Cosa significa contemporaneo? Un dialogo con Gianfranco Maraniello
Proseguono i nostri focus sulla Collezione Farnesina. Dopo il focus sulla Collezione e quello sul Palazzo della Fanesina, abbiamo cominciato a proporvi i dialoghi con i membri del Comitato Scientifico. Partendo da Angela Tecce e arrivando ora a Gianfranco Maraniello, ex direttore del MAMbo di Bologna e del MART di Rovereto.
La Collezione Farnesina è costituita di opere d’arte moderna e contemporanea. Ma cosa si intende per contemporaneo? Ciò che è prodotto da una certa data in avanti? Le opere degli ultimi venti-trent’anni? O ancora, è tutto contemporaneo, perché gli occhi che guardano sono i nostri? Ne abbiamo parlato con Gianfranco Maraniello, membro del Comitato Scientifico della Collezione e già direttore dei musei MAMbo di Bologna e MART di Trento e Rovereto.
Cosa significa il termine “contemporaneo”? Le interpretazioni sono tante: ciò che è vivente mentre lo siamo noi stessi, quel che caratterizza il periodo in cui viviamo, o anche qualsiasi elemento presente nel nostro ambiente, visto però con i nostri occhi – e, in quest’ultimo senso, sarebbe contemporaneo anche un Caravaggio o una piramide egizia.
Le molte interpretazioni di “contemporaneo” sono espressioni di altrettanti modi di estendere o fraintendere il perimetro di una questione che, almeno per quanto riguarda l’arte, può trovare senso solo nell’ambito del “moderno”. Intendo dire che un simile termine assume rilevanza esclusivamente nella prospettiva e nel presupposto di uno sviluppo, di un teleologismo o di un progetto di corrispondenza alla storia da contrapporre al pregiudizio dogmatico o idealistico di un’arte assoluta ed eterna.
Il contemporaneo è un problema della modernità, ne rappresenta la fase in atto, la dinamica non ancora storicizzata del corso stesso della sua storia. Denominare, ad esempio, un museo “d’arte moderna e contemporanea” non deve suggerire la successione di due epoche storiche, ma è il riconoscimento degli scopi di un’istituzione dedita alla documentazione e messa in opera del carattere dinamico, contingente e attuale della modernità. Il contemporaneo, pertanto, è proprio l’attuarsi della prospettiva del moderno.
Il moderno, ridotto a quella che efficacemente un critico come Harold Rosenberg ha battezzato “tradizione del nuovo”, è però divenuto facile bersaglio dei sostenitori di istanze escluse da quella ideologia dello sviluppo delle arti in corrispondenza alla propria condizione storica. La democrazia e l’allargamento in scala globale dell’informazione vanificano ogni pensiero egemonico e quindi l’idea di un unico progredire nelle arti. Da qui il reclamare la pari dignità di espressioni artistiche del tempo presente che vengono equivocamente proposte come “contemporanee” perché simultanee al nostro essere al mondo. Il contemporaneo si svuota così di specifica intenzione culturale, non ha più progetto e si confonde con la generica “attualità” o l’ancor più vago assunto di qualcosa che, pur accaduto in passato, continua ancor oggi a costituire valore. Ma non è Caravaggio a essere contemporaneo. Contemporanei, eventualmente, sono la possibilità di lettura della sua opera, la forma-mostra che lo presenta o la riflessione che ne espliciti le ragioni di rilevanza nell’ambito della modernità. È il “discorso-su-Caravaggio” che attua la propria sintassi contemporanea e, così facendo e secondo un’espressione di Bergson, finisce col retrocedere indebitamente il testimone.
Senza corrispondenza a uno specifico problema del moderno, si è arrivati anche alla possibilità di dichiarare che tutto sia contemporaneo, perché ogni cosa si rivelerebbe nel discorso presente, nella memoria attuale, nella convivenza di eredità e immaginazione. È una bella suggestione, ma a ben riflettere un simile argomentare svuota di senso, anzi rovescia in un paradosso, la propria stessa affermazione: se tutto fosse contemporaneo, nulla si qualificherebbe propriamente come “contemporaneo”. Non ci sarebbe altro tempo o altra condizione immaginabile e non si darebbe alcuna differenza specifica per motivare un simile termine e, dunque, potrebbe parimenti dirsi che nulla sia contemporaneo o, meglio, che il “contemporaneo” sia “nulla”.
