Quando l’arte supera le etichette. Intervista a Michael Snow, in mostra a Firenze
Pittore, scultore, regista, musicista, ma non ama legarsi in maniera univoca ad alcune di queste definizioni. Lui è Michael Snow e lo abbiamo intervistato in occasione della sua mostra negli spazi fiorentini di Base / progetti per l'arte.
Classe 1928, Michael Snow, in mostra a Firenze negli ambienti di Base / progetti per l’arte, ripercorre la sua carriera al confine tra musica, pittura, scultura e cinema.
Allo spazio non profit di Firenze Base / progetti per l’arte, dal mese di novembre 2020, hai ideato una mostra in cui hai fatto dialogare differenti opere (sonore e video) in modo del tutto inedito creando un vero progetto “site specific”. Anzi, credo sarebbe più corretto definirla un’operazione “time specific”, visto che tutta la mostra ha una particolare temporalizzazione delle opere pari a una partitura musicale. Questa specifica modalità ti ha permesso di creare una diretta sui social, una preview della mostra, per il pubblico impossibilitato a venire fisicamente a Firenze a causa del lockdown. La diretta non è però stata la traduzione in virtuale della visita della mostra, bensì un’esperienza differente da quella che il visitatore realizzerà in presenza. Hai proposto una riflessione raffinata sul concetto di “partecipazione” al tempo dello smart working e delle relazioni a distanza forzate. Vorrei iniziare questa nostra conversazione da una semplice domanda sul titolo del tuo progetto fiorentino: perché Suoni di Snow? Cosa rappresenta?
Il suono e la musica sono sempre stati importanti per la mia ricerca artistica. Per la mostra di Base ho utilizzato tutte opere che sono incentrate sul suono. Il video dal titolo Snow In Vienna documenta un mio concerto per pianoforte, mentre Room è un’installazione sonora incentrata su una registrazione per pianoforte eseguita dal sottoscritto. L’opera video Cityscape (2019), pur richiamando il mio film sperimentale La Région Centrale del 1971, che è un cult per le ricerche sull’immagine in movimento, ha come soggetto il paesaggio della città di Toronto in dialogo con una composizione che utilizza suoni campionati connessi allo strumento della batteria. Quindi, il titolo Suoni di Snow di fatto è il filo conduttore delle opere in mostra.
Nel mondo dell’arte e del cinema sperimentale sei famoso per la tua lunga ricerca sulla natura delle immagini (immagini fotografiche e filmiche, ma anche quelle pittoriche e scultoree). Hai però anche una lunga carriera come musicista professionista. Quanto queste tue due carriere si sono influenzate a vicenda?
Sono un musicista professionista dalla fine degli Anni Quaranta, ovvero prima ancora di iscrivermi come studente alla scuola d’arte. La mia prima mostra di dipinti e disegni è del 1955 e fu notata da George Dunning (è accaduto prima che lui fosse il regista del film Yellow Submarine dei Beatles) che mi invitò a lavorare nel suo studio Graphics Films a Toronto. Lì ho imparato a lavorare con l’animazione. Passare dal disegno a un mezzo basato sul tempo come il film è stata un’evoluzione naturale per me, forse permessa proprio dalla mia esperienza con la musica. Mentre ero alla Graphic Films ho realizzato la mia prima opera filmica dal titolo dalla A alla Z (1956). Più tardi, a New York, ho realizzato il mio secondo film, New York Eye and Ear Control (1964) che sposa suono e immagine. Ho associato il free jazz al mio linguaggio visivo della serie The Walking Woman. In quel caso era la musica che guidava tutta la narrazione e non poteva essere considerata secondaria o soltanto una colonna sonora. Musica / suono e film / fotografia hanno continuato a intrecciarsi per me costantemente. La mostra a Base a Firenze dimostra queste connessioni in corso nel mio lavoro ancora oggi.
Il film di cui parli (New York Eye and Ear Control) lo realizzi nello stesso anno del film Empire di Andy Warhol. Come consideri oggi, a distanza di tanto tempo, questi due film dalle estetiche molto diverse? Ci rivelano due filosofie dell’arte e del concetto di pop? Puoi parlarmene?
Sì, il mio film New York Eye And Ear Control è specificamente interessato al suono (improvvisazione jazz libera), mentre Empire è silenzioso e immobile. Alla prima (o era la seconda?) proiezione a New York di New York Eye and Ear Control, il pubblico di 20 o 30 persone aveva fischiato lungamente durante la proiezione, ma non appena il film è finito Warhol e Gerry Malanga sono corsi fuori dalla sala e sono entrati, molto eccitati, nella cabina di proiezione. Io ero lì. Hanno iniziato a dire che pensavano che il film fosse fantastico e che dovevano conoscere assolutamente il regista.
