Studio visit. Parola a mrzb

Andrea Parenti, Désirée Nakouzi De Monte, Filippo Tocchi e Pietro Cortona sono le anime di merzbau, collettivo artistico fondato nel 2013 a Bologna che ha trovato “casa” lungo il fiume Stura, a Torino, in uno spazio di confine tra campagna e abbandono.

La prima intervista che abbiamo fatto doveva essere una chiacchierata informale e invece ci siamo ritrovati davanti a due telecamere. Faretti, loro davanti a noi lontani, noi con il lavoro alle spalle. Una tragedia. Domande tipo “secondo voi l’arte salverà il mondo?”. È andata malissimo.

Ecco, magari noi cerchiamo di fare una cosa più soft. Vogliamo iniziare dicendo qualcosa del luogo in cui ci troviamo e dello spazio che avete costruito?
All’inizio, quando siamo venuti a Torino, stavamo facendo dei sopralluoghi lungo il fiume Stura. Volevamo costruire una struttura semplice, una sorta di capanna nel bosco. Camminando abbiamo notato delle baracche sull’argine opposto del fiume, l’abbiamo attraversato e abbiamo iniziato a bussare alle porte.  Inizialmente ci ha accolto una famiglia di rumeni. Avevano costruito una villetta e ci hanno raccontato come funzionavano le cose in questo posto. Poi in realtà il nostro contatto principale è stato il Signor G., un pensionato pugliese. È un po’ il capoccia del luogo. Il campo si divide in due parti: pensionati che fanno orti e varie altre comunità. G. è un po’ il difensore dei pensionati, perché ogni tanto questi subiscono varie incursioni e furti. Lui dice di avere un fucile e si batte per regolare l’ordine.

Tipo Rambo.
Cerca di mantenere l’ordine anche nei confronti delle ingerenze esterne, del Comune, ad esempio. Questo posto c’è da tantissimo tempo, lui è qui da 20 anni, ha una specie di diritto di utilizzo di questi spazi. Una volta lo chiamavano Toxic Park, venivano a spacciare su un’isoletta in mezzo allo Stura. Ci ha raccontato vari episodi di incursioni di poliziotti a cavallo che cercando di fermare questi traffici cadevano in acqua inseguendo gli spacciatori. Poi altre storie più truci, che non sappiamo se siano vere. In realtà non è stato facile ottenere questo spazio. Siamo dovuti venire varie volte, mangiare con lui e farci conoscere. Dopo un po’ ci ha chiesto se eravamo poliziotti. La riappropriazione di un terreno pubblico in modo illegale è una scelta forte. Questo terreno è suo e non lo manderanno via in nessun modo.

Dopo un po’ di tempo siete riusciti a farvi dare il permesso per costruire.
Ci ha concesso un pezzo di terra molto piccolo, quello su cui poi abbiamo costruito, mentre l’altro pezzo, quello dove ora c’è la roulotte, era dei signori qua davanti, che ci coltivavano erbacce.

mrzb, Baracca, Lungo Stura, Torino

mrzb, Baracca, Lungo Stura, Torino

La vostra idea iniziale è sempre stata quella di costruire uno spazio per ospitare dei progetti oppure è venuta in corso d’opera?
All’inizio pensavamo all’idea estemporanea di costruire una capanna per un evento singolo, poi quando abbiamo scoperto questo posto abbiamo pensato alla possibilità di fare qualcosa che durasse un po’ di più nel tempo, qualcosa di più stabile e duraturo. Era un’idea che avevamo da un po’ di anni e rispecchiava la necessità di avere uno spazio stabile dove poter ospitare pratiche e relazioni che abbiamo sempre sviluppato in maniera nomadica. Ci sono tanti motivi per cui siamo andati verso questa direzione.

Se volessimo definirla, è una via di mezzo tra un’installazione e una scultura in cui poi vengono ospitati altri interventi?
Esatto. La cosa che ci piaceva della baracca è che si poteva variare in continuazione la struttura. La baracca ha una doppia parete, uno strato interno e uno esterno, li abbiamo costruiti in modo che si possano sostituire in maniera autonoma. La sua forza è nel non essere uno spazio fisso, ma un essere in continua evoluzione. Volevamo realizzare una struttura che fosse abbastanza mimetica rispetto al contesto, ma non troppo. Non doveva essere solo una baracca, ma doveva essere anche una baracca.