ARTE CONTEMPORANEA E FILOSOFIA DELLA STORIA
Spostiamoci dalla prospettiva filosofica a quella storica. Le varie discipline non condividono la medesima timeline: l’epoca moderna inizia e finisce in date differenti a seconda che si parli di storia, filosofia, medicina, architettura e via dicendo. Quali sono le ragioni di questo disallineamento?
Direi che qui si aprono almeno due questioni fondamentali. La prima si potrebbe formulare come una replica retorica alla tua domanda: perché dovrebbe esserci un “allineamento”? In virtù di cosa dovremmo far coincidere il moderno con delle specifiche date di inizio o dichiararne la chiusura come la diffusa e forse paradossale espressione “post-moderno” lascerebbe intendere? Non è che anche il post-moderno rappresenta a sua volta una fase della modernità? Quel suo prefisso non è già indizio di una condizione che continua ad attuarsi, seppur in una dialettica negativa, come produzione storica?
Il punto è che la modernità non è un fatto storico, ma la coscienza di un rapporto al tempo che lo storico retrospettivamente ordina secondo il proprio metodo classificatorio. Il senso del moderno non coincide con lo storicismo, ma certamente lo supporta nei modi di analisi e nell’idea fondamentale di uno sviluppo della Ragione o dello Spirito o delle manifestazioni del pensiero e della creatività umana. Direi, anzi, che il moderno può costituire il trascendentale stesso dello storicismo, una precondizione del suo esercizio. Inoltre la modernità eccede il dato storico, proiettando, ad esempio, la propria intenzione sul mondo verso l’utopia, nella possibilità di trasformazione dell’esistente. Il moderno, pertanto, si attua come prassi in una trama che lo storico può analizzare come tradizione.
Qui, però, emerge il secondo problema fondamentale. Pensare che esista una tradizione, una via della modernità, un’unica traiettoria di riferimento appare una forma insostenibile e intollerabile di riduzionismo, una violenta ideologia che presumerebbe di chiudere gli occhi per eliminare ogni incedere sospettoso che, invece, grazie a psicoanalisi, strutturalismo e decostruzionismo, abbiamo assimilato come pratica necessaria per criticare la presunzione di verità di ogni nostro dichiarare. Se a ciò aggiungiamo l’attualità e l’enorme portata a livello planetario di ciò che forse semplicisticamente possiamo intendere come pensiero della differenza con la dimensione etica e politica del sapere che critica il perdurare nelle istituzioni di una specifica egemonia etnica e di genere, diviene davvero difficile sostenere la prospettiva di un corso storico delle cose. E se non c’è una storia, tanto meno sembra plausibile credere ingenuamente in una storia di ogni singola disciplina e ancor meno nell’allineamento cronologico di saperi e attività riconducibili a versanti differenti e forse essi stessi forzatamente costituiti come “discipline”.
L’idea di uno sviluppo teleologico, la rivelazione di uno scopo o comunque la prospettiva di coerenza nello sviluppo dialettico dei saperi diviene forma mentis, perpetuandosi, almeno in Italia, già nella formazione culturale quale residuo di neoidealismo gentiliano ancora ben presente – e con non trascurabili ragioni – nell’ordinamento scolastico e universitario dei nostri corsi di studi. Ma non è ovvio o ineluttabile pensare allo studio dell’arte come “storia dell’arte”, come magistralmente abbiamo appreso con l’Argan, alla filosofia come susseguirsi di posizioni nel denominatore comune della voce narrante in una manualistica, seppure eccellente, come quella di Nicola Abbagnano, e lo stesso può dirsi della letteratura e di altre materie umanistiche. E forse non è un caso che ciò non sia perfettamente replicato per lo studio delle discipline scientifiche.
Il disallineamento, pertanto, è fondamentalmente un sintomo dei limiti di un’interpretazione storicista dei valori della modernità.
MARCEL DUCHAMP È IL PAPÀ DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Dal punto di vista della storia e della critica d’arte, c’è una certa concordanza nello stabilire l’inizio dell’epoca contemporanea con l’opera di Marcel Duchamp. Cosa incarna questo artista e in che modo dà inizio alla contemporaneità?
