(Auto)critica, riconciliazione e il ruolo dell’arte oggi. Intervista a Carlos Motta
Originario di Bogotà, Carlos Motta ha messo in discussione le proprie radici per riflettere sulle complesse trame socio-politiche e culturali contemporanee. Lo abbiamo intervistato.
Carlos Motta (Bogotà, 1978) è un artista di origine colombiana, residente a New York, la cui pratica interdisciplinare mira a mettere in discussione le idee dominanti riguardo alle politiche sulla sessualità e sul genere nei loro molteplici punti di intersezione. In questa intervista spiega le origini della sua arte e riflette sugli effetti della pandemia di COVID-19 e del movimento Black Lives Matter, sulle contraddizioni e sulle difficoltà nel mondo dell’arte che questi eventi hanno messo in luce e soprattutto su come essi abbiano influenzato e definito la sua percezione di sé come artista e il ruolo svolto dal suo lavoro nella società.
Il tuo lavoro indaga sulle forme di asservimento, spesso evocando gli storici interventi colonialisti di europei e americani in America Latina o attraverso opere che criticano il cattolicesimo. Così facendo evidenzi il modo in cui si sono imposti determinati discorsi normativi che governano e regolano la comprensione di sessualità, genere, etnia e corpo da parte delle persone. Il tuo lavoro intende anche documentare le lotte delle minoranze, specialmente all’interno delle comunità LGBTQI+. Come sei arrivato a interessarti a queste tematiche?
Sono cresciuto in Colombia negli Anni Ottanta e Novanta e le condizioni sociali, politiche, culturali e religiose che hanno definito quel luogo e quel tempo specifici hanno avuto un forte impatto su di me. La Colombia è un Paese molto cattolico ‒ anche se la mia famiglia non lo è ‒, perciò uno dei fattori più determinanti per la mia formazione è stato crescere in un luogo dove il dogma cattolico orienta la maggior parte degli aspetti della vita. L’interrogarmi sulla moralità normativa, sul mio rapporto con essa e su come ero tenuto a comportarmi ha plasmato la percezione che avevo di me stesso. C’è voluta l’opportunità di lasciare la Colombia per capire quanto un luogo definisca una persona, specialmente negli anni formativi, e quanto la politica del posto abbia influenzato la mia vita e il contenuto del mio lavoro artistico.
Il mio interesse per la vita e le politiche delle comunità sessuali e di genere corrisponde al mio identificarmi come gay, in relazione al genere di lotte che ho dovuto affrontare per fare i conti con il mio orientamento sessuale in un contesto tanto conservatore. Anche il mio interesse per la storia, per la politica e per gli effetti del colonialismo trova origine nel fatto di essere cittadino di una nazione che, seppure indipendente, è estremamente influenzata dalla cultura statunitense. E poi c’è anche la politica della disuguaglianza in relazione all’economia e alle problematiche di classe. Sono tutti temi su cui si focalizza la mia opera e che si rapportano con l’acquisita consapevolezza degli effetti dell’essere cresciuto in Colombia, di aver potuto andarmene, e di conseguenza aver espresso chiaramente una reazione critica a tutto ciò che mi definiva.
Nella tua arte la Colombia è stata una costante. Nel 2010 hai realizzato una performance e un video intitolati Six Acts: An Experiment in Narrative Justice, in cui sei attori di diversa formazione leggono discorsi sulla pace tenuti in origine da candidati presidenziali progressisti e di sinistra che negli ultimi cento anni sono stati assassinati a causa delle loro idee. Questo lavoro si collocava originariamente sullo sfondo delle elezioni presidenziali del 2010 in Colombia. Mi domando se alla memoria di questi leader politici si stia attualmente rendendo giustizia.
Negli ultimi dieci anni l’eliminazione sistematica della Sinistra è stata incessante. Purtroppo, la Colombia ha assistito all’uccisione di leader sindacali, capi indigeni, attivisti e di coloro che avevano sposato cause politicamente progressiste: persone che si oppongono agli interessi delle multinazionali e dello Stato riguardo allo sfruttamento delle risorse naturali e alle prassi lavorative irresponsabili.