Mentre la roulotte ha la funzione di ufficio.
La roulotte l’abbiamo presa dai nostri vicini e l’abbiamo trascinata qui a mano. In realtà pensavamo potesse essere anche un secondo spazio, però stiamo ancora valutando perché ci serve un ufficio. Inizialmente pensavamo alla baracca come unico spazio espositivo, poi ha iniziato a interessarci anche l’aspetto comunitario: vivere l’intero spazio, integrarlo anche con altri elementi, farne un insediamento. Non renderlo solo uno spazio espositivo in una baraccopoli ma dargli un’identità come luogo, regno, habitat.

LA STORIA DI MRZB

La cosa che ci ha colpito da subito di mrzb è che siete partiti con un progetto artistico in linea con tutta una serie di iniziative che propongono l’inclusione attraverso l’arte. Ma voi avete bypassato totalmente questa parte. Vi interessava creare uno spazio in cui poteste essere autonomi, in cui ospitare progetti. Tutte le iniziative promosse da Comuni e fondazioni partono dall’inclusione, ma nel vostro progetto l’inclusione è venuta da sé, in automatico, senza proclami. Avete attuato il processo opposto per ottenere gli stessi se non maggiori risultati rispetto a queste iniziative.
Ci è venuto abbastanza naturale, appena arrivati a Torino, uscire e andare a vedere gli spazi più esterni, più marginali e periferici, proprio per una questione personale, di cose che ci interessano, di dove ci piace stare. Per noi questo è sì uno spazio espositivo, sì un progetto artistico, ma è anche un po’ casa nostra, dove ci sentiamo meglio, racchiude tutte queste cose. Abbiamo scelto questo posto perché è una terra di nessuno, al di fuori dei tempi e degli spazi della città, ne è in qualche modo uno scarto, un avanzo. In questo ambiente, al limite tra la campagna e la discarica, abbiamo ritrovato un tempo sospeso, quasi sacro, dedito all’ozio, alla festa, al rito.

mrzb, Weathered Shabby Shabby Brenches. Vernal Festivity of the Four Clari, 2020, dettaglio. Courtesy gli artisti

mrzb, Weathered Shabby Shabby Brenches. Vernal Festivity of the Four Clari, 2020, dettaglio. Courtesy gli artisti

Siete arrivati a valutare questa zona tramite un progetto che avete realizzato a febbraio di quest’anno, Weathered Shabby Shabby Brenches: Vernal Festivity of the Four Clari.
Era una sorta di rito di iniziazione. Stavamo leggendo di queste tematiche, culti rurali, cosmogonie agrarie legate alla terra, al pane, al fuoco. Discorsi che facevamo in quel periodo anche con G. È stato un rito di passaggio, propiziatorio, un atto sacrificale e di iniziazione allo stesso tempo. Dovrebbe essere anche di buon auspicio.

In cosa consisteva?
Nel letto secco del torrente che delimita l’ex baraccopoli abbiamo eretto quattro streghe con ramaglie lasciate dallo Stura. Poi abbiamo modellato delle facce di pane. In realtà non erano proprio streghe, non avevano sesso. Le abbiamo vestite con stracci e dipinti e gli abbiamo dato fuoco al crepuscolo dell’ultimo giovedì di febbraio. Sono bruciate in pochi minuti. Gli unici spettatori eravamo noi, G. e il suo amico macellaio, che stavano passando per caso e si sono fermati a guardare. È stata una cerimonia intima, ma legata a pratiche contadine universali, allo stesso tempo.

mrzb, Weathered Shabby Shabby Brenches. Vernal Festivity of the Four Clari, 2020, dettaglio. Courtesy gli artisti

mrzb, Weathered Shabby Shabby Brenches. Vernal Festivity of the Four Clari, 2020, dettaglio. Courtesy gli artisti

