Liberare le storie dell’architettura. Intervista a Ciro Miguel
Architetto e fotografo brasiliano di base a Zurigo, Ciro Miguel mette in discussione, attraverso i suoi scatti e il suo lavoro curatoriale, le narrative tradizionali per generare nuove letture dell’architettura e della città. Vi presentiamo la sua ricerca.
Anche se a Zurigo ci abita ormai da sette anni, di un certo spirito paulista Ciro Miguel non può proprio disfarsi. Cuffiette nelle orecchie e maglietta nera inquadrate nella finestra della sua webcam, gesticola ampiamente mentre parla e allunga le vocali a fine frase, alla brasiliana. L’origine di questo architetto alla soglia dei quaranta potrebbe qui apparire come aneddotica. È invece fondamentale per capire il suo lavoro fotografico e curatoriale, così come i suoi temi di ricerca. Nei quali San Paolo riaffiora inesorabilmente, lasciando tracce dirette o indirette, ma sempre percettibili.
CIRO MIGUEL DAL BRASILE ALLA SVIZZERA
Nella megalopoli brasiliana Ciro Miguel non è solo cresciuto, ma ha anche imparato il mestiere di architetto e quello di fotografo. Già qui i termini cominciano a farsi confusi perché le due attività sono difficilmente separabili, cosa che lui stesso non tarda a farci notare: “Non mi piace definirmi come fotografo, preferisco dire che sono un architetto che scatta delle fotografie”. Il commento non è poi del tutto fuori luogo, perché la sua è una formazione essenzialmente architettonica. Laurea alla FAU USP della sua città – “nel meraviglioso edificio di Villanova Artigas”, sottolinea senza dissimulare una certa fierezza – poi master alla Columbia di New York e apprendistato nella sede americana di Bernard Tschumi. L’esperienza che però lo segna di più sono gli anni nello studio di Angelo Bucci, che se lo porta all’ETH di Zurigo come assistente. Sembrerebbe che nutra una certa ammirazione per il suo maestro: lo cita immediatamente non appena la discussione si sposta sull’influenza della sua città sul suo lavoro. “Angelo diceva che sotto i piedi dei paulisti si è accumulato uno strato di 20 metri d’infrastrutture: metropolitane, sottopassaggi, fognature, tubature e reti di servizi. È un ambiente totalmente artificializzato, dove in nome del progresso non si è esitato a invertire il corso di un fiume o a sbancare un’intera collina”. Gli diciamo che questa descrizione della sua città ci fa pensare a quella che, nel libro che dedica al Brasile, ne fa Stefan Zweig negli Anni Quaranta: una babele in continuo mutamento dominata dal dio denaro. Sorride e annuisce.
“È una città senza pietà” sentenzia non senza un certo autocompiacimento. Come per tutti gli architetti, anche per lui a San Paolo un irrimediabile fascino convive disinvoltamente con uno spaventoso senso di orrore. “L’architettura e l’ingegneria sono state qui capaci di plasmare il paesaggio e di creare una delle topografie più artificiali e dense al mondo, ma allo stesso tempo tutto questo ha condotto a un vero e proprio disastro ecologico”.
FOTOGRAFIA COME DESIDERIO DI CONOSCENZA
C’è da dire che su questa dicotomia tra artificialità e natura, tra progresso e distruzione, Ciro Miguel ci ha costruito tutto il suo lavoro. Primo fra tutti quello fotografico. Alla continua ricerca di discontinuità spaziali e contrasti materici, il suo sguardo indaga, senza tracce di giudizio, l’impatto delle attività umane sul pianeta Terra. Un campo da tennis a strapiombo sul mare, un orizzonte otturato da finestre e balconi, una colata di bitume interrotta dall’affiorare di una roccia: nei suoi scatti l’inquadratura può anche essere vuota, a tratti spettrale, ma la presenza umana aleggia senza alcun bisogno di palesarla.