BLACK LIVES MATTER E POLITICA
Il tuo lavoro, tuttavia, complica anche la nostra percezione di Paesi che si identificano come liberali e progressisti, e a cui associamo gli ideali occidentali di uguaglianza: hai fatto luce sugli atteggiamenti discriminatori che esistono al loro interno. La mia impressione è che queste contraddizioni siano state evidenziate dal movimento Black Lives Matter. In molti dei Paesi europei che hanno visto le proteste, una grossa fetta della popolazione è orgogliosa del suo passato colonialista. Ricordandoci l’erosione degli ideali progressisti, il tuo lavoro ha anche evidenziato come le posizioni di sinistra possano essere cieche e complici nel riprodurre i problemi che avevano inteso criticare.
Le proteste del movimento BLM hanno senza dubbio avuto un enorme impatto negli Stati Uniti e non solo, ma la tua domanda evidenzia una sorta di punto cieco, specificamente in relazione ad alcuni europei che si immedesimano nelle lotte degli afroamericani e nelle storie di razzismo negli USA in modi spesso miopi. Alcuni europei si dimostrano solidali ma non sono capaci di vedere il trattamento che la società riserva ai profughi africani e mediorientali o agli europei discendenti dagli africani nei loro stessi Paesi. Non dovrebbero prendere in esame la loro storia di sfruttamento coloniale? Al di là di una sorta di presa di posizione sui social media e altrove, oggi sui mezzi di informazione europei si discute poco dell’esigenza di esaminare la responsabilità dell’Europa nel replicare forme di dominio coloniale. Nel mio lavoro me ne sono occupato ampiamente.
Ci fai qualche esempio?
Un esempio recente è The Crossing (2017), una collaborazione con l’organizzazione Secret Garden, che si occupa della situazione dei richiedenti asilo e dei profughi LGBTQI+ in Olanda, una nazione storicamente considerata un punto di riferimento in fatto di libertà per quanto riguarda i diritti sessuali e di genere. Questa situazione è stata messa in discussione dall’arrivo degli immigrati e dei profughi arabi – persone che provengono da luoghi in cui l’orientamento sessuale o l’identità di genere non conforme alla norma sono condannati, illegali o culturalmente stigmatizzati. I movimenti di destra olandesi hanno usato la politica dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere come scusa per giustificare ulteriormente atteggiamenti colonialistici riguardo a razza e/o religione, e specificamente per legittimare l’islamofobia approvata dallo Stato. In The Crossing, mi interessa fare luce su questi processi: che cosa significa per un Paese estendere i diritti sessuali o di genere ai richiedenti asilo, ma al contempo usare quegli stessi diritti come arma contro altre persone; in questo caso essenzialmente persone che cercano di fuggire da Paesi in guerra e altre condizioni sociali precarie?
The Crossing è stata esposta allo Stedelijk Museum, dove i video dei migranti che parlano del loro viaggio in Olanda e della loro esperienza di vita nel Paese sono stati collocati accanto a oggetti provenienti da varie collezioni museali olandesi, che illustrano la storia della colonizzazione e del nazionalismo. Così facendo, mostri come le istituzioni artistiche siano complici nel plasmare la percezione pubblica degli altri e nel contribuire alla narrativa dell’asservimento attraverso le loro metodologie di raccolta, presentazione e ricerca. Allo stesso tempo, le inviti a un processo di autocritica. Durante il movimento Black Lives Matter abbiamo sentito delle dimissioni di molti direttori di musei e curatori. Qual è oggi il ruolo del museo, a tuo avviso?