Cosa ne hanno pensato?
Erano entusiasti. Hanno capito. Noi all’inizio eravamo un po’ spaventati perché ci avevano raccontato di problemi legati a roghi in questa zona. Non sapevamo bene come l’avrebbero presa. Invece appena li hanno visti ci hanno subito chiesto se gli avremmo dato fuoco, come se lo stessero aspettando, il fuoco. Hanno capito subito cosa stavamo facendo. Un riscontro simile c’è stato anche durante l’inaugurazione della baracca, da parte dei nostri vicini di terreno mentre guardavano una vetrina allestita.

mrzb, Ima's Death bed, 2020, scoiattolo, salnitro, cristallo. Courtesy gli artisti

mrzb, Ima’s Death bed, 2020, scoiattolo, salnitro, cristallo. Courtesy gli artisti

Cosa conteneva la vetrina?
Era la stessa vetrina che avevamo installato nel prato per un progetto online organizzato dal collettivo russo Plague Pro. C’erano i resti di quello a cui stavamo lavorando in quel periodo. Non c’era niente di specifico. Uno scoiattolo sotto salnitro che stiamo mummificando, opere incompiute, la foto di un mostro di carne che avevamo cotto e mangiato qualche giorno prima, un dipinto a olio con piantati degli specchi rotti. Poi c’era Shuum, un personaggio con la faccia di uccello dal corpo allungato. Da questo lavoro è nata una leggenda. Ai bambini zingari che venivano qua ogni giorno abbiamo raccontato che l’avevamo trovato nel fiume, che era un cavalluccio marino. Gli abbiamo raccontato delle storie su questo piccolo mostro e loro ci hanno creduto. Un giorno torniamo dopo essere stati via e troviamo Shuum spiaccicato contro la porta. Loro erano entrati, l’avevano preso, poi si vede che non riuscivano a scavalcare per rimetterlo a posto e l’hanno incastrato in un buco vicino alla porta. Sono venuti a prenderlo e ce lo hanno riportato. Non sappiamo cosa ci abbiano fatto, forse se lo volevano mangiare. Non l’hanno mai confessata questa cosa. Ogni tanto gli tiriamo delle frecciatine, al che iniziano a parlare in rumeno e ridono.

mrzb, The Hunt of Shuum, in a v tight pale Dimple, 2020, legno, farina, acqua, lievito. Courtesy gli artisti

mrzb, The Hunt of Shuum, in a v tight pale Dimple, 2020, legno, farina, acqua, lievito. Courtesy gli artisti

Stupendo. Come nei film in cui i bambini fanno le prime esperienze con il mistero e la mistica, tipo i Goonies, quei momenti di iniziazione, scoperta, passaggio, anche di crescita, che avvengono attraverso oggetti o luoghi misteriosi.
Poi bello immaginare questi bambini con questa bestia strana che se la passano, la portano nelle case dei loro genitori. Noi gli raccontavamo delle storie, dicevamo che volava di notte. Adesso questo oggetto grazie a loro ha un’anima.

MRZB A TORINO

Troviamo che sia un qualcosa di ancestrale, come molte delle cose che fate. Ci viene in mente che a Torino, a giugno, in piazza Castello fanno un falò per San Giovanni, ma è una cosa che avviene in molte città. Voi avete preso questo rito dal centro e l’avete messo dove sta la gente. E anche l’idea di collaborazione ritorna spesso in molti vostri progetti. La prima che ci viene in mente è quella con Pietro Agostoni al Bastione. Come si era svolta la vostra collaborazione in quell’occasione?
Quella delle collaborazioni aperte è una dinamica di lavoro che abbiamo sempre portato avanti. Anche i furti. Il nostro metodo di collaborazione è molto ampio, e comprende sia il rubare cose che chiederle in prestito per poi modificarle. Abbiamo sempre cercato di mantenere questa linea nel nostro lavoro. Nessuna autorialità sulle cose, sia nostra sia di ciò che prendiamo da altri. Interveniamo su elementi altrui oppure chiediamo contributi esterni per il nostro lavoro e alla fine tutto diventa una cosa unica. È la tipologia di pratica che ci ha interessato da sempre. Sì, abbiamo sempre lavorato così. Esatto. È un discorso che facevamo anche nelle prime cose che producevamo, come le fanzine. Con Pietro ci conosciamo già da tempo. Già dall’inizio, quando lavoravamo alla rivista, ci aveva mandato dei contributi.  Ha poi partecipato a una collettiva che abbiamo organizzato a Macao a novembre del 2018. Si è creata una certa sintonia, sia a livello personale che artistico. A Torino abbiamo pensato di sviluppare ciò sui cui si era lavorato nell’hangar in un altro tipo di contesto. Lo spazio del Bastione era estremamente interessante ed è stato tutto abbastanza naturale.
Ma che ne dite se ci mettiamo in roulotte?

