Gli Stati Uniti hanno la popolazione carceraria più numerosa al mondo. Una su cinque delle persone che su questo Pianeta vivono in stato di reclusione è detenuta in America. Nel 2018, il 34% della popolazione carceraria maschile totale era rappresentato da neri, il 24% da latini (fonte: U.S. Bureau of Justice Statistics). Secondo dati del Criminal Justice Project della NAACP, all’inizio di quest’anno c’erano 2.620 persone nel braccio della morte. Di loro, 55 sono prigionieri federali, di cui oltre il 57% è composto da afroamericani e latini.
BILLIE ALLEN, ARTISTA IN CARCERE
Tra questi c’è Billie Allen, uomo nero e artista che da 23 anni si professa innocente senza essere riuscito a farsi ascoltare. Allen è stato arrestato nel 1997, all’età di 19 anni, per una rapina a mano armata in cui perse la vita una guardia giurata e a cui lui sostiene di non aver mai partecipato. Dall’età di 20 anni si trova nel braccio della morte e dalla sua cella, da cui può uscire solo per un’ora al giorno ed entrare in contatto con una sola persona alla volta, lavora incessantemente al suo caso, mettendo insieme prove che, dice, i tribunali non hanno mai voluto esaminare. La sua unica evasione dalla frustrazione e dalla rabbia è l’arte. Lo abbiamo raggiunto via email attraverso la sorella Eve, che gestisce il blog FreeBillieAllen, da cui guida la campagna per chiedere che il governo scagioni il fratello. Alle email Billie Allen ha fatto seguire una lettera “per aprirti una finestra sul mio mondo”, ha scritto nella sua grafia aggraziata.
LA STORIA DI BILLIE ALLEN
Allen è un autodidatta e nei suoi dipinti figurativi porta la rappresentazione di quello che l’America e la sua giustizia sono state per lui. “È il dolore che mi insegna a dipingere”, scrive. “Avevo bisogno di uno sfogo e l’ho trovato nel creare ciò che sentivo. A lungo sono stato ignorato e mi sono ritrovato a desiderare di essere ascoltato. Mi sono accorto che, quando producevo arte, le persone si fermavano a chiedermi cosa volessi dire. All’inizio mi ha scioccato: ‘Ma come? Non faccio altro che ripetere queste cose, non mi ascoltate!’. Ma poi ho capito che a volte le mie stesse parole mi ingannano e che non sono in grado di dire a parole quello che so dire con l’arte. Alle radici della mia arte ci sono dolore, frustrazione, disperazione, rabbia, risentimento e pochissimi momenti di felicità”.
Ma l’arte non è solo uno sfogo per Allen, bensì un modo concreto per attirare l’attenzione sul suo caso e portare la società a “vedere la sua innocenza”. “Provo a raccontare la mia storia attraverso la mia arte. Voglio che le persone mi vedano per intero. Che si accorgano che sono proprio come loro. Che vedano che ho amato, che ho una famiglia, che ho dovuto creare un mondo al di fuori di quello in cui vivo e che sono innocente! È tutto lì se guardi da vicino. Voglio che la gente veda che non mi limito a dire di essere innocente, ma che vedano che ho le prove del fatto che sono innocente e voglio che la gente voglia lottare per me! Voglio che vedano che il loro governo sta cercando di uccidere un uomo innocente, che merita di vivere e che ha tanto da dare se gliene sarà data la possibilità”.
L’AMERICA E LA CONDANNA A MORTE
Dopo anni di sospensione delle esecuzioni, l’amministrazione Trump ha cambiato registro: nel luglio 2019 il procuratore generale William Barr ha ordinato la ripresa delle esecuzioni federali, le prime dal 2003. Nel corso del 2020 sono state sette le condanne eseguite dal governo (altrettante quelle eseguite da singoli Stati, tutti nel Sud del Paese) e la prossima è in programma per il 19 novembre. Billie Allen e altri come lui non sanno quando toccherà a loro. Uno studio dell’Università del Michigan stima che almeno il 4% dei condannati nel braccio della morte potrebbero essere innocenti.
Che gli Stati Uniti usino l’incarcerazione di massa degli uomini di colore come naturale e programmata evoluzione della schiavitù è un’accusa ricorrente mossa da molti intellettuali di colore, come la regista Ava DuVernay, che ne ha ampiamente parlato nel documentario 13th. La mostra Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration, recentemente inaugurata al MoMA PS1, propone uno sguardo dentro il sistema carcerario attraverso l’arte di chi in quel sistema è rimasto intrappolato. La mostra raccoglie i lavori e le storie di detenuti che, prima di inciampare nel sistema giudiziario o durante la propria esperienza in carcere, hanno trovato nell’arte un modo di espressione. Dolorosa da guardare, mentre si moltiplicano le iniziative di facciata, questa mostra è una ventata di verità.
‒ Maurita Cardone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #57
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