La missione dei musei in Europa e in Canada è generalmente allineata alle ideologie nazionali. Alcuni di quei musei sono stati sottoposti a processi di autocritica, imposti da commissioni per la verità e la riconciliazione a livello nazionale – dove c’è un progetto sostenuto dallo Stato per prendere atto del passato colonialista e porvi rimedio. I canadesi in particolare sono più consapevoli della necessità di prendere atto che intere comunità sono state saccheggiate e decimate dalla colonizzazione e di rappresentare quelle voci a livello istituzionale. Un progetto come The Crossing indaga sul ruolo che il museo dovrebbe avere, ossia quello di un luogo generatore di narrative critiche incentrate sulla sua storia in quanto istituzione che raccoglie e conserva la memoria nazionale. Insieme a Martijn van Nieuwenhuyzen, curatore dello Stedelijk Museum, e alla storica dell’arte Valeria Posada, abbiamo scelto la soluzione di selezionare oggetti che illustrassero il rapporto ambivalente dell’Olanda con i processi coloniali e il modo in cui la sua storia è stata conservata e costruita, e di presentarli in relazione alle testimonianze video che ho girato con i profughi LGBTQI+.
D’altro canto, negli USA si intraprendono azioni che vanno verso una diversificazione delle collezioni museali, ma questa diversificazione dipende dai mandati dei comitati responsabili delle acquisizioni, che sono generalmente composti da donatori bianchi e facoltosi. Negli USA i musei hanno per la maggior parte un volto pubblico e si presentano come liberali o progressisti, ma dietro le quinte queste istituzioni sono sistematicamente stratificate in base a differenze di classe e di razza. I musei statunitensi sono per la maggior parte istituzioni private che tendono a fare gli interessi di un’élite.
CARLOS MOTTA E L’ESSERE ARTISTA
Un aspetto importante del tuo lavoro consiste nell’organizzare simposi, dibattiti e interazioni critiche tra artisti, attivisti, teorici e il pubblico. Spesso accompagni le tue opere con opuscoli e manifesti. Questo ti permette di raggiungere un pubblico più vasto rispetto a quanto accadrebbe se limitassi la tua produzione alle mostre, e ha anche prodotto un impatto reale e un cambiamento effettivo. Abbiamo parlato di istituzioni e collezionisti, ma mi interessa sapere come vedi il tuo ruolo oggi.
La pandemia e le proteste di Black Lives Matter hanno veramente messo in discussione il mio modo di pensare alla presentazione e alla diffusione del mio lavoro. Come artista, ho dovuto confrontarmi con l’esigenza di riesaminare il ruolo che il mio lavoro riveste nella società. L’arte è ancora importante in un mondo che è stato ulteriormente falcidiato dall’ingiustizia e dalla violenza? Come mi riconcilio con le contraddizioni intrinseche e profonde delle istituzioni artistiche che presentano il mio lavoro? Come misurare gli effetti delle crescenti disuguaglianze che sono state messe in luce da questi avvenimenti?
Un artista come me, che ha sviluppato un discorso critico su alcune di queste questioni ma ha anche opportunità continue di essere sostenuto da istituzioni e gallerie d’arte, non può fare a meno di riconoscere di fare parte di un sistema squilibrato basato sulle disuguaglianze. Il discorso critico che ho elaborato riguardo alla rappresentazione delle comunità emarginate è stato simultaneamente utilizzato per “rappresentare” gli ideali progressisti di una data istituzione, che può essere o meno veramente impegnata per il cambiamento sociale ma che il più delle volte è complice nel replicare disuguaglianze sistemiche. Faccio finta che non sia successo nulla e vado avanti come al solito o colgo l’occasione per oppormi alle contraddittorie strutture di chi mi sostiene, anche se significa perdere alcuni dei privilegi che mi sono stati concessi? In futuro, come parlerò a un pubblico dall’interno di queste istituzioni? Tutte queste questioni complesse esistevano ben prima della pandemia o del recente manifestarsi del movimento BLM, e moltissimi artisti e pensatori critici se ne occupano da molto tempo, ma gli avvenimenti degli ultimi tempi le hanno rese ancora più urgenti e impossibili da evitare.