mrzb, Roulotte, Lungo Stura, Torino

mrzb, Roulotte, Lungo Stura, Torino

Il progetto mrzb nasce da una rivista.
Merzbau nasce nel 2013, siamo tutti cugini ma ci siamo ritrovati a Bologna in quegli anni. L’idea era quella di fare una fanzine, una cosa molto facile da produrre e che avesse una diffusione più ampia possibile e a basso costo. È una cosa che abbiamo sempre fatto anche da ragazzini e che abbiamo spostato a Bologna.

Il nome mrzb a cosa fa riferimento? A Kurt Schwitters, al musicista giapponese Merzbow o a entrambi?
Nasce come un riferimento alla cattedrale, a Schwitters, molto semplicemente dall’idea iniziale della rivista, basata su un assemblaggio di più voci sovrapposte. Essendo 4 persone che lavorano insieme, ognuno mette ciò che ha da dire o che sa fare, sia a livello di linguaggi che di media e di collaborazioni esterne. Attingiamo da varie situazioni e creiamo il nostro ambiente. Cattedrale anche in questo senso, come creazione di ambienti, di situazioni, di contesti. Quando iniziammo c’era anche Giorgio T. che però è dovuto tornare nella bassa. Ma ci è sempre molto vicino.

E anche la fanzine si chiamava mrzb?
Sì. Fin da subito però non è rimasto un discorso prettamente editoriale. Un passaggio molto importante per ogni pubblicazione era quello della presentazione, un evento che inglobava pratiche performative installative e ambientali, una formalizzazione dei contenuti della rivista. Una sorta di happening, dove largo spazio era dato al caso. Il momento espositivo ha acquisito negli anni un ruolo cruciale perché ci permetteva di espandere in maniera più organica e totale media e pratiche differenti. Abbiamo iniziato a interessarci molto di più agli spazi e agli ambienti.

mrzb, Le Stanze di Mauve in ciò che è conosciuto come il Reame dell’Irreale, 2020. Installation view at Associazione Barriera, Torino 2020

mrzb, Le Stanze di Mauve in ciò che è conosciuto come il Reame dell’Irreale, 2020. Installation view at Associazione Barriera, Torino 2020

Quindi da un ambiente bidimensionale siete passati a un ambiente tridimensionale, ma l’approccio di collaborazione, di non identificazione delle singole identità è rimasto. Un’azione collettiva in cui l’individuo va totalmente a sparire. Che è esattamente il processo opposto a quello del ready made, cioè quando vai a rubare qualcosa e lo includi nel lavoro. Qui fai la stessa cosa ma con la tua identità, il nome collettivo fa del singolo un ready made. E questo in una dimensione rituale, in cui quando si arriva al culmine del momento comunitario/collettivo è come se tutto si esaurisse, si scaricasse, che è un po’ la sensazione di cui ci parlava Monia Ben Hamouda in riferimento alle sue opere. Nel vostro caso il culmine è l’incontro, il vedersi, che assume una dimensione rituale. Per esempio, quando Sergey Kantsedal vi ha invitato a pensare un progetto per gli spazi di Barriera non avete presentato una vostra personale ma vi siete fatti contenitore di una serie di opere di altri artisti.
Poniamo sempre molta attenzione agli spazi, intesi come organismi, sistemi autonomi con specifiche condizioni ambientali e atmosferiche. Siamo attratti da tutto ciò che ci passa fuori e dentro, ciò che è nell’ombra, come le opere collezionate e stipate nel magazzino di Barriera. Le abbiamo esposte come delle presenze fantasma, appese alle pareti come dei defunti che ti scrutano. Noi li vediamo, loro ci vedono. A Barriera, accostando i nostri lavori con i dipinti della collezione, abbiamo voluto generare una dimensione atemporale, sospesa in una sorta di musealizzazione fittizia.

