Arte, pandemia, società. Intervista a Damián Ortega
In piena crisi globale, l’artista messicano Damián Ortega riflette sulle potenzialità del tempo presente e sulla necessità, per l’arte, di riaccendere il dialogo con la comunità.
Damián Ortega è nato a Città del Messico nel 1967 ed è un altro membro dei taller de los viernes che alla fine degli Anni Ottanta si sono tenuti a casa del famoso artista Gabriel Orozco. In realtà, Ortega ha iniziato la sua carriera come caricaturista politico, una traccia rimasta nello spirito critico e ironico delle sue opere che evidenziano la poesia latente degli oggetti quotidiani, così come le loro complesse implicazioni sociali e politiche.
Damián è un artista che, ricombinando e smantellando artefatti, ricalca le costellazioni di forze sociali, economiche e politiche alla base della cultura del consumo. Un esempio è la sua famosa opera Cosmic Thing (2002), in cui smontava un maggiolino della Volkswagen, sospendendone e separandone le parti. Il risultato dell’esplosione automobilistica è la creazione di un universo espansivo: un atto di distruzione creativa e allo stesso tempo di dissezione. Ortega ha esposto in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Tate Modern di Londra, a Berlino dove ha vissuto per molti anni, a Città del Messico e in tutta l’America Latina. L’intervista in tempo di pandemia è attraverso lo schermo dei nostri computer, in realtà a pochi chilometri l’uno dall’altra.
INTERVISTA A DAMIÁN ORTEGA
Il lockdown globale: come ottenere la mobilitazione pubblica e sociale dall’interno?
Nel mondo dell’arte la bolla del mercato si era gonfiata a dismisura ed era ora che scoppiasse. La pandemia è stato l’elemento detonatore. Ora vediamo cosa succede, l’unica sicurezza è l’incertezza. Ma, a parte le regole del marketing, anche la forma dell’arte deve cambiare. Il doping del commercio e dell’iperproduzione è al tramonto e l’arte deve imparare ad abitare la comunità, tornare alla sua relazione originaria con i materiali. L’industria è cresciuta molto e la conseguenza peggiore è stata distanziare l’artista dal proprio lavoro. Adesso è ora di tornare in cucina. Nel mio caso, ho un team di lavoro eccezionale, cinque mani che estendono le mie capacità fisiche e intellettuali, ma trovo interessante tornare ad avere a che fare coi miei limiti fisici e intellettuali e recuperare il mio immaginario.
Raccontaci dei tuoi ultimi progetti.
Sono stati progetti consequenziali: in uno ho preso i sacchi di cemento, scarti di un altro lavoro, e li ho usati per fare una linea di abbigliamento: giacche, scarpe, ecc. Insieme ad alcuni pezzi più grandi, che in Messico chiamiamo piñatas, personaggi che, come in molte altre tradizioni, vengono poi sacrificati al fuoco nelle feste popolari.
Prima, per due anni, ho lavorato su sculture di cemento per una mostra che stavo per realizzare per Barbara Gladstone Gallery, a New York, che rappresentano grandi edifici internazionali, trasformandoli in fossili, in una serie che totemica dove le cupole sono maschere, simili a quelle delle mummie, ispirate a figure egizie: teste di toro, coccodrillo, gufo. Alti sarcofagi di tre metri e mezzo. Si è creato con il surplus di queste opere, con ciò che non è contemplato e che resta parallelo, cioè la tela dei sacchi di cemento usato per costruire questi enormi grattacieli, con cui ho creato figure fumettistiche. Dal cemento all’effimerità della tela che brucia.
ARCHITETTURA E POTERE NELLE OPERE DI ORTEGA
Nelle tue opere spesso si torna ai riferimenti architettonici: perché?
Gli edifici sono simboli: per quest’opera era importante che fossero i più alti, che rappresentassero simbolicamente la potenza. Si racconta di una competizione. A San Gimignano tra i nobili per dimostrare la propria superiorità si cercava di costruire la torre più alta, sempre però con il limite di non poter superare l’altezza della cattedrale cittadina: il potere divino. Qualcuno ha ben pensato: “Costruisco due torri ugualmente alte!”. Da qui l’idea delle torri gemelle. Ebbene vediamo come ci sia una volontà di potenza che intendo mescolando una mitologia egizia e quella dei Power Rangers, per arrivare a un effetto umoristico.
Parlaci della tua ultima fatica: TITAN.
Questo mio ultimissimo lavoro è un lavoro curatoriale: un confronto con lo spazio pubblico e lo spazio artistico a New York. Può una cabina telefonica diventare uno spazio artistico? Questa è stata la domanda che ci siamo posti io e Bree Zucker, direttrice della galleria kurimanzutto di New York, per creare TITAN, una mostra in cui le opere di dodici artisti, alcuni colleghi messicani come Minerva Cuevas insieme ad altri nomi noti come Patti Smith, erano collocate in chioschi telefonici sulla 6th Avenue a Midtown Manhattan. In un’epoca in cui le persone sono isolate nelle loro case, questa idea di radunarsi per le strade per assistere a uno spettacolo è una risposta diretta alla pandemia e mi è sembrato importante tornare a quest’arte, ricordando anche che, in effetti, kurimanzutto, ora riconosciuta come una delle principali gallerie internazionali, negli Anni Novanta e all’inizio degli Anni Duemila presentava le opere in spazi non convenzionali di Città del Messico: dal mercato della frutta alle strade di quartiere. Con TITAN l’ubicazione è un’altra megalopoli tentacolare anche se molto diversa: New York. Si tratta di un intervento nei canali di comunicazione della città, nello specifico, all’interno di una serie di chioschi di cabine telefoniche. Il titolo TITAN viene da un’azienda di pubblicità ormai defunta, che a sua volta rimanda ai dodici Titani della mitologia greca: i primi governanti del cosmo rovesciati dalla loro stessa prole. Il nostro progetto affronta appunto i cicli di potere, la questione della possibilità nel mondo difficile e mutevole in cui tutti viviamo. In questo momento di grandi cambiamenti, l’umanità deve essere al centro della scena. È importante sottolineare che questa mostra non deve fermarsi alla 6th Avenue. Restiamo sintonizzati per i messaggi di altri Titani, quelli sotto traccia in giro per la città, che possono in qualsiasi momento unirsi e condividere le proprie opinioni.
‒ Virginia Negro
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