“Per me la fotografia non è un semplice strumento di documentazione, ma più che altro un metodo per indagare idee e temi legati al progetto architettonico e urbano”. Questa frase ci ricorda la definizione di Luigi Ghirri della fotografia come “desiderio di conoscenza, di decifrazione” e bastano difatti pochi minuti per far sì che Miguel citi l’artista emiliano, il cui nome è accompagnato da un sospiro di ammirazione. “Ricordo ancora le prime immagini che ho visto di Ghirri, quelle del cimitero San Cataldo di Aldo Rossi a Modena avvolto in un manto di neve. Mi hanno turbato profondamente e da quel giorno penso di aver cambiato la maniera in cui guardo la realtà che mi circonda”. I punti in comune tra l’architetto brasiliano e il fotografo (oltre che geometra) italiano sono effettivamente lampanti. Come per Ghirri anche per lui la fotografia è innanzitutto una costruzione, una selezione critica di elementi che solo insieme assumono una loro autonomia. C’è poi una lezione che sembra aver tratto in particolare dal fotografo emiliano: attivare lo sguardo per scoprire nella realtà cose prima impercettibili.
Questo impegno contro l’anestesia della percezione Ciro Miguel lo mette però in pratica a suo modo, con approccio tassonomico. È capace di disquisire ore sul significato spaziale di una rampa di gradini davanti a una porta, di una panchina rivestita di velluto nell’androne di un palazzo o di un capannone prefabbricato sulla vetta di una montagna. In una sorta d’impresa alla Georges Perec per classificare e studiare gli spazi che ci circondano, non esita a interrogare il quotidiano, a mettere in questione ciò che ci può apparire a prima vista banale o derisorio (un cespuglio potato a forma di sfera, una fila di ombrelloni, un cartellone pubblicitario) ma che costituisce, sostiene, l’essenza delle nostre vite.
LA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI SAN PAOLO DEL 2019
Al tema del quotidiano ha tra l’altro dedicato una biennale, quella di architettura di San Paolo del 2019 che ha curato con Vanessa Grossman e Charlotte Malterre-Barthes. Sotto il programmatico titolo Todo Dia/Everyday, la manifestazione era dedicata alla presenza della quotidianità e del domestico nell’architettura e alle infinite microstorie celate dietro alle facciate di ogni edificio. Il tema dice di averlo ripreso da Carlo Ginzburg. “Un altro italiano!”, afferma sorridente sfilando da sotto il tavolo un volumetto dello storico torinese.
“A lui le microstorie hanno permesso di eludere la storiografia tradizionale per interessarsi ai singoli individui, io le applico alla fotografia, in modo da far emergere questioni che generalmente rimangono nascoste”. In questo generico contenitore Miguel mette sostanzialmente questioni politiche: diritto alla città, rapporti di classe, divisione del lavoro, differenze di genere, di etnia, di religione, di orientamento sessuale – temi in linea, insomma, con i movimenti per i diritti civili e per l’uguaglianza degli ultimi anni. La sua però non è una battaglia per una fotografia (o un’architettura) politicamente corretta. Ma più che altro una messa in questione di una certa narrativa convenzionale dell’architettura, promossa dalla patinata fotografia di settore, “troppo spesso influenzata dai suoi committenti”.
Per capire meglio a cosa fa riferimento, conviene farlo partire da un aneddoto: “C’è uno scatto, che ho ritrovato negli archivi dell’ETH, che mostra una coppia di signori nell’intento di pulire un’infiltrazione d’acqua nella cattedrale di Brasilia di Oscar Niemeyer. Per me è stata un’immagine rivelatrice, perché rappresenta, in un contesto come quello della capitale brasiliana, massima espressione dell’architettura moderna come astratto assemblaggio di oggetti nello spazio, l’ineluttabile presenza dell’ordinario e del domestico in ogni architettura. È un’immagine che apre un’infinità di domande. Chi sono queste persone? Per chi è pensato quello spazio? Che cosa rappresenta per loro l’edificio di cui si stanno occupando?”. Lo scatto è stato, nello specifico, il punto di partenza della proposta curatoriale per la sua biennale (di cui un intero capitolo era chiamato appunto Everyday maintenance). E gli è servito per avviare una ricerca sull’architettura e il fotogiornalismo che sta attualmente portando avanti all’ETH di Zurigo.