MICHAEL SNOW E NEW YORK
New York, in quel momento, era il luogo perfetto per te, visto che il dibattito sulla sperimentazione cinematografica era molto vivo e vi contribuivano figure come Jonas Mekas, Ken Jacobs e Hollis Frampton, con cui eri in contatto.
La voglia di voler sperimentare era molto diffusa. Eravamo tutti unanimi nel lodare i film di Stan Brakhage. Eravamo molto coinvolti nel vedere il lavoro degli altri, ma non ne abbiamo parlato molto. Ci vedevamo spesso nel loft di Ken Jacob per proiettare film. Pensando a quello che mi hai chiesto su The Empire di Warhol, anche se non l’ho mai visto di persona, mi ricordo che ero rimasto da subito molto sorpreso dal fatto che il cameraman fosse Jonas Mekas. Questo perché Mekas ha realizzato i suoi film strutturando un’estetica della breve sequenza. Tutto si svolgeva in pochi fotogrammi per ripresa, mentre per il film di Warhol tutto è basato su un’unica lunga e lenta ripresa fissa.
In quegli anni a New York hai incontrato anche molti musicisti Jazz…
A New York non ho suonato molta musica da solo. Ma ho messo il mio studio, con il suo pianoforte, a disposizione dei musicisti per esercitarsi, per esempio Paul Bley. Albert Ayler e l’ensemble hanno registrato la colonna sonora di NYEAEC nel mio studio.
Proprio in quegli anni sviluppi una nuova visione dell’immagine in movimento che ti porterà alla creazione del tuo film Wavelength, che esce nel 1967, e che viene considerato un capolavoro.
Wavelength è stato girato nel mio studio. Le riprese sono durate un paio di settimane utilizzando una telecamera fissa, ma con un obiettivo zoom molto potente. L’immagine si evolve gradualmente dalla sua maggiore ampiezza iniziale che inquadra quattro finestre fino ad arrivare allo spazio minimo di una singola fotografia delle onde dell’oceano Atlantico, che appunto era un’immagine posta sul muro tra due finestre.
Nel tuo film, all’inizio della narrazione, sembra non accadere niente di particolare. Tutto però cambia quando la stanza è invasa da una canzone dei Beatles pubblicata da poco. Da quel momento iniziano ad accadere scene surreali tra cui anche una persona che cade a terra morta. Una frase della canzone recita: “Nothing is real”. Che significato ha questo tuo film? È una riflessione sul fatto che tutto è finzione all’interno della società dei mass media? Era una critica ai mass media o alla loro potenzialità? Oppure…
La frase “nothing is real” dei Beatles si trova all’interno del brano Strawberry Fields Forever e si sovrappone perfettamente al senso della rappresentazione del film. Ci ricorda che quello che stiamo guardando non è quello che stiamo vedendo, perché è una rappresentazione. In Wavelength, il brano viene trasmesso da una radio accesa in quel momento, come una presenza casuale. La radio è una presenza importante in quel caso. La radio era al pari delle finestre, ovvero un’altra apertura nello spazio. Proprio come le finestre lasciano entrare la luce, la radio lascia entrare il suono, quello strumento rende comprensibili le onde radio altrimenti impercettibili.
LA MUSICA SECONDO MICHAEL SNOW
È interessante notare che nei tuoi film, come in quello appena citato, la musica svolge sempre un ruolo centrale per lo svolgimento della narrazione. In alcuni casi però la musica diviene non solo il soggetto, ma anche l’oggetto dell’opera. Possiamo citare tantissime opere degli Anni Settanta e poi degli Anni Novanta in cui ti sei concentrato su questo aspetto. Vorrei però chiederti in particolare di un progetto che apparentemente può sembrare laterale alle tue modalità operative e che invece ne rivela appieno il senso. Penso all’opera sonora distribuita per mezzo della sua pubblicazione in vinile del 1987 dal titolo The Last LP. Vinile ri-pubblicato proprio recentemente dalla etichetta Discogs. Come è nato questo progetto? Che significato acquista oggi in un mondo completamente diverso rispetto all’orizzonte in cui è nato e che ora è di tipo post-colonialista, animato dagli archivi digitali e in cui è tornato di moda proprio il vinile?
