Biennale di Moss 2021. Intervista al curatore Théo-Mario Coppola
Intervista a Théo-Mario Coppola, autore e curatore di HOUSE OF COMMONS, l’undicesima edizione della biennale MOMENTUM che aprirà il 12 giugno 2021, sull’isola di Jeløya e nella città di Moss, in Norvegia; il curatore ci racconta come ha concepito il progetto, dalla forte impronta sociale e multiculturale, che avrà anche a Roma un interessante momento d’incontro
Quale sarà il messaggio dell’undicesima edizione della biennale?
Ho scelto MOMENTUM, HOUSE OF COMMONS come titolo dell’11a edizione della Biennale di Moss, per un esplicito riferimento alla nozione di commons, che in italiano si può tradurre con l’espressione sostantiva “beni comuni”. Ho scritto il progetto nell’autunno del 2019, prima della diffusione della pandemia. Oggi, a pandemia ancora in corso, la nozione è considerata come un’alternativa ad alcuni modi di vivere e di pensare contemporanei. Ma non è una novità. Ci sono esempi storici di alcuni gruppi sociali che in passato hanno messo in pratico uno stile di vita “comunitario”. La casa (‘house’ in inglese) nella sua più ampia accettazione è un luogo di vita. La Biennale diventa quindi uno spazio comunitario e di sperimentazione, con ricerca, produzione e diffusione in vari Paesi. Inoltre, in un mondo particolarmente esposto alla violenza sociale, la nozione di “beni comuni” suona come una promessa di rinnovamento delle utopie. Per HOUSE OF COMMONS, c’è una parte significativa di nuove opere e di lavori basati su ricerche al lungo termine. Marinella Senatore lavora a un progetto di archivio delle voci dell’impegno politico. L’artista brasiliana Maria Noujaim sviluppa un nuovo progetto di performance e installazione in connessione con la topografia come disciplina e in risonanza con la decostruzione degli strumenti normativi dell’ontologia naturalista. Ho anche invitato l’artista Délio Jasse, la cui pratica impiega complessi intrecci tra archivi, rappresentazioni memoriali e questioni transculturali, migratorie e coloniali.
Quali i criteri per selezionare gli artisti?
In inglese, trovo che la parola ‘artist’ sia limitante. Preferisco piuttosto la parola ‘practitioner’, nel senso di chi ha una pratica estetica. È un termine che unisce artisti, autori, scrittori, ed altri professionisti specializzati nella creazione. Affermare l’uso di questa parola ci consente di includere la diversità delle pratiche estetiche contemporanee, senza limitarsi a quello che viene caratterizzato come “arte contemporanea”, termine che è stato ridotto a una produzione oggettuale e a un marketing. Al contrario, parlare di pratiche estetiche contemporanee permette di non ridurre il lavoro dei professionisti a delle produzioni destinate a soddisfare esclusivamente gli interessi del mercato. Una pratica estetica contemporanea è una proiezione nello spazio della realtà e nello spazio della possibilità. Non si limita a una forma fissa ma è da intendere come una combinazione di situazioni e idee. Ho selezionato gli artisti dopo una ricerca dell’interesse intellettuale e artistico per la diversità delle forme e delle pratiche, così come dei percorsi. Una biennale non sarà mai un’enciclopedia ma è sempre un punto di vista critico. Il primo criterio è quello di invitare professionisti il cui impegno è coerente, e che sviluppano un lavoro rigoroso senza cedere alle sirene dell’attualità o delle tendenze.
Quanto è significativa la partecipazione delle donne?
Per me, la questione del genere è fondamentale, sia per quanto riguarda la scelta delle persone sia attraverso le loro diverse pratiche. Le donne sono molto presenti. Ma la questione della migliore rappresentazione non si ferma né al genere né al dualismo. Coinvolgo attivisti queer, collettivi alternativi, e duo sperimentali. Per me, è indispensabile tener conto della diversità delle prospettive e rimanere consapevoli che l’esaustività può essere un desiderio, ma non può mai essere un riflesso compiuto del mondo. Le mie scelte si basano principalmente sulla rilevanza intellettuale di una pratica estetica e visioni libere. Rifiuto di essenzializzare le persone, chiudendole in categorie che non vogliono. E rifiuto di ricreare delle forme di invisibilità. Il mio ruolo di curatore consiste nel non cadere in questa trappola della strumentalizzazione o della convinzione finta dell’esaustività.
Come sarà organizzata la Biennale nelle sue varie sedi?