LA MOSTRA ACCESS FOR ALL
Non è d’altronde l’unico caso in cui un suo progetto si è costruito a posteriori su un’immagine. Per la mostra Access for All, concepita dall’Architekturmuseum di Monaco di Baviera, il curatore Daniel Taleskin gli ha commissionato una campagna fotografica a partire da alcune immagini del centro culturale Sesc 24 di Maio. L’obiettivo dell’esposizione era quello di documentare come a San Paolo una serie di architetture, tra cui appunto l’edificio in questione, si sono trasformate in catalizzatori di vita sociale e in punti d’incontro, in una città tristemente famosa per la sua cronica mancanza di spazi pubblici. “Dal momento che nella selezione rientravano architetture iconiche come il MASP o il Sesc Pompeia di Lina Bo Bardi, l’idea è stata quella di volontariamente evitare le viste convenzionali, per spostare l’attenzione sulla maniera in cui i paulisti si sono lentamente appropriati degli spazi aperti di questi edifici. Per ottenere questi scatti ho lavorato con una macchinetta molto compatta che mi ha permesso di catturare rapidamente le scene a cui assistevo di volta in volta.”.
FOTOGRAFARE LA SOCIETÀ BRASILIANA
La sua passione per le distese urbane desolate non gli impedisce insomma, a volte, di stipare nei suoi scatti abitanti, indaffarati od oziosi. Anzi, di questa sfacciataggine nel fotografare la vita quotidiana dei suoi concittadini Ciro Miguel ha fatto un talento sopraffino nel fissare in istantanee frammenti della società a cui appartengono. Durante il lockdown della primavera, che ha passato in un appartamento semi-vuoto sull’Avenida Paulista nella sua città, la cosa è letteralmente scivolata nel voyeurismo. Per farla breve: l’architetto ha fissato alla sua camera un binocolo e ha iniziato a fotografare di soppiatto i suoi vicini. Per giustificarsi Ciro Miguel chiama in causa l’isolamento: “A differenza dell’Italia, dove la gente durante il lockdown è uscita sui balconi a cantare all’unisono, a San Paolo la scala decisamente maggiore delle costruzioni ha impedito questa relazione diretta tra inquilini. Il binocolo è quindi presto diventato l’unico strumento che possedevo per riconciliarmi con le persone intorno a me”. Nella fattispecie una folta schiera di personaggi – domestica di colore che pulisce i vetri di un loft, rider che trasporta pasti a domicilio, signora borghese che prende il sole sulla chaise longue, studente che fa sport in terrazza –, che insieme costituiscono un impressionante spaccato della società urbana brasiliana del XXI secolo.
Appropriazione degli spazi pubblici, addomesticazione dell’ambiente, risvolti sociali e politici dell’architettura: le tematiche di Ciro Miguel sono ricorrenti, eppure mai uguali.
“In genere non scelgo un tema a priori, ma, riguardando l’ormai importante archivio d’immagini scattate dall’inizio del mio percorso di architetto, riconosco progressivamente delle connessioni, dei temi che raggruppano scatti diversi”. Per la cronaca Miguel è capace di costruire un’intera serie sui cestini da pallacanestro o sui bidoni della spazzatura. Come in una sorta di Esercizi di stile alla Queneau, sembra volerci dire che nell’architettura ci sono infinite potenzialità e spunti di riflessione. Che le sue fotografie tentano di far emergere, “spingendo l’architettura sul fondo, per permettere alle sue storie di liberarsi”.
La mostra Access for All, realizzata nel 2019 dall’Architekturmuseum di Monaco di Baviera, sarà visitabile nel 2021 al SAM di Basilea.
‒ Leonardo Lella
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