Noi avevamo fatto anni fa una mostra a Barriera in cui avevamo guardato alle opere nel magazzino come a una serie di morti dentro ai loro sarcofagi. È vero quello che dite, questa loro presenza si sente. È interessante che individuiate in queste opere delle figure di fantasmi, come sentimenti e modi di fare che ormai sono passati ma che devono venire conservati in qualche maniera.
Per la mostra a Barriera ‒ nata a partire da un lavoro di catalogazione della collezione dello spazio espositivo realizzata insieme a Sergey Kantsedal ‒ abbiamo voluto intervenire direttamente sui meccanismi di comunicazione e fruizione, pertanto l’abbiamo pensata come un evento cerimoniale fruibile solo su invito. L’idea parte un po’ dal topos del ballo in maschera e dalla sensazione della morte che stava fuori e noi dentro, questa dimensione un po’ boccaccesca, occulta. Abbiamo voluto inviare personalmente alla gente l’invito a casa, in modo da agire direttamente sui gruppi di fruizione. L’invito è stato un primo modo per aprirla, per dare un ingresso. Che poi è la stessa cosa che abbiamo fatto quando abbiamo invitato la gente qui al fiume.

ARTE E RELAZIONE PER MRZB

Ci è piaciuta molto la poesia sull’invito di Le Stanze di Mauve in ciò che è conosciuto come il Reame dell’Irreale.
Tutto il nostro processo viene formalizzato anche attraverso i testi, che sono parte del lavoro. Non spiegano cosa stiamo facendo. Il testo è anche quello che stiamo facendo. È un discorso legato al tempo all’interno del quale si sviluppa il lavoro. È molto legato al modo in cui lavoriamo insieme, ognuno ha il suo processo, linee che procedono autonomamente e poi si toccano, però non vi è una progettualità in tutto ciò, i punti in cui si devono toccare si toccano e poi il lavoro è fatto anche di quei punti di contatto, ma senza chiuderlo mai in realtà. È un aspetto, se vogliamo, molto gestuale.
Noi viviamo in simbiosi e questo influenza i reciproci lavori. Le scelte nascono dal nostro dialogo costante. Tutti abbiamo le nostre direzioni e tutte sono iper dipendenti dalle altre. Il lavoro è come se fosse un linguaggio che abbiamo sviluppato all’interno di tempi molto lunghi. È tutto abbastanza intuitivo e sensibile, anche per riuscire a capire come modellarlo. È un processo relazionale, sotto certi punti di vista.

Dunque non ha un inizio particolare e una fine particolare. È il vostro dialogo.
Ci viene difficile lavorare singolarmente. E tendenzialmente non lo facciamo perché è come se rubassimo qualcosa all’altro, non riusciamo a farlo. C’è un cordone materno che ci unisce. Un po’ un peso, anche un po’ una condanna. Come gli organi. Non puoi toglierne uno. Se lo togli muoiono gli altri. Il contesto contemporaneo tende a individualizzare, e questa cosa acquisisce una valenza complessa, interna.

