Pittura e nostalgia. Intervista a Guglielmo Castelli, tra i protagonisti della Quadriennale di Roma
Oggi, 30 ottobre, inaugura la Quadriennale di Roma e ne abbiamo approfittato per parlare con uno degli artisti invitati. Guglielmo Castelli, dal suo nuovo studio torinese, racconta il proprio percorso e le sue aspettative.
La nuova edizione della Quadriennale di Roma – guidata da Sarah Cosulich, sotto la presidenza di Umberto Croppi – apre i battenti oggi, 30 ottobre. Abbiamo intervistato uno dei protagonisti della rassegna, Guglielmo Castelli (Torino, 1987), presente con una sala personale in mostra.
Ci ha accolto nel suo nuovo atelier: noi, una sedia, una scala e un vecchio mobile malmesso lasciato dai precedenti proprietari. La luce abbracciava così diffusamente l’artista, trasparendo lattescente dalla polvere dell’abbaino di vetro, che non potevamo non catturare quel momento. Abbiamo perciò chiesto al fotografo Mattia Giordano di immortalare il pittore torinese con scatti inediti, coadiuvando la lettura di un’intervista dalle risposte altrettanto sorprendenti.
Partiamo dalla fine – o meglio, dalla principale finalità dell’intervista. Sei stato selezionato tra gli artisti della Quadriennale d’Arte di Roma. Ti senti rappresentativo della selezione? Quali sono i temi affrontati dalla rassegna?
Elena Filipovic fu l’ultima fra i curatori che la Quadriennale invitò a Villa Carpegna a Roma a parlare. Era luglio, un luglio di quelli romani caldi, rotondi dove anche gli uccelli rimangono, stanchi, fra gli alberi mentre, fuori, è estate. Noi lì, dieci fra giovani artisti e curatori invitati a partecipare al primo workshop organizzato dalla stessa Quadriennale. È stato emozionante, è l’unica parola che, a oggi, dovendo riassumente quell’esperienza mi viene in mente. Emozionante e coinvolgente. Tutto è iniziato da lì. Non è facile ammettere di volere qualcosa, o perlomeno dirlo a voce alta, ma io volevo far parte di questa edizione della Quadriennale, lo bramavo, lo desideravo, quasi come qualcosa di erotico. Ho sentito che ero pronto, che avevo ossa forti, il mio lavoro era maturo e così, quando ho appreso della notizia, sono rimasto in silenzio, composto fuori, burrasca di brio dentro. Non potevo non far parte di quel “fuori” che hanno scelto di rappresentare. E non per orientamento sessuale, sai che novità [ride, N.d.R.], ma per tutte le strade che fin da giovane sentivo di voler tentare, mappare.
Spiegati meglio.
Ci vogliono tempo, sincerità e predisposizione per far collimare i brandelli che riusciamo a cogliere fra il mondo e noi stessi. Non ho mai voluto fare l’astronauta, mi bastava il mio di pianeta. Nel mio caso la pittura mi è arrivata con il tempo; prima c’è stato il teatro, il cinema e la moda. Tutto questo “fuori” mi ha donato la forma e il contenuto che sono oggi, ha disegnato dei confini potentissimi perché fluidi. Cartilagini sempre giovani, sempre in accrescimento. Non ho genio, non sono stato toccato da quegli occhi fulgidi che intravedono prima di altri il futuro, ma sono nato con talento, quel talento che, unito alla più ferrea dedizione, porta alle sincerità pittoriche che cerco di rappresentare.
Circa un anno fa, Artribune ti intervistò con domande dettagliatissime circa la tua pittura e visione dell’arte. Mi piacerebbe ricapitolare con te alcuni capisaldi della tua estetica, della tua tecnica e della tua poetica.
Sono nato nel 1987, la mia generazione nata da famiglie solide, famiglie, almeno la mia, ligie a un dovere che avrebbe decretato per noi un futuro altrettanto simile alla loro storia. Invece la storia, noi, la abbiamo dovuta affrontare diversamente, prendercela, dissipare dubbi per vederne comparire di nuovi… Sono arrivate crisi e pandemie che ci hanno mischiato le carte trasmettendoci un raro senso malinconico difficile da catalogare. Venditti cantava di giovani che bruciano lauree, di vite malandate, rattoppate e insoddisfatte a molti di noi, generazione Y, senza satelliti a cui appigliarsi come il cromosoma stesso. Le cose passate attraverso un presente così pieno di maree da apparire lontanissime sono tornate a noi. Ancor più malinconiche e prive di quella spinta che i nostri padri e madri avevano sperato: abbiamo vissuto a tentativi.
L’ARTE SECONDO GUGLIELMO CASTELLI
Credi che questa mancanza sia stata acuita, in qualche maniera, dalle ultime vicende che hanno coinvolto tutti noi?
Non credo che l’Arte debba sempre arrivare da mancanze e restrizioni, nel mio caso ho avuto tantissimo, strabordante amore, ricordi e pomeriggi estivi con colletti ben inamidati; ma quello che è mancato alla mia generazione è stata quella grazia, quell’attenzione, quel saper detonare il tempo per coglierne tutta la bellezza. Perché anche la bellezza crea il contenuto che è essa storia, spesso è il passato che fa scattare un senso di appartenenza. Ci siamo ritrovati a dover far tutto veloce, tutto senza poterci voltare. L’esplorazione di un tempo intimo, necessario, richiede animi che, forse oggi, non vanno più di moda o ce ne sono pochi ben nascosti. Clarissa Dalloway mi ha insegnato il sottile mucchio del nulla, dell’impossibilità dell’azione nella direzione del desiderio, ma in quel limite c’è tutto il mondo, quel mondo che non abbiamo avuto il tempo di esplorare. Ci sono tutte le possibilità che l’arte concede, e in questo e per questo dipingo. Rileggo la mia risposta e capisco che non se ne comprende il senso forse, e mi spiace. Ma proprio in questo caos di cose abbandonate trovo forme e colori.
