Intervista a Giorgio Musinu, vincitore del titolo Talento di Genova 2020

Insignito del riconoscimento da parte della sua città, Giorgio Musinu racconta il proprio legame con Genova e le tante declinazioni del suo linguaggio artistico.

Giorgio Musinu appare come un ragazzo sottile, quasi timido, che sembra nascondersi sotto un ciuffo di capelli; invece è soltanto molto concentrato nel suo lavoro intorno alla fotografia e ad altri mezzi di ripresa e intensamente immerso nei suoi pensieri.
Nato a Genova nel 1990, 30 anni compiuti l’11 agosto, vanta al suo attivo già due primi premi molto importanti: il prestigioso NTU della Nanyang Technological University di Singapore nella Biennale Internazionale di Fotografia 2017 e quello della Biennale d’Arte Contemporanea di Anzio e Nettuno 2017.
Le sue opere fotografiche sono caratterizzate da momenti sospesi, quasi congelati, dove niente avviene e tutto potrebbe accadere da un momento all’altro, anche la fine del mondo. Proprio The End si intitola l’opera del 2016 in cui l’artista si autorappresenta di spalle, mentre sta per azionare una manopola, che potrebbe segnare l’estinzione dell’umanità. L’immaginario di Giorgio Musino trova terreno fertile in situazioni al limite, tra natura e cultura, devastazione e vita, rovine di archeologia industriale e residui della produzione in serie. I suoi paesaggi dell’anima sono pervasi dallo spirito del tempo, rappresentati in maniera impeccabile e con grande cura degli elementi presenti, delle luci e delle ombre, delle presenze e delle assenze.
Il 12 ottobre, nell’ambito dei diversi eventi celebrativi del “Giorno di Colombo”, che si sono svolti al Teatro Carlo Felice, nel capoluogo ligure, è stato insignito del titolo di “Talento di Genova 2020”, l’unico artista tra i dieci premiati, selezionati da un Comitato composto da undici esperti e coordinato da Manuela Arata. Lo abbiamo intervistato.

INTERVISTA A GIORGIO MUSINU

Cosa hai provato nel ricevere questo riconoscimento dalla tua città?
Ho sempre messo nei miei lavori quello che sentivo: è sempre stata una necessità, poi da ciò nasceva altro. In quella giornata ho sentito che ogni mia opera che potesse comunicare qualcosa di utile per la comunità in fondo appartiene anche alla mia città. In Genova io vedo la grande storia che si porta dietro, i grandi personaggi: fin da piccolo ascoltavo con assiduità le canzoni di Fabrizio De André, che mi hanno sempre accompagnato come una colonna sonora della mia vita. Ebbene, quel giorno, un solo termine affiorava per definire il mio stato d’animo: “onorato”. Una città che crede in quello che hai fatto e, soprattutto, si proietta nel futuro, intendendo costruire un percorso insieme, mi rende “onorato”. Adesso sento ancora di più il dovere di continuare per la nostra comunità. In fondo, un artista si dedica a un lavoro che è definibile “pubblico”: ogni opera realizzata oggi, in un certo senso, è un lascito per domani. A dire il vero, ancor prima di questo riconoscimento ero onorato che a ogni mia mostra e pubblicazione la scritta Genova potesse sempre accompagnarsi al mio nome.

Per l’occasione ti era stato chiesto un video di presentazione di un minuto e mezzo, da cui, purtroppo, hanno estrapolato soltanto pochi secondi. Qual è il messaggio che volevi trasmettere al pubblico?
Un video di un minuto e mezzo sembra poco, ma in fondo offre, comunque, l’opportunità di condensare in esso tanti elementi utili a sollecitare la curiosità dello spettatore. Nel video che ho preparato ho inserito diversi lavori che per me rappresentano molto a livello di messaggio e oggi, nel periodo che stiamo attraversando, ancora di più. Le mie opere sono nate quasi tutte in una grande solitudine. Nel video desideravo che trasparisse l’“autenticità” – quella del mio essere –, attraverso i messaggi base che, in sintesi, volevo comunicare. Tra le ultime opere inserite è presente l’estratto di un cortometraggio relativo a un abbraccio, che rompe una solitudine desolante. Per me questo elemento, proprio oggi, ha un grandissimo significato simbolico.