Ciò che dici è un qualcosa che sentiamo anche noi, che l’individualità artistica andrà a scomparire, perché deriva dall’idea romantica di artista, del genio isolato nella sua torre. Ma l’artista contemporaneo non è isolato. C’è sempre un gruppo di persone attorno con cui lavora e con cui si relaziona, con cui fa delle scelte. Guardate quello che sta succedendo con i premi, prima il vincitore era uno, adesso il Turner Prize l’hanno condiviso in 4, e nel tempo si trasformerà in borse di lavoro. Si va a piallare questa idea di individualità, ed è giusto che sia così.
Noi l’abbiamo applicata come modalità operativa. Un’autorialità espansa e sovrapposta. L’incontro tra noi è quasi sempre uno scontro, è un discutere all’infinito su una cosa. A volte è tutto molto fluido, altre difficile, quasi morboso.

mrzb, Les dames rouges à la danse, 2020, dettaglio. Installation view at Associazione Barriera, Torino 2020

mrzb, Les dames rouges à la danse, 2020, dettaglio. Installation view at Associazione Barriera, Torino 2020

Tornando alla mostra a Barriera, l’invito cartaceo e il riferimento al ballo in maschera ci ricorda un racconto di Edgar Allan Poe, La morte rossa, in cui l’unico che non era stato invitato è quello che poi fa morire tutti gli altri.
Abbiamo pensato alla mostra come a un evento privato, un raduno occulto. Un teatrino in maschera per privilegiati su cui grava un senso di colpa e di condanna.

Quello dell’invito è un aspetto che si dà per scontato in una mostra. Cioè, c’è una mostra e tu, pubblico, vai a vederla. Ma arrivare a vederla è diverso dall’andare a vederla. Sono due approcci diversi.
È qualcosa a cui abbiamo pensato molto quando abbiamo aperto questo spazio. Come dare accessibilità a questo posto? Come comunicarlo? Trattandosi di un luogo molto specifico, spostare delle persone che appartengono a un certo tipo di contesto e farle entrare in quest’altro è un’operazione che ha un certo peso. E tutto questo va poi a determinare la percezione del luogo e del lavoro. Che non sono separati. Sono un discorso unico. Dopo l’inaugurazione di questo luogo, che si è trasformata un po’ in un baccanale, in una grande festa, giorni dopo pensando alla deriva che ha avuto questo evento abbiamo provato un po’ di fastidio. Diciamo che qui se c’è poca gente si respira molto di più l’atmosfera del luogo, la sua anima. Vorremmo che il pubblico sentisse ciò che sentiamo noi quando siamo qui soli. Un senso di smarrimento e desolazione in un ambiente primitivo e brutale. Altrimenti il tutto risulta troppo accessorio.

Sì, non ha senso venire in questo luogo a fare il turista, bersi una birra, dire quanto è figo e poi tornarsene a casa. Mentre uno dovrebbe arrivarvi con un certo spirito, e avere rispetto del posto. È il minimo. Si tratta di una comunità formata da tante micro-comunità. È come venire a trovarvi e entrare in casa dei vostri vicini. Un festa forse va un po’ a togliere quello che è il senso di questo posto.
Anche per le cose future che faremo qui stiamo cercando di capire come gestire il ritmo di fruizione.

mrzb, Baracca, Lungo Stura, Torino

mrzb, Baracca, Lungo Stura, Torino

ARTE E COMUNITÀ

Anche la struttura dello spazio è significativa di questa dimensione intima. È come stare dentro alla stanza della nonna.
Sì, esatto. Abbiamo costruito uno spazio con ante di armadi. All’interno ante interne e all’esterno ante esterne, in questo senso la baracca è un enorme armadio. Sono armadi regalati che siamo andati a recuperare nelle case. Siamo andati a smontarli. Quasi sempre in camere di nonni, o comunque anziani morti. Queste famiglie erano felici che li recuperassimo perché quasi certamente li avrebbero buttati.

Cos’è quella porta bianca, nel mezzo, che sembra uno di quei passaggi di Alice nel paese delle meraviglie?
Era una porta bianca. Abbiamo pensato di farla marrone. Allora l’abbiamo tutta scartavetrata. E alla fine abbiamo pensato che stesse meglio bianca. E così l’abbiamo ridipinta. All’inizio l’idea era di fare il tutto in maniera molto semplice e con quello che trovavamo, ma per la porta è andata così. Il telone sopra l’abbiamo invece recuperato dissotterrandolo dalle macerie. Seguendo il fiume nella direzione della basilica di Superga c’è quel che rimane di una delle baraccopoli più grandi d’Europa. L’hanno sgomberata anni fa. In rete si trovano delle informazioni su quel luogo. Anche nel film dei Fratelli De Serio. Per cui tu cammini su tre metri almeno di spazzatura sotterrata. E mentre cammini hai la sensazione di andare giù, di sprofondare tra il materiale accumulato. Ti dà un’idea di stratificazione quasi archeologica. Ma anche qui, per fissare i pilastri della baracca, abbiamo scavato e abbiamo trovato un pavimento. Un pavimento piastrellato. Il luogo ha una sua storia e se scavi la incontri. Qui quando piove si allaga tutto creando stratificazioni di cose e di storie. Tra cent’anni quando scaveranno troveranno anche i resti della nostra baracca.