Il mio progetto The Last LP lamentava all’epoca la supposizione che i dischi in vinile stessero diventando obsoleti a causa dell’introduzione dei compact disc. The Last LP ha utilizzato un formato “morente” per inventare opere sonore, descritte come le ultime registrazioni possibili di tradizioni musicali in via di estinzione in varie parti del globo. I brani sono composti da mie libere improvvisazioni, da elementi musicali che assomigliano ad altra musica e di cui possiamo riconoscere dei frammenti nella mia improvvisazione, non come riferimenti, ma suoni associati al di fuori del nostro ambiente immediato. Tutto il progetto è nato dal fatto che mi sono reso conto che il registratore era uno strumento musicale autonomo in se stesso. La manipolazione della velocità del nastro / altezza di riproduzione, il compositing e altre caratteristiche tecniche e il modo in cui potevano essere utilizzati sia musicalmente che creativamente sono stati l’impulso principale per questo lavoro. Era un processo per inventare cose che erano ragionevoli e possibili, ma comunque di finzione e create appositamente. Tutti gli elementi di testo che accompagnano il progetto e che sono testi che ancora oggi riflettono anche sul modello antropologico o scientifico con cui accostarsi “all’altro diverso da sé” sono stati scritti dopo che le registrazioni erano state completate. Il loro modo di fruirli non è quello scientifico. Sono stampati sulla copertina. Si presentano con lo stile delle note di copertina degli LP di “world music” che erano disponibili all’epoca.
È interessante quello che dici. Da questo punto di vista sembra che quello che realizzi con tutte le tue opere sia una sorta di antidoto agli inganni dell’interpretazione in un mondo di mass media, sia che siano analogici che digitali. In questa ottica vorrei che tu mi parlassi di uno dei tuoi lavori recenti. Penso all’installazione video dal titolo Fields (2002-15).
Per iniziare la mia risposta devo fare delle puntualizzazioni. Il titolo del pezzo è Video Fields. È stato originariamente realizzato nel 2002, installato senza suono ma con un grande ventilatore che muoveva l’aria della stanza sul pubblico mentre entrava nella galleria. Nel 2015, ho modificato l’installazione, sostituendo la ventola con un altoparlante, spostando anche l’aria sul pubblico, che emetteva una registrazione di me che suonavo suoni simili al vento sul mio sintetizzatore. Le immagini dei campi di erba sono stati registrati in una giornata ventosissima a Terranova, dove ho una capanna e dove mi ritiro. In quel giorno i fiori in movimento erano così sorprendenti che chiedevano semplicemente di essere catturati.
IL FILM PRESENTATO A FIRENZE
Parlami del tuo ultimo film che hai presentato a Base a Firenze (in dialogo con altre opere video e sonore in una temporalizzazione unica) dal titolo Cityscape.
Cityscape è stato girato con un supporto controllabile che è un’approssimazione contemporanea dell’apparato di movimento della telecamera, che ho progettato e costruito per filmare La Région Centrale nel 1971. In contrapposizione a La Région Centrale, girato nella zona più remota che ho potuto trovare (da qualche parte in Quebec), Cityscape ritrae l’ambiente molto più denso di Toronto, il luogo in cui vivo. È interessante confrontare le superfici catturate dai due film.
Come hai pensato alla particolare musica che accompagna questo video sul paesaggio di Toronto che rende l’immagine della città un miraggio, un’idea, ma anche un elemento astratto?
Il ritmo dell’immagine panoramica richiedeva un suono particolarmente ritmico. Mio figlio è un serio collezionista di musica Drum and Bass e per moltissimi anni volenti o nolenti l’abbiamo ascoltata. Al centro di questo genere c’è un campione specifico, che è stato campionato migliaia di volte da produttori che hanno prodotto hip hop, batteria e basso e altra musica recente. Sono sei secondi di una pausa di batteria che viene ripetuta continuamente. La canzone originale, Amen, Brother, è stata registrata dai Winston nel 1969. Ho lavorato con Mani Mazinani, che è stato un collaboratore musicale occasionale, per produrre la colonna sonora, che è stata eseguita controllando manualmente l’accelerazione e il rallentamento del loop. Abbiamo utilizzato il movimento dell’immagine per strutturare la composizione usando la velocità di riproduzione come elemento compositivo. Ovvero ritmicamente in sincronia con i movimenti della fotocamera.
Ora che il 10 dicembre compi 92 anni e dopo che a Base a Firenze metti in mostra i Suoni di Snow, sia come musicista che come artista visivo, puoi dirmi se ti senti di essere stato o di essere più un musicista, più uno scultore, più un filmmaker o più un pittore?
La mia risposta adesso a 92 anni è la stessa che mi sono dato e che ho scritto nel 1967: “Non sono un professionista. I miei quadri sono realizzati da un regista, le mie sculture da un musicista, i miei film da un pittore, le mie musiche da un regista, i dipinti da uno scultore, le sculture da un regista, i film da un musicista, la musica da uno scultore … a volte lavorano tutti insieme. Inoltre molti dei miei quadri sono stati realizzati da un pittore, le sculture da uno scultore, i film da un regista, le musiche da un musicista. C’è una tendenza alla purezza in tutti questi media come sforzi separati”.
‒ Lorenzo Bruni
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