La tua prima personale si è tenuta nel gennaio 2018 in Sala Dogana, al Palazzo Ducale di Genova. Si intitolava simbolicamente Molloy, dall’omonima opera del 1951 di Samuel Beckett, per esprimere la tua filosofia della visione? Quanto ti senti ancora vicino a quel momento?
Sì, la mia mostra si intitolava Molloy per esprimere quella visione che, nel romanzo dello scrittore irlandese, veniva ogni tanto sottolineata con forza, di un mondo in bilico, cedevole, che flette mentre tutto tace. Sono descrizioni di sensazioni che si avvicinano molto a ciò che io provavo nella realizzazione di quei lavori. Il degrado del tempo, a volte, non è che un monito per il futuro di quello che può accadere, se non ci prendiamo cura di ciò che è importante, e la struttura in declino simboleggia derive ben più vaste. La mostra a Palazzo Ducale, la mia prima personale, è stata anche un onore per me, perché da genovese non potevo chiedere di meglio: incontrare le persone e conversare con loro è stato un grande arricchimento. Nonostante sia figlio della mia epoca, trovo che le opere debbano essere viste di persona, non virtualmente, e di quel periodo in Sala Dogana, nonostante avessi innumerevoli pensieri e fossi carico di emozioni, ancora oggi ho un ricordo indelebile.

Giorgio Musinu, Harmonia, 2018

Giorgio Musinu, Harmonia, 2018

LA FOTOGRAFIA SECONDO GIORGIO MUSINU

Arte e fotografia sono spesso dicotomici. Quanto ti senti artista e quanto fotografo? Ha senso per te una distinzione di campo, come tanti tendono a fare?
È assolutamente vero, purtroppo, e ci sono ancora molti fraintendimenti al riguardo: se si parla di un artista che usa la fotografia come medium, spesso si semplifica dicendo che è un “fotografo”. Capita anche nella mia famiglia. Paradossalmente io non giro spesso con la macchina fotografica come fanno i “fotografi”, non scatto neppure tante foto (anzi), non parlo di macchine fotografiche continuamente, e così via. Eppure, oggi si tende a confondere l’artista-fotografo con chi, per mestiere, lavora semplicemente con uno strumento piuttosto che con un altro. Io sono fotografo perché disegno con la luce, perché per me è uno strumento specifico come la tela lo è per il pittore, ma utilizzo anche macchine da presa e, ultimamente, legno e metalli per alcune installazioni. In un mondo, poi, in cui il termine arte viene usato con grande facilità, tendo a pensare che, oggi, sia ancora più importante di un tempo operare una distinzione. In fondo, la fotografia è stata ormai da tempo accolta nel mondo dell’“arte”.

Che cos’è, dunque, l’arte per te?
Ogni persona sente l’arte e associa a essa significati diversi. Nella mia percezione, certe sue essenzialità talvolta si evolvono mentre accumulo determinate esperienze e l’arte, allora, tende ad avere sempre più peso nella mia vita. Come strumento che offre supporto nel comprendere certe tematiche di grande importanza, o che pone interrogativi sul “pensiero comune” diffuso in ogni società, l’arte, secondo me, ha il dovere di andare contro corrente, mostrando “cose scomode” piuttosto che per forza “cose belle”: deve trasmettere emozioni, anche se di disagio o di malessere. Nella mia visione l’arte è “ossigeno” per i miei tormenti e senza di essa non riuscirei a esternare ciò che sento necessario comunicare.

