Così parlava David Medalla. Intervista al grande artista filippino
Appena scomparso, David Medalla era una colonna portante dell'arte filippina e internazionale. Qui trovate una intervista realizzata nel 2017 da Lorenzo Bruni, che con Medalla ha lavorato in diverse occasioni.
Dalle origini fino alla Biennale di Venezia del 2017, David Medalla, scomparso pochi giorni fa, ripercorre in questa intervista con Lorenzo Bruni le diverse tappe della sua storia artistica. Fatta di incontri, sperimentazione e dialogo.
Come è nata l’idea delle tue famose Bubble Machine?
Le sculture delle Bubble Machine che ho realizzato per la prima volta nel 1963 non sarebbero potute nascere senza la conoscenza delle nuove visioni della materia e della luce che abbiamo imparato nel secolo appena passato. Quando avevo sedici anni ed ero a Londra conobbi grandi scienziati come Francis Crick, James Watson, Maurice Wilkins. Tutti e tre Premi Nobel per la medicina e per le scoperte sul DNA umano. Per me fu incredibile perché io ero solo un ragazzino e loro avevano rivoluzionato la percezione del mondo. Così ho costruito la Bubble Machine, una macchina che autoproduce bolle di sapone che vanno a creare in maniere casuale delle sculture di schiuma. È stata la prima opera d’arte che si autocostruisce e si autogenera. È stato un modo diverso di proporre l’esperienza dell’arte rispetto a come era stata concepita fino a quel momento da Michelangelo a Picasso.
Vorrei che mi parlassi di queste connessioni tra vita e arte, tra memoria personale e collettiva, tra i massimi sistemi e i gesti quotidiani rispetto a un altro tuo lavoro famosissimo che è A Stitch in Time. I messaggi visuali cuciti dal pubblico sulla stoffa sono un ricordo concreto, così come è concreto il tempo condiviso dalle persone nel rendere pubblici questi pensieri. Quale è il contesto in cui è nato questo lavoro?
Come tutti i miei lavori nasce da due aspetti in dialogo: un’esperienza personale e una collettiva. Il lavoro è nato cucendo due fazzoletti di stoffa per due miei ex amanti all’aeroporto di Londra. Nel 1967 mi trovavo a Londra e in quel momento avevo avviato un gruppo chiamato Exploding Galaxy che riuniva artisti di discipline e linguaggi differenti. Come direttore di questo gruppo di 500 artisti provenienti da tutto il mondo ero in contatto con tante persone. Eseguivamo performance per grandi star come i Pink Floyd, Jimi Hendrix e i Rolling Stones. Era un periodo di grandi fermenti, in cui le idee circolavano velocemente. Nel frattempo iniziò la guerra in Vietnam e tantissimi artisti si schierarono “contro”. Molti scoprirono le filosofie orientali e le nuove religioni perché quelle “tradizionali” non avevano risolto i problemi dell’uomo. Altri cercarono altre strade come quella della droga, dello yoga, della meditazione. Anch’io ero aperto a nuove esperienze perché, come diceva mio padre, “le cose non durano per sempre”. Nella mia vita ho spesso abbracciato una condotta edonista. Per me l’edonismo è quello di Lucrezio, un poeta latino, che dice che ognuno di noi ha tantissimi bisogni e sensazioni, come mangiare, sentire i profumi, ascoltare la musica o i suoni, ecc. ecc. Ma non ci si deve concentrare troppo nell’esaudire tutti i nostri bisogni perché si finisce per esagerare. Io da giovane ero molto bello e molte persone chiedevano di fare l’amore con me.
L’ARTE DI DAVID MEDALLA
Il clima quindi era quello di una generazione in fermento che poteva sperimentare l’uso della protesta e creare nuove ipotesi di comunità…
Esattamente, ma è molto di più. L’arte non è mai una reazione diretta come per un esperimento in un laboratorio scientifico. Tornando ai due ex amanti, un giorno ho ricevuto per posta due lettere da loro due: uno era un attore filippino che andava in California per studiare teatro e l’altro era un americano di New York che viaggiava in India. Ci incontrammo all’aeroporto e io gli consegnai come regalo due fazzoletti su cui avevo cucito il mio nome. Uno era bianco e uno nero. Dopo quell’episodio ho realizzato molte azioni partecipative di A Stitch in Time. Nel 1972 stavo viaggiando per andare a preparare una grande versione di esso a Kassel per la Documenta curata da Harald Szeemann e per questo mi trovavo, durante uno spostamento, all’aeroporto di Amsterdam. Lì vedo un giovane, che poi ho scoperto essere australiano, che aveva attaccato al suo zaino una grande stoffa composta da tanti pezzetti cuciti assieme. Uno era il fazzoletto che avevo donato al mio amico. L’ho riconosciuto perché avevo cucito sopra la mia firma. Mi disse che glielo aveva dato una persona a Bali. Non gli raccontai la mia storia, ma questa vicenda mi fece molto ridere. La mia idea è che un giorno tutto il mondo parteciperà all’opera A Stitch in Time e potremo avvolgere e mettere in dialogo tutto il mondo. La cosa interessante di questo lavoro è che non ha una sede. Non ci sono preclusioni e limiti politici, estetici, psicologici o linguistici perché coinvolge tutti. La caratteristica di questo lavoro è che è globale, ma non nel senso in cui le persone intendono oggi il termine globale. Con A Stitch in Time ogni lavoro è un ritratto di quel contesto irripetibile sia per il coinvolgimento delle persone che per i materiali impiegati. Ad esempio il colore della stoffa può variare tutte le volte e io la scelgo rispetto al contesto. Per il progetto per la Biennale di Venezia del 2017 curata da Christine Macel ho scelto il bianco.
Per te si tratta di realizzare non una poesia scritta ma una piattaforma in cui tutti possono partecipare alla creazione di una poesia collettiva?
Sì, sì. Senti, io non sono poliglotta però conosco tante lingue. A poco a poco leggendo le poesie e i libri, sempre nella loro lingua originale, ho imparato altre lingue. Ad esempio possiamo parlare in italiano adesso perché ho imparato questa lingua leggendo La Divina Commedia di Dante Alighieri. Però solo quando sono stato in Italia la prima volta negli Anni Sessanta, invitato a una mostra collettiva a Bologna in omaggio al pittore Giorgio Morandi, mi sono ricordato di mio padre che mi legge un brano particolare della Divina Commedia che piaceva tanto a mia madre. È il passo in cui Dante entra all’Inferno con Virgilio, che essendo pagano non può andare in Paradiso. Dante chiese a Virgilio dove fosse esattamente Ulisse e una volta vicino gli chiese di raccontargli la storia della sua odissea. Una terzina in particolare mi è rimasta in mente. Però solo nel 2016 quando sono tornato a Bologna per partecipare alla collettiva curata da te mi sono ricordato, vedendo nella Piazza Maggiore la scultura famosa del Nettuno, di un altro particolare di quell’episodio. Una frase. Mio padre mi disse che Nettuno era il dio del mare e che protegge i marinai e per questo costruiscono le sue sculture nelle città di mare. Quindi è strano vedere quella scultura lì visto che Bologna non è una città marittima. Venezia, Genova, Amalfi e Pisa sono città marittime. È un mistero, per me, il motivo per cui una statua di Nettuno si trovi a Bologna. Su questa immagine paradossale e normale abbiamo deciso di creare con Adam Nankervis una performance legata al progetto di Mondrian Fan Club. Abbiamo creato alla base della statua del Nettuno con i nostri corpi e oggetti trovati la lettera B. B di Bologna e di Mondrian Fan CluB.
THE MONDRIAN FAN CLUB
Come è nato il progetto The Mondrian Fan Club che realizzi da tanti anni in collaborazione con l’artista australiano Adam Nankervis?
La prima volta abbiamo realizzato un’azione durante il periodo della prima guerra in Iraq grazie all’aiuto di un’attrice americana e di un amico californiano. La facemmo nello stesso spazio che aveva ospitato anche lo Studio 54. Abbiamo realizzato l’azione come protesta per l’attacco a Baghdad da parte delle forze americane. La settimana successiva abbiamo fatto un’altra azione che ci ha portato a cercare la tomba di Mondrian a Brooklyn. Durante il tragitto abbiamo visto in cielo un aeroplano che, con i suoi scarichi, formava la lettera M. Siamo scesi dal taxi e ci siamo fatti la fotografia con sullo sfondo la lettera M in cielo. Quando siamo arrivati alla tomba di Mondrian non abbiamo più fatto quello che avevamo pensato. La tomba era molto sporca e ci siamo concentrati nel pulirla. L’azione era quella. Tantissime persone vanno nei musei a vedere i lavori di Mondrian, ma nessuno visita la sua tomba e questo succede a tantissimi artisti. L’idea del Mondrian Fan Club è produrre le lettere che formano questa frase in varie parti del mondo. A Bologna per la tua mostra abbiamo realizzato al lettera B come Bologna. Mentre per la Biennale di Venezia si tratta di un altro lavoro. Sono tre giovani artisti. Uno è Daniel che viene dalla Danimarca, il secondo è un artista francese, Cyril Lepetit, e il terzo è un artista tedesco che vive a Berlino. I tre giovani artisti sono stati ricoperti del pigmento dei tre colori primari usati da Mondrian: rosso, giallo e azzurro. In tantissimi rituali orientali, in India e in Nepal, ci si battezza con il colore. Questo ha ispirato Adam per la performance. È bellissimo da vedere, come una pioggia di colore.
‒ Lorenzo Bruni
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