia il fascino della cancellatura quello che a volte ci fa vibrare dinnanzi a un’opera… è l’emozione di vedere quell’espungere o inserire pensieri nell’autografo dell’Infinito di Leopardi custodito nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Qualcosa di simile accade quando in archivio, attraverso le diverse documentazioni, segui la vita di un lavoro; riesci a volte addirittura a cogliere le fasi dalla gestazione o ad attraversare le variazioni in corso d’opera; ripercorri, in un parallelo sfalsato temporalmente, le necessità espressive maturate dopo le riflessioni ponderate dall’artista. Quelli che chiamiamo pentimenti sono la manifestazione dei pensieri più intimi e profondi di un’opera che attraverso successive elaborazioni può anche diventare altro da sé. Tutto ciò è straordinariamente vivo e distante a un tempo.
ALFANO: MOSTRE E MERCATO
Qual è il suo impegno rispetto al mercato che riguarda le opere di suo padre?
Quando ho cominciato, anni fa, a occuparmi dell’Archivio potevo contare su un certo nucleo di opere documentate e non pensavo che la produzione di mio padre avesse un respiro così ampio; negli anni, grazie alle informazioni ricavate dalla rete dei canali mercantili, e quelle afferenti ai collezionisti o altre fonti, ho potuto ricostruire, attraverso lo studio di numerose opere, molti passaggi, soprattutto per ciò che riguarda il trentennio che va dagli Anni Sessanta alla fine degli Anni Ottanta.
Un archivio ha il vantaggio di potersi, almeno in parte, sottrarre alle logiche mercantili che pur sono intrinseche nelle ragioni sociali; la relazione che si cerca di stabilire con il proprio tempo, piuttosto che economica, è soprattutto diretta a salvaguardare i messaggi custoditi nelle opere e dunque a utilizzare gran parte dei mezzi contemporanei per la protezione, la diffusione e la valorizzazione del lascito ideale e materiale di un artista.
Dopo la grande mostra del MART, quali sono i progetti più importanti in cantiere per l’Archivio Alfano?
Le grandi esposizioni di questi anni hanno offerto al grande pubblico uno straordinario quadro d’insieme dell’opera di Carlo Alfano, ora mi appare sempre più urgente il tempo di soffermarsi, usare una focale diversa, più consona alla dimensione raccolta e sofisticata, nonché ai singoli preziosi aspetti, della sua ricerca.
Penso a un’indagine volutamente frammentata; mi piace l’idea di curare, come Archivio Alfano, una collana di quaderni monografici dedicati a singole opere o aspetti della sua ricerca, in un rapporto frontale e speciale che si può generare tra l’opera e gli studiosi o le persone provenienti da ambiti e ambienti diversi. Immagino che annotare anche le dissonanze scaturite da linguaggi altri sia molto proficuo. Se ogni singola opera di un artista contiene sempre l’eco delle altre, per l’opera di Carlo Alfano questo è assolutamente un aspetto peculiare; l’attenzione analitica può, dunque, servire a trovare ulteriori rotte all’interno della produzione perché ogni sua opera, piuttosto che rispondere a interrogativi, suggerisce, provoca direi, una sosta meditativa profonda, invitandoci a risalire ab ovo alle ragioni stesse della rappresentazione.
Credo che, nell’ambito delle varie prospettive progettuali dell’Archivio Alfano, sia utile il soffermarsi a rileggere la produzione dei vari decenni a partire proprio dalla prima produzione degli Anni Cinquanta, soffermarsi sugli scritti e la vasta produzione grafica, tutte fonti di illuminanti ulteriori scoperte che possono aprire estesi orizzonti concettuali.
‒ Lorenzo Madaro
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