Quali sono i tuoi soggetti preferiti? Quali gli ingredienti imprescindibili?
I miei principali lavori sono performance, perciò eseguo autoscatti, spesso in luoghi dimenticati dall’uomo oppure molto desolati. Quando riscontro che una mia opera incute una certa sensazione, sento di aver realizzato ciò che intendevo. L’ingrediente imprescindibile è sicuramente la realizzazione con il cuore e con l’anima: il lavoro dev’essere il più sentito possibile, anche perché lo concepisco in primo luogo per “liberarmi” di certi pesi, che poi, a loro volta, assumono significati più globali in cui per molti, forse, è facile identificarsi.

Quali mezzi usi per realizzare ciò che hai in mente?
Innanzitutto, utilizzo fotocamera, treppiedi e telecomando e, poi, trascorro molto tempo a meditare sul luogo e sul periodo che sto attraversando in quel momento.

Nel 2018 hai completato il “Master di alta formazione sull’immagine contemporanea” di Fondazione Fotografia Modena, al quale eri stato ammesso due anni prima sulla base del solo portfolio. Quanto è stata utile questa Scuola nella tua formazione? Perché?
È stata un’esperienza importante, perché molto improntata sulla pratica: le ambizioni già presenti venivano giornalmente sollecitate, come ho sempre apprezzato. Per me realizzare arte attraverso il mezzo fotografico/video, come già detto, è una necessità, per cui non avrei potuto scegliere un luogo più stimolante in Italia per migliorare le conoscenze che avevo acquisito in modo autonomo. All’interno di questa Scuola ho anche trovato un taglio molto internazionale, che mi ha permesso di ampliare le mie esperienze.

Giorgio Musinu, Epoca, 2017

Giorgio Musinu, Epoca, 2017

ARTISTI E PANDEMIA

Si può parlare, secondo te, di “arte ai tempi del Coronavirus”? L’artista come può esprimere il senso del tempo attuale? Tu, che sei anche giovane, come lo vivi?
Assolutamente sì, anzi, secondo me, l’arte è ancora più importante oggi: in ogni momento difficile che l’umanità ha dovuto affrontare l’arte ha potuto e può dare molto. L’artista prova ciò che sentiamo tutti in modo più o meno marcato; io credo che sia necessario andare a fondo alla questione, rappresentando il periodo per quello che è, senza filtri. Noi artisti abbiamo un (grande) compito, credo: offrire un punto di vista particolare o più approfondito della situazione attuale. Io stesso ho realizzato, negli ultimi anni, lavori in cui, per necessità, cercavo la solitudine e, adesso, mi ritrovo in un mondo dove la solitudine viene quasi elogiata. Non vivo bene questa condizione, ovviamente, anche se ne comprendo la necessità. Mi lascia perplesso il pensiero che certi meccanismi non cambieranno: oggi il vero nemico è il virus, ma troppo spesso si trovano facilmente altri capri espiatori. Sto producendo un sacco di foglietti di sensazioni sul periodo, schizzi progettuali di lavori da realizzare su ciò che osservo e ciò che trovo necessario esternare sul momento attuale.

Una cosa che ti fa sorridere e una cosa che ti irrita?
Mi inducono sempre un sorriso le miriadi di profili su Instagram che riportano la scritta “Art” quando non contengono nulla di ciò. Dal lato opposto, mi irrita l’egoismo in tutte le forme possibili, soprattutto se accompagnato a superficialità.

Qual è il tuo sogno segreto?
Vedere avverate alcune mie utopie umanistiche.

‒ Linda Kaiser

https://www.giorgiomusinu.it/

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Linda Kaiser

Linda Kaiser

Linda Kaiser (Genova, 1963) è laureata in Storia della critica d’arte all’Università di Genova, dottore di ricerca in Storia e critica dei beni artistici e ambientali all’Università di Milano, specializzata in Storia dell’arte contemporanea alla Scuola di Specializzazione in storia…

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