Nuove frontiere della critica d’arte. L’ironia e le provocazioni del collettivo KIRAC
Dal 2016 hanno dato vita al collettivo olandese KIRAC, acronimo di Keeping It Real Art Critics. Stefan Ruitenbeek, Kate Sinha e Tarik Sadouma hanno cercato nuovi modi di fare critica nel campo dell’arte contemporanea. Mescolando ironia, filosofia e provocazione. L’artista Luca Bertolo ha intervistato uno di loro.
Devo alla segnalazione di un giovane pittore, Carlos Casuso, la scoperta artistica più interessante del 2020. Si tratta di KIRAC, acronimo di Keeping It Real Art Critics, un collettivo olandese fondato nel 2016 da Stefan Ruitenbeek, Kate Sinha e Tarik Sadouma. La loro attività sembra dividere il pubblico tra chi li ama e chi li detesta, senza vie di mezzo. È difficile definire a quale genere appartengono i loro video, in bilico tra reportage (auto)fiction e pamphlet. Li chiamano “episodi”: dal n. 1 al n. 17 si possono guardare gratuitamente (l’8, il 13 e il 16 sono dei piccoli capolavori), mentre per quelli successivi è necessario pagare una piccola fee, introdotta di recente insieme a un bizzarro merchandising, per l’autofinanziamento del progetto. Ho incontrato Stefan su Zoom.
A quanto pare, avete sentito l’urgenza di una nuova forma di critica d’arte.
In realtà l’intento iniziale è stato, più semplicemente, di allargare i confini di quello che stavo già facendo da un po’, e cioè raccontare con i miei video l’ambiente che frequentavo.
Sul vostro sito si legge: “Stefan Ruitenbeek, KIRAC Chief Executive, Director, Filmmaker; Kate Sinha, Philosopher, Writer, co-editor“. Cos’è un filosofo?
È uno che prende una posizione estetica sul mondo. In ambito artistico abbiamo bisogno di più filosofi e di meno attivisti!
Alcuni anni fa, Luca Rossi ‒ un nickname dietro cui si celava un artista ‒ ha appassionatamente e compulsivamente postato i suoi commenti su forum e blog italiani, coniando arguti neologismi per provare a classificare/criticare pratiche e mode dell’attuale sistema artistico. Ma buona parte del pubblico non gli ha perdonato di avere calcato troppo la mano, soprattutto all’inizio, offendendo delle singole persone. Anche voi lo avete fatto in qualche occasione: fino a che punto si può spingere la provocazione?
Direi che non c’è un limite…
Finché qualcuno non ti picchia.
Beh, quelli sono incidenti, dipendono dalla situazione concreta. In quel caso però la questione del limite riguarda piuttosto la persona che tira un pugno, no?
IL METODO CRITICO DI KIRAC
Vi interessa argomentare il vostro piacere davanti a certe opere oltre che criticare quelle che non funzionano?
Considero i miei film come dei lavori artistici, non sono saggi discorsivi. In ogni caso le cattive opere d’arte sono più stimolanti come soggetto, quelle buone ti forniscono l’energia che serve alla creazione.
Alcuni elementi sembrano caratterizzare molti vostri episodi: diversi livelli su cui procede la “narrazione”; la dimensione performativa; i salti temporali; le brevi escursioni teoriche affidate a una voce fuori campo… Vi date delle direttive estetiche o sono scelte che emergono durante il processo, che sembra molto spontaneo e improvvisato?
Mi do talmente tante direttive estetiche… non saprei da che parte cominciare!
Mi viene in mente Céline. Quando gli chiedevano se si limitasse a trascrivere il francese parlato, rispondeva, accalorandosi, che non si aveva idea di quanto lavoro gli costasse reinventare quel “semplice” argot affinché funzionasse sulla pagina.
Esatto! Mi interessa la leggerezza. In genere si pensa che se l’argomento è importante l’artista debba essere pesante. Per me invece l’obiettivo, in arte, è sempre la leggerezza: di Céline, o di Thomas Bernhard per esempio. Ma anche di Mozart e di molta arte classica.
Pensa che la lettura de Il soccombente è stata cruciale, quando avevo vent’anni, perché mi decidessi a mollare l’università e dedicarmi finalmente all’arte.
In generale, credo che chi ama Bernhard sia una brava persona.
KIRAC E IL POLITICALLY CORRECT
Nei vostri primi episodi emerge spesso una critica dissacrante dell’arte contemporanea. Attaccate alcuni tratti distintivi del “discorso” prevalente, tra cui il politically correct. Cosa vi disturba di più?
In realtà ci siamo resi conto di quanto duri potessero rivelarsi gli effetti del politically correct o cose simili solo quando Kate è stata accusata di razzismo e sessismo [cfr. episodio 13]. E così ce ne siamo occupati per qualche tempo… Adesso però queste faccende, così come la Institutional Critique, mi interessano molto meno. Mi importa seguire persone e ambienti che conosco da vicino, come nel caso di Tarik [Sadouma, N.d.R.] per esempio, o Philip [un collezionista, cfr. episodi 16, 17, 19].
Per quanto seri e introspettivi siano i vostri “racconti”, a un certo punto si scoppia a ridere…
L’umorismo nei video non è costruito, accade da sé.
In un episodio vi definite addirittura “mercenari”. Qual è il prezzo della vostra autonomia?
Invece che cercare una posizione “giusta”, il mito dell’artista indipendente, ci pare più interessante e onesto riconoscere che quel che facciamo è sempre condizionato dalle singole situazioni. Mi interessa calarmi nei punti di vista degli altri, non giudicare se siano buoni o cattivi.
Sul vostro sito si legge: “KIRAC è alla ricerca dell’amore, in forma di verità”. Poesia e critica possono convivere? Ma forse hai già risposto implicitamente a questa domanda…
Esatto.
‒ Luca Bertolo
www.keepingitrealartcritics.com
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