Musei e digitale. Intervista a Maria Chiara Ciaccheri
Parola a Maria Chiara Ciaccheri, ideatrice del sito Museums for People, un’utile guida ai cosiddetti museum studies.
Per questa intervista cambiamo punto di vista, omaggiando l’iniziativa di un singolo professionista, anzi, di una singola professionista, Maria Chiara Ciaccheri, esperta di accessibilità museale e visitor studies. Il suo sito Museums for People è un esempio di grande competenza e grazia, nonché una fonte preziosissima di risorse, non solo bibliografiche.
Vuoi dirci da dove è nata l’idea? Da quale bisogno?
Museums for People nasce come profilo su Instagram un anno e mezzo fa. L’idea alla base del progetto è la stessa che giustifica parte del mio lavoro: rendere comprensibili contenuti complessi, cercando di sfatare l’equivoco – quando non si ragiona per competenze trasversali – che così facendo si sviliscano. Nella fattispecie, ho provato a rendere più accessibili alcuni concetti chiave dei museum studies.
Perché il sito è in inglese? È una dichiarazione contro il provincialismo?
Il sito è in inglese solo perché, avendo tanti colleghi e amici stranieri – soprattutto statunitensi –, volevo uno strumento che permettesse di continuare un dialogo con loro su temi percepiti con ugual urgenza da noi come in altri Paesi. Dal mio punto di vista, avrebbe avuto senso anche in italiano, se non fosse che inizialmente ci tenevo all’anonimato ed ero interessata a osservare i feedback (soprattutto su Instagram), libera dai condizionamenti di chi avrebbe potuto riconoscermi. E poi l’inglese rimane il dominio delle possibilità.
In che senso?
Un esempio fra i tanti: l’anno scorso, quando il progetto era ancora anonimo, uno dei miei musei preferiti a Londra mi ha invitata a intervenire a una conferenza – il che non è affatto inusuale nel mio percorso, ma in Italia avviene quasi sempre solo a fronte di nomi e percorsi riconoscibili.
I disegni, adorabili ed efficaci, sono tuoi. Come hai fatto a imparare? Hai scoperto un tuo talento? E, in ultimo, pensi siano più parlanti di mille parole?
In realtà mi è sempre piaciuto disegnare e forse non poteva andare altrimenti, perché nella mia famiglia tutti disegnano: mio papà, ad esempio, credo disegni anche in fila al supermercato. Diventare consapevoli delle proprie competenze e spendersi per trovar loro spazio anche in ambito professionale è invece una conquista dell’età adulta. E se i disegni dicono più di mille parole, spetta agli altri stabilirlo: la cosa importante (come sostiene chi si occupa di interpretazione) è che non siano le mille parole sbagliate. Nel dubbio, ogni illustrazione è sempre accompagnata da un testo.
Accessibilità e digitale. È cambiata la prospettiva? E gli strumenti? E il tuo atteggiamento?
Nonostante l’urgenza di questo momento storico, la prospettiva non è molto cambiata. Il digitale è certamente uno strumento per l’accessibilità, perché contribuisce ad articolare ulteriormente i processi di mediazione del museo, moltiplicando le possibilità di accedere ai suoi contenuti. Eppure, al tempo stesso, rimangono senza risposta molteplici interrogativi associati soprattutto a barriere di tipo cognitivo.
Cosa intendi?
Quello che rilevo, dopo essermene occupata per molti anni, è che l’accessibilità è rimasta vincolata in modo equivoco e spesso esclusivo al concetto di disabilità, e questo ne ha limitato la comprensione del potenziale, soprattutto sul fronte della facilitazione e dell’usabilità: la possibilità di accedere in modo semplice e intuitivo a un contesto dovrebbe infatti essere parimenti una prerogativa essenziale. In anni recenti, insomma, insisto nella necessità di concepire musei che siano accessibili per tutti, spostando il focus dalle persone ai bisogni, più o meno articolati, secondo una prospettiva capace di sfatare molti tabù e altrettanti stereotipi sui contesti di apprendimento informale.
Quale consapevolezza esiste nei musei italiani sul tema dei bisogni dei visitatori?
La consapevolezza delle istituzioni rimane mediamente bassa perché le opportunità formative sono ridotte e mancano percorsi di studio focalizzati sui museum e i visitor studies. La buona notizia, però, è che di generazione in generazione le competenze si vanno rafforzando sempre più, spesso all’incrocio con altri ambiti disciplinari, dagli studi di psicologia ambientale al social design.
Di cosa non si tiene conto con i virtual tour?
Penso manchino delle valutazioni analitiche proprio sull’esperienza dell’utente: non se ne conoscono i bisogni, non si analizzano le motivazioni e i bias ricorrenti, e soprattutto, di conseguenza, non si sanno definire strategie efficaci rispondenti a chiari obiettivi. Può capitare con i tour virtuali ma anche con i videogiochi o gli allestimenti più tradizionali – e ogni volta si vede.
Il tuo sito ha una preziosissima sezione dedicata alla bibliografia. Poiché per questa rubrica è un rito, consigliaci uno o due titoli che ritieni fondamentali.
Ti citerò due libri che non sono in elenco e non strettamente di museologia. Uno è Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, il libro scritto da Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017. Per ‘nudge‘, o ‘spinta gentile’, si intendono quegli incentivi positivi che permettono di sollecitare qualcuno a far qualcosa liberamente e a fin di bene – un richiamo alle responsabilità che abbiamo anche noi progettisti culturali in termini di facilitazione. L’altro è The Politics of Design. A (Not So) Global Design Manual for Visual Communication di Ruben Pater: un testo che, senza parlar mai dei musei, insegna molto sulle istanze interpretative e di rappresentazione. E per chi fosse interessato ad altri titoli più strettamente legati a musei, accessibilità e visitatori, rimando certamente alla bibliografia sul sito, disponibile ovviamente sia in formato visivo che tradizionale.
‒ Maria Elena Colombo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #56
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