Non sono convinto della premessa, ma sono disponibile ad accogliere questa considerazione su Duchamp come postulato, ossia come convenzionale e indimostrato principio basato sulla concordanza che Duchamp sia, con una certa evidenza, tra gli artisti più commentati e riferimento principe di molte teorie sull’arte. Potremmo infatti speculare sul senso del contemporaneo a partire dall’Impressionismo o dal Picasso di Les Demoiselles d’Avignon, e tali pretesti ci porterebbero a dire cose diverse in relazione all’arbitrario riferimento che retoricamente chiamiamo “inizio”, ma che tale non è in modo assoluto. In alcune celebri pagine, un critico come Hal Foster ha chiarito che è la ricezione istituzionale che fonda come effetto retroattivo valori e gesti inaugurali, ma che, proprio tornando al “nostro”, Duchamp non apparve sulla scena come “Duchamp”.
Ciò premesso, Duchamp risulta funzionale a ogni dibattito sul contemporaneo perché l’epica della sua impresa sposta esplicitamente l’attenzione dal manufatto artistico al suo senso. La ruota di bicicletta, lo scolabottiglie o l’orinatoio, al di là di ogni ulteriore investigazione critica o esoterica sul perché di tali scelte, sull’organizzazione del modo di presentazione o sul valore di titoli come Fountain, consentono la possibilità di commento anche a prescindere dalla constatazione dell’opera. Si può discutere del gesto e non del prodotto. Si riconosce facilmente l’arte come campo d’azione e non come valutazione specialistica di un’esecuzione concretizzatasi in quadri o sculture. E nemmeno è trascurabile l’efficacia comunicativa del modo di classificare questi oggetti, che assumono senso in relazione al contesto espositivo e non per qualità estetiche proprie: ready-made. L’artista opera su un dato di realtà, sul già-fatto, sulla disponibilità di oggetti industriali, ossia già culturalmente pregnanti o “disegnati” dall’uomo e mai su elementi della natura, riconfigurandone il valore e la possibilità di interpretazione. Anche il più complesso significato della titolazione francese, étant donnés, contribuisce alla riflessione sul rapporto all’esistente, sul ruolo dell’artista e, quindi, sul carattere proprio dell’arte, ossia sulle sue “ragioni”.
Nel carattere esemplare di un simile agire si determina la contemporaneità di Duchamp, ossia l’insuperata necessità dell’arte moderna di dare conto di se stessa, di legittimarsi per non incorrere nel rischio di insensatezza, di impossibilità di accettarsi come pura espressione, ma di chiarire – come sosteneva Malevič – non solo il cosa, ma anche il perché della propria pratica. Così anche il senso comune può esprimersi nel diritto a chiederne conto con la più irriflessiva ma fondamentale domanda: è questa un’opera d’arte? E se non è “una pipa” quel che vedo e “leggo” nel celebre dipinto di Magritte, ha senso il continuare a cercare corrispondenze al reale nelle opere? Quali sono i margini che l’arte, a partire dall’invenzione della cornice, continua a tracciare per abitare un territorio che è nel mondo e, insieme, produce il singolare effetto di aprire ad altri mondi?
Abbiamo affrontato la questione della asincronicità fra le varie discipline. C’è però da considerare anche uno sfasamento geografico. Nel caso dell’Italia, quando inizia l’epoca contemporanea, in senso generale e in particolare nelle arti visive? Chi – ammesso che si possa fare un nome – svolge un ruolo assimilabile a quello di Marcel Duchamp?
Fare un unico nome è faccenda non solo ardua, ma probabilmente non coerente con la prospettiva di un’arte che non è frutto di un inspiegabile genio, ma che si colloca all’interno di una dinamica fatta anche di contingenza e relazioni. Se esiste una possibilità di concepire qualcosa come arte contemporanea, lo si deve proprio alla compartecipazione dialettica nella decostruzione di forme cristallizzate e nel creativo perimetrarsi di un territorio dinamico. Lo spazio aperto da Lucio Fontana, l’infinito catturato da Piero Manzoni, la sublimazione della materia nelle combustioni di Alberto Burri, l’agire poverista e il disvelamento del portato concettuale o linguistico dell’opera sono momenti di una costante tensione alla riconfigurazione e alla possibilità di riconoscimento dell’arte come fenomeno che ha coscienza di agire sul mondo, di crearlo senza limitarsi a rappresentarlo. E proprio questo continua probabilmente ad alimentare un’inesaurita istanza della modernità.
– Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #57 – Speciale Farnesina
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