Chi ti conosce, anche solo superficialmente, percepisce una sorta di leggiadria da pittore romanzesco; una delicatezza d’animo e una nobiltà di intenti che difficilmente ho riscontrato nella maggioranza degli artisti d’oggi ‒ e forse non dovrebbero essere virtù tanto rare o tanto nascoste. Pensi che la tua indole così palesemente gentile possa dare adito a fraintendimenti nel mondo dell’arte?
Penso che quello che si definisce “nobiltà di intenti” non sia altro che una sincera e necessaria propulsione a fare nel migliore dei modi quello che ci è capitato. A me è capitato un occhio forse un più profondo e allo stesso più frivolo, ma ho sempre cercato di unire nella mia pittura questi due aspetti che trovo fondamentali per attraversare la vita in maniera lieve e averne ricordo. Anni fa ricevetti una chiamata da Lucio Dalla, gli dissi che ero stato cresciuto ascoltando Anna e Marco; lui mi rispose che se, almeno una volta nella vita, ci si sente come Anna o come Marco si vive bene. Per essere leggiadri e romanzeschi bisogna lavorare sodo, non far sconti a se stessi e anche agli altri, parare gli spigoli col velluto. Ho difeso quello che sono da anni, anni in cui la stessa pittura figurativa era alquanto bistrattata, perché ho capito presto che la libertà era lo spazio fra cacciatore e preda. Perché bisogna saper continuare, che a iniziare son bravi tutti.
CASTELLI ALLA QUADRIENNALE DI ROMA
Il titolo che hai conferito alla tua sala è Ordine nostalgico di un assetto spaziale. Provo a redigere una piccola parafrasi in autonomia: una maniera di tornare alle origini, sia dell’umanità ‒ una natura palpitante ed emotivamente viscerale ‒ sia dell’artista ‒ rendicontare, senza il timore di sfociare nell’archivistica, la memoria delle immagini dai maestri del passato alla situazione odierna ‒ sia del soggetto ‒ ovvero tu, fautore di una “scena” dove “si muovono cose teatrabili”, come ci hai già dimostrato (basti pensare alla mostra Iposcenio presso Francesca Antonini Arte Contemporanea di Roma). Ma vorrei lo spiegassi meglio tu.
Ordine nostalgico di un assetto spaziale. Sono partito dal titolo, dalle parole, a cui tanto devo e a cui sempre torno. Volevo che la mia sala rispecchiasse ciò che è stata la mia ricerca fino a qui e ciò che ha sempre caratterizzato il mio lavoro e, quindi, quello che sono. Ed ecco allora la nostalgia campionata in disegni di vario formato, da una busta da lettera fino a un foglio strappato in un bar durante la mia ultima residenza a Los Angeles. L’ordine inteso come modus operandi nella ricerca degli elementi che compongono quella stessa nostalgia. Uno schedario di bellezze e, a volte, di sincrone e vaghe tristezze. Un notturno che dialoga con dei gialli chiassosissimi dinanzi alla tela più grande mai fatta: un trittico di quasi 5 metri. L’assetto spaziale non è altro che la potenza di narrazione di tutti quegli elementi che, messi in dialogo fra loro, determinano un nuovo spazio, non necessariamente fisico. E così quello stesso spazio si perde a vantaggio della proporzione e della narrazione che non è dettata dall’occhio, ma dalle necessità mentali e sensoriali. Ricordo le parole di Zelmann in un album dei Marlene Kuntz: “Rimase come sospesa, scolpita in una specie di cerea flessibilità, e la si sarebbe potuta credere in contemplazione di suoni luccicanti o in ascolto di visioni in risonanza, per quanto singolarmente straniata la rendeva quel rapimento incantatore. ‘Dimmi che cosa vedi’, le chiese, ‘Dimmi che cosa vedi’. Ella prese a cantare…”
Proprio adesso siamo nel tuo nuovissimo atelier: è vuoto, attende le tue opere. Cosa accoglierà questa pagina bianca?
Ho lasciato dopo dieci meravigliosi anni il mio piccolo studio “in cima alle scale in fondo a sinistra” per uno studio totalmente diverso. Prima era uno studio con denti da latte; questo no. Qui c’è una luce che ho trovato in pochi luoghi. È anche distante da quel centro torinese che mi ha visto crescere e anche questo penso sia una cosa sana per il mio animo così ancorato al passato. Qui, prima di me, restauravano pianoforti; e prima ancora realizzavano le parti in ottone dei mobili Chippendale: tutta questa grazia ed ecletticismo mi sembravano un buon motivo per cambiare. Così sta per iniziare una nuova avventura fra mobili di vecchie farmacie, alcune cose di famiglia, tappeti, ceramiche, poltrone di velluto e una rose inglese. Quante cose meravigliosamente inutili… Due sole cose hanno già il loro posto sul muro: un grandissimo disegno su tela non preparata fatto durante la mia residenza berlinese alla Künstlerhaus Bethanien raffigurante una bambina con un hula-hoop di fuoco che ti guarda con occhi beffardi, e la partecipazione di matrimonio di mamma e papà; il resto si vedrà. Fa anche rima.
‒ Federica Maria Giallombardo
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