In passato hai definito la tua “una pratica artistica etica” e hai parlato dell’uso dei privilegi ottenuti per promuovere un impatto, un cambiamento e un’azione reali in relazione alle comunità private dei loro diritti. Sono parole importantissime. Specialmente perché uno dei dilemmi con cui dobbiamo confrontarci oggi è quello dell’accesso a contenuti validi e punti di vista alternativi sulle storie di immigrazione, sessualità e diritti civili che vengono raccontate dai media tradizionali. Forse parte del tuo ruolo oggi può proprio essere continuare a raccontare storie e a porti così in relazione con le persone.
Credo che molti artisti, me compreso, stiano realizzando un lavoro volto a spronare le persone a riconsiderare posizioni conservatrici o rigide su determinati argomenti, e anche a mettere in discussione la comunicazione tradizionale, ma penso che non basti più. È tempo di iniziare a pretendere un cambiamento sostanziale. Sento che è il momento di interrogarsi a fondo e di conversare tra colleghi, di trasformare questi sistemi di disuguaglianze che definiscono le istituzioni che regolamentano il nostro lavoro.
MEMORIA E DEMOCRAZIA SECONDO CARLOS MOTTA
Nel tuo lavoro ti sei ampiamente occupato del tema dei memoriali e delle statue. Durante le manifestazioni del movimento Black Lives Matter ne abbiamo visto abbattere molte. Non pensi però che le statue dei colonizzatori possano avere una valenza culturale di promemoria? La conoscenza del passato non è forse necessaria per valutare continuamente la propria posizione nella società e il proprio rapporto con la storia, così come il concetto di democrazia e il significato della partecipazione per un membro di una società civile?
Ultimamente ho pensato molto ai monumenti, soprattutto per via di quanto è accaduto con l’abbattimento delle statue coloniali durante le proteste di BLM, ma anche perché recentemente sono stato incaricato di sviluppare una proposta per l’High Line Plinth a New York. I monumenti pubblici cercano spesso di rappresentare tutto con un’unica immagine emblematica. Le singole immagini possono essere toccanti e proficue, ma il più delle volte mancano di contesto. Ho pensato molto a come realizzare un monumento che crei un contesto. Come attivare un luogo pubblico attraverso mezzi estetici senza perderne di vista il potenziale sociale di creare e riflettere sulle comunità? Che cosa comporta immaginare un monumento che consideri davvero un luogo pubblico come opportunità per discutere pubblicamente?
Quale riposta ti sei dato?
In merito alla proposta per l’High Line Plinth, io, Theodore Kerr e Koray Duman volevamo pensare alle pandemie di HIV/AIDS e COVID-19 in corso e prendere atto del fatto che ci sono più vuoti che verità nella conoscenza sulla sanità pubblica e sulla rappresentazione culturale della malattia. Stiamo cercando di creare un monumento che unisca le persone a livello fisico e discorsivo, mediando tra le storie dei vivi, dei malati e dei morti.
D’altra parte, penso anche che anche gli oggetti più controversi debbano trovare spazio nella memoria istituzionale; per quanto sia contento di veder abbattere monumenti di bianchi a cavallo – e ciò che rappresentano – penso che questi oggetti debbano essere conservati in archivi e collezioni. La conservazione degli oggetti nel contesto appropriato permetterà alla gente di conoscere la propria storia in vista del futuro.
Sebbene il tuo lavoro tratti molti interrogativi fondamentali, ha anche un aspetto che riguarda il lutto personale e la riflessione su di sé. Una volta hai detto, in relazione ai tuoi autoritratti, che ti sentivi abbastanza sicuro per mostrarti con tutte le tue debolezze. Ci puoi raccontare qualcosa di più su quei ritratti e sul valore della vulnerabilità?
Queste fotografie sono intuitive e trattano i temi della perdita e della morte. Trovare questi autoritratti che erano stati dimenticati nel mio archivio e rivederli ha portato una ventata di freschezza: mi hanno ricordato che potevo tornare a lavorare in modo più intuitivo. Queste fotografie parlano della mia esperienza di essere umano nel mondo, e questo per me è diventato veramente importante. Mi hanno autorizzato a esaminare i diversi modi di fare arte.
‒ Edoardo Ghizzoni
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