Sin dall’inizio del progetto ho proposto “estensioni” della Biennale anche nella città di Moss, in aggiunta a quelli sull’isola. Ho concepito dei padiglioni e ho stabilito un circuito per collegare l’integralità delle sedi e dei siti, includendo le opere site specific nello spazio pubblico. Questo circuito è l’opportunità per chi visiterà la biennale di sperimentare diversi aspetti nel contesto del fiordo di Oslo. Per esempio, dalla stazione, sarà possibile raggiungere il centro della città di Moss dove si trova lo spazio espositivo Kunstgalleri, così come lo Spunt Wall (un muro espositivo lungo la nuova linea ferroviaria). Sarà anche possibile raggiungere la zona di Alby, la parte meridionale dell’isola di Jeløya dove si trova il centro d’arte Galleri F 15, e i padiglioni, e dove le foreste e le spiagge sono di libero accesso. Per me, il percorso è l’occasione per affermare che non siamo più nell’era del post-industriale, che è sempre stato un discorso sostanzialmente occidentale, ma in un presente ibrido con diverse forme di attività umane e diverse realtà sociali che non hanno solo a che fare con un territorio geografico ma anche con la storia della gente, le loro traiettorie, il loro passato. Qualunque sia il luogo in cui ci troviamo, dobbiamo osservare il passato di chi è arrivato da poco, o di chi non c’è più, per accedere a una comprensione del luogo stesso. È tutto più complesso e ricco di significati. È quello che chiamo in inglese “trans-situations”.
Qual è il rapporto fra la Biennale e l’isola?
Ci sono elementi tangibili di un rapporto con la comunità e l’ambiente. Ho osservato la storia, le dinamiche contemporanee, e gli ecosistemi dell’isola. Prima di diventare un centro d’arte negli anni Sessanta, la zona di Alby era agricola. Quello che mi interessava di più era la storia dei braccianti. Oggi,alcune aree sono protette mentre altre continuano ad essere sfruttate. Uno dei tre padiglioni di S-AR sarà situato dov’erano un tempo le abitazioni dei braccianti e delle loro famiglie. Un altro, sarà installato in un bosco dove c’erano degli alberi dannosi per l’ecosistema locale, piantati per errore anni fa, e adesso rimossi. Il ruolo dei padiglioni sarà “riciclabile”; resteranno come opere architettoniche in quanto tali, e ospiteranno anche altri progetti.
Sono previste collaborazioni con istituzioni artistiche, organizzazioni, piattaforme e programmi all’estero?
Nelle sue forme precedente, la Biennale si era concentrata essenzialmente su artisti della scena norvegese e scandinava. Ho tolto questo carattere, poco in linea con le problematiche contemporanee, allargando gli orizzonti per creare un contesto meno regionalista e più accogliente. La dimensione internazionale di HOUSE OF COMMONS si riflette in vari modi. In primo luogo, nella scelta dei professionisti invitati, come accennavo prima. In secondo luogo, la dimensione internazionale si sviluppa con collaborazioni, coproduzioni, e residenze di ricerca e produzione: Daisuke Kosugi ha girato un nuovo film in coproduzione fra la Biennale, V-O-L-T a Bergen, e M.O.T a Tokyo. A maggio, ci saranno altre coproduzioni tra la biennale e programmi internazionali con delle residenze con Apparatus 22 e Maria Noujaim da Bar Project a Barcellona, in Spagna, e con Camilo Godoy da SOLARIS, a Bordeaux, in Francia. Coloro che non verranno in Norvegia avranno l’opportunità di accedere alla Biennale attraverso vari eventi in altri Paesi. Ho anche sviluppato un tool curatoriale con il sito ‘www.momentum11.art’, che consentirà di avvicinarsi ad alcuni aspetti della Biennale. Il 22 giugno 2021, a Roma, ci sarà un incontro tra Chto Delat e me, organizzato e ospitato da Palazzo delle Esposizioni, in collaborazione con la Biennale, nel contesto di Rome Charter (Carta di Roma). Sarà un’occasione per approfondire il lavoro del collettivo russo.
Quali sono le “parole chiave” di questa biennale?
Il termine centrale di HOUSE OF COMMONS è ‘comuni’, e la sua messa in pratica, cioè l’idea di comunità. Un’idea di primaria importanza, perché siamo legati a dinamiche sociali di gruppo che dovrebbero essere più sinonimi di emancipazione e inclusione. Dopodiché, c’è la parola convergenza, perché siamo il risultato di storie e situazioni sociali eterogenee. E finalmente ‘queer’ e ‘queering’ in una forma attiva, perché occorre una strategia per trasformare la nostra società, il nostro linguaggio e il nostro rapporto con gli altri.
– Niccolò Lucarelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati