La storia di Francis Scott Fitzgerald fra jazz e letteratura
Morto il 21 dicembre 1940, Francis Scott Fitzgerald occupò un ruolo di primo piano nella letteratura d’inizio Novecento, ma la sua consacrazione avvenne solo nei decenni che seguirono la sua scomparsa. Qui ne ripercorriamo la storia.
Se ne andava ottant’anni fa, poco prima di Natale, lo scrittore Francis Scott Key Fitzgerald (Saint Paul, 1896 ‒ Los Angeles, 1940), intellettuale aristocratico e romantico che il talento e il fulmineo successo non bastarono a salvare da un malinconico tramonto. Ciononostante, resta il miglior narratore dell’Età del jazz, di quegli anni inquieti e controversi che segnarono la prima rivoluzione sociale degli Stati Uniti.
FRANCIS SCOTT KEY FITZGERALD BELLO E DANNATO
Con Zelda Sayre, sposata nel 1920, formò una coppia scombinata e romantica insieme, la cui stabilità era minata dalla tara mentale di lei e dalla propensione all’alcool di lui. Come tanti suoi personaggi, vestiva con eleganza, amava il lusso, la bella vita, i locali notturni, le donne, le auto potenti, che da piccolo borghese poté finalmente permettersi dopo il successo ottenuto con Di qua dal Paradiso, seguito da Il Grande Gatsby.
Condivise con Ring Lardner uno stile narrativo pungente e attento ai dettagli, e pur non possedendo il piglio aggressivo di John Fante (circostanza che spiega la diversità delle loro storie personali) Fitzgerald è autore di culto in virtù della profondità di osservazione con cui ha raccontato gli Anni Venti, quelli del primo vero American Dream, e il decennio successivo, quello della disillusione (The Bridal Party è un racconto emblematico in tal senso). Tuttavia non si nascondeva dietro al proverbiale dito, e le sue relazioni extraconiugali erano di pubblico dominio, e molto probabilmente contribuirono all’aggravamento della schizofrenia di cui soffriva la moglie. Tuttavia ne pagò le conseguenze: costretto a fa ricoverare la moglie in ospedale, ignorato dai lettori che negli Anni Trenta trovavano fuori tempo il jazz e lo champagne, ormai schiavo dell’alcool, Fitzgerald non riuscì a riprendere in mano le redini della propria vita e, dopo aver tentato la carriera di sceneggiatore a Hollywood, morì in solitudine poco prima del Natale del ’40. Ma dagli Anni Sessanta la critica ha riscoperto la sua opera, annoverandolo fra i principali esponenti della letteratura americana moderna.
FITZGERALD VS IPOCRISIA
Nonostante le sue grandezze materiali, gli Stati Uniti restano un Paese fondamentalmente ipocrita, dove il politically correct è pane quotidiano e distorto metro di giudizio quasi insindacabile. Un po’ come Wilde con Il ritratto di Dorian Gray, Fitzgerald esprime con Di qua dal paradiso una secca condanna di quel puritanesimo ossessivo e ossessionante; riuscì però ad andare oltre la critica sociale, soffermandosi nell’osservazione di quel malessere interiore che accomunava tutte le società materialiste; infatti Belli e dannati (ambientato negli Anni Dieci) è l’anticipazione de Gli indifferenti, che Moravia scriverà solo alcuni anni più tardi. Nei suoi romanzi, uomini e donne si cercano, si inseguono, si scontrano, ma soprattutto “si esibiscono”, sfoggiano, si ribellano, tremano, sognano, restano delusi e imprecano. Sono spiriti liberi fortemente individualisti, libertini, dalle qualità morali non sempre limpide. E, tutto sommato, sono uno specchio abbastanza fedele della vita dello stesso Fitzgerald e di quella delle persone a lui vicine, che costituivano il microcosmo della Lost Generation. “Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”. La frase di chiusura del Grande Gatsby è il giusto epitaffio per una generazione che si è smarrita nei propri sogni, disgraziatamente immatura ma pateticamente sentimentale. C’è una radice cui dobbiamo necessariamente tornare, a volte seguendo la ragione, più spesso seguendo l’istinto. È questa ricerca che scatena il turbine della vita,
L’ETÀ DEL JAZZ E LA CAFÉ SOCIETY
Il jazz è stato per gli Anni Venti quello che la dance è stata per gli Anni Ottanta: fu il primo passo verso la caduta di barriere fisiche e sociali (anche razziali, ma sarebbero occorsi molti più anni) che ingabbiavano la società americana; su quelle note si costruiva il suo primo (miracolo economico), ma soprattutto con il diritto di voto ottenuto nel 1920, comincia l’inarrestabile marcia dell’emancipazione femminile. Fitzgerald la racconta attraverso i personaggi di Daisy Buchanan, Gloria Gilbert, Rosemary Hoyt, Rosalind Connage, Isabelle Borgé: figure eleganti, disinibite, che fumano sigarette e parlano di sesso, a loro modo romantiche ma anche pragmatiche, la cui statura morale sopravanza spesso quella dei loro compagni d’avventura più o meno occasionali. Fitzgerald stesso ne sapeva qualcosa, impegnato come fu in vari flirt con attrici e ballerine, a cominciare da Louise Brooks.
Il fruscio della seta degli abiti delle signore si perdeva fra le note, l’odore dolciastro dei liquori si confondeva con quello più acre dei sigari, le luci soffuse creavano l’atmosfera per più di una licenza dal galateo. Fu la Belle Époque americana, che Fitzgerald immortalò anche in raccolte come Flappers and Philosophers o Racconti dell’Età del Jazz, brevi ma intensi e iconici bozzetti che entrano nello spirito ribelle dell’epoca.
Se Fitzgerald fu il narratore per eccellenza di quel mondo frivolo e sognatore, il pittore e illustratore Joseph Christian Leyendecker ne fu uno dei ritrattisti più fedeli. Le sue tele esprimono una pittura elegante, scintillante, ma fredda, perfetta per dare corpo all’ipocrisia che ammantava gli “anni ruggenti”. E, guardandole, sembra di assistere a una scena de Il Grande Gatsby o Belli e dannati.
FITZGERALD IN EUROPA
Nei ruggenti Anni Venti, proprio come l’Europa della Belle Époque, gli Stati Uniti vissero la loro prima grande euforia sociale, prima della catastrofe che, pur non essendo una guerra, avrà comunque il suo impatto: la Grande Depressione. Ma Fitzgerald era attratto anche dal Vecchio Continente, che intanto brillava delle luci struggenti della decadenza, e, dopo un primo soggiorno nel 1921 fra Londra e Parigi, decise di tornare in Europa con la moglie e la figlia tre anni più tardi, rimanendoci fino al 1929, con brevi rientri negli Stati Uniti: Roma, la Costa Azzurra e ancora Parigi furono le mete di quel lungo e romantico vagabondaggio, segnato da dolorosi litigi, gelosie, adulteri, rimpatriate a Montparnasse con gli altri americani “in esilio”, fra cui Gertrude Stein, Hart Crane, John Dos Passos. Quelle notti movimentate furono l’estremo tentativo, di Fitzgerald come di tutta la Lost Generation segnata dalla Grande Guerra e la Grande Depressione, di lasciarsi alle spalle le delusioni spirituali, la mancanza di scopo di una società risucchiata dal consumismo e dal mito dell’apparenza. Dall’esperienza europea nacque Tenera è la notte, un romanzo borghese duro e disilluso, poco apprezzato al suo apparire, in realtà sottile e raffinato e fondamentalmente ancora attuale.
IL LATO SBAGLIATO DEL PARADISO
Pur immersi nella ricchezza e nella mondanità, i personaggi di Fitzgerald sono generalmente perdenti, rinchiusi in un narcisismo che sfiora il parossismo e l’autodistruzione, poeti della disperazione votati alla delusione, alla dissipazione e alla solitudine. E questa, fondamentalmente, fu anche la vita dello scrittore, che raggiunse le stelle della fama e la polvere dell’alcolismo, cercò di “andare oltre” nella vita come nei suoi romanzi, rimanendo però impigliato nei limiti prosaici dell’indole umana. Ma questo ha importanza assai relativa, perché la sua opera rimane ancora oggi un acuto punto di vista da cui osservare la società, che in fondo, dagli Anni Venti, non è troppo cambiata.
‒ Niccolò Lucarelli
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