Ci raccontavate che il terreno è in pendenza e l’avete livellato proprio per contrastare il rischio di inondazioni.
Sì, l’idea è anche quella di uscire e di espandersi un po’, di utilizzare lo spazio qua fuori. Vedremo.

Quali sono i programmi per lo spazio nell’immediato futuro?
L’idea è di fare molte cose e veloci, perché il luogo non si presta al lasciare esposte delle opere per lungo tempo. La baracca è soggetta agli agenti atmosferici, al freddo, al caldo, agli insetti, alla sporcizia, all’umidità, agli scippi e ai danneggiamenti. A noi piace l’idea di lasciare che un’opera si degradi o venga manomessa, è un parte sia della produzione del lavoro ma anche della sua conservazione. L’atto finale non deve essere l’esposizione. L’opera deve poter mutare nel tempo. Il luogo lo abbiamo vissuto con il mutare delle stagioni, siamo arrivati in inverno quando tutto era molto cupo, poi è arrivata la primavera e il verde. Anche lo spazio cambia con esse e cambia anche ciò che ti dà.

A differenza del piallamento cittadino. È come se voi voleste riscrivere inconsapevolmente, naturalmente, le connessioni tra le persone, le cose, la natura. Tutto avviene in maniera molto naturale, non calcolato, come la natura che si riconfigura nell’Area X descritta da Jeff Vandermeer.
Sicuramente il discorso post-apocalittico è un discorso che ci appartiene. Noi da anni siamo pronti all’apocalisse.

E questo progetto è nato durante la cosa che abbiamo vissuto che più si avvicina a un’apocalisse.
Infatti venire a lavorare qui durante il lockdown ci ha salvati. Ci ha salvato la vita. Qui è casa. E ci troviamo molto più a nostro agio qui che in città. Ci siamo creati il nostro spazio.

mrzb, Ktulla, 2020, carni, acciaio, fiori, cm 60x40. Courtesy gli artisti

mrzb, Ktulla, 2020, carni, acciaio, fiori, cm 60×40. Courtesy gli artisti

C’è qualcosa di cui non abbiamo parlato e che vorreste approfondire?
Sui due momenti differenti della visione fisica di un lavoro e di una sua visione più domestica tramite internet e la comunicazione digitale. L’opera è legata all’ambiente che la contiene. Dal vivo possiamo meglio intervenire a livello di suoni, odori, luci e altri aspetti più conviviali, mentre con la documentazione vogliamo ricreare un’atmosfera immaginaria, esaltando gli scenari e i presagi. Quando guardi una cosa in camera tua è come se quella cosa entrasse nel tuo privato. Deve colpirti più visceralmente. Per questo la documentazione deve necessariamente risultare differente da una fruizione in presenza.

La documentazione dei vostri lavori sembra sempre fatta da una persona che capita per caso nel luogo e fotografa tutto in maniera molto soggettiva. Non è la classica documentazione fotografica, che tende verso una dimensione più oggettiva.
Quasi come se una persona arrivasse di fretta e fotografasse tutto di nascosto.

Rispetto alla vostra prima intervista, questa com’è andata?
Alla fine, l’arte salverà il mondo.

Treti Galaxie

Versione integrale dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #57

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Treti Galaxie è un art project fondato da Matteo Mottin e Ramona Ponzini. Il suo obiettivo è lavorare con gli artisti in maniera espansa, rispettandone i progetti e le idee e aiutandoli a produrre e sviluppare mostre nella maniera più…

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