Gli artisti e la performance. Intervista a Ruben Montini

Pratica penalizzata dalle restrizioni dovute alla pandemia, la performance resta un linguaggio artistico ben radicato. Inauguriamo oggi la nuova serie dedicata agli artisti performativi con l’intervista a Ruben Montini.

Ruben Montini (Oristano, 1986) mescola le tradizioni della sua terra natale a un’azione performativa che punta lo sguardo sulla cultura queer, usando il corpo come vocabolario. Lo scorso giugno ha inaugurato l’artist-run space CONFINO a Castelnuovo del Garda per accogliere le voci e i temi LGBTQI+.

Nella tua ricerca artistica il corpo riveste un ruolo determinante. Da Adeguamento a una superficie reale 2 (2013) a Se non uccide, fortifica (2020), si palesa sistematicamente l’intenzione di volersi mettere “a nudo” di fronte a tematiche spinose che ti hanno coinvolto in prima persona. Sofferenza ma anche riscatto e ribellione affiorano dai tuoi gesti, che si trasformano in profondi vortici catartici. Cosa ti ha spinto a fare performance?
Quando ho iniziato a lavorare con la performance ero ancora in Accademia. Nel 2007 in Italia non era ancora esplosa “la moda” delle azioni live, anzi, venivo accusato di essere un nostalgico degli Anni Sessanta e Settanta: sia per l’uso di questo mezzo, sia per il messaggio politico che volevo lanciare con i miei lavori. Io ero consapevole di usare un mezzo radicale e che mi permettesse di colpire il pubblico senza filtri: di coinvolgerlo all’interno del mio pensiero e delle problematiche che ancora oggi mi interessa sollevare con il mio lavoro. Non mi è mai interessata la decorazione, tanto meno l’intrattenimento. Per me fare performance, così come fare arte, vuol dire raccontare l’urgenza di qualcosa ‒ che sia un diritto negato o un sentimento amoroso. E mi piace accompagnare il fruitore all’interno di un mondo possibile: di un’alternativa possibile che la realtà spesso ci nasconde o ci fa credere irraggiungibile.

CONFINO, artist-run space inaugurato lo scorso 20 giugno, rappresenta quella realtà che ti permette in qualche modo di alienarti dalle dinamiche di mercato. È uno spazio in cui puoi sperimentare liberamente, senza dover anteporre aspetti estetici o commerciali che potrebbero compromettere la spontaneità del gesto artistico. In tal senso, quanto pensi che il contesto entro cui decidi di svolgere una tua performance sia determinante al fine di una buona riuscita del lavoro? Modifichi le tue performance a seconda del contesto?
Non lavoro mai su commissione. Non mi capita mai che mi si chieda di pensare un progetto per un determinato spazio. Solitamente, come per esempio nel caso di Did you ever fall in love again? del 2019 presentato a Villa Adriana, Tivoli, cucio sui luoghi in cui lavoro i pensieri che mi porto dentro da tempo e che quindi, in questo modo, trovano il modo di concretizzarsi davanti agli occhi del pubblico.
CONFINO ‒ più che per me ‒ è uno spazio che ho pensato per dare visibilità, spesso per la prima volta, a giovani artisti gay che vivono in Italia, di volta in volta accompagnati dalle opere di un artista più established. È un modo per creare “specificità” e per sopperire a una programmazione istituzionale, e anche indipendente, che nel nostro Paese non ha mai creato un focus dettagliato per questi artisti. A chi mi accusa di voler “ghettizzare” in questo modo gli artisti gay, rispondo che una presa di coscienza sulla specificità delle nostre ricerche e delle nostre vite non si configura con una auto-esclusione dal resto, ma con una partecipazione più consapevole al discorso culturale, partendo dal presupposto che le differenze sessuali sono delle vere differenze.

Ruben Montini, Quando il giorno è uguale alla notte, 2020 from Teatro Linguaggicreativi on Vimeo.

La performance viene spesso identificata come quella forma d’espressione artistica legata indissolubilmente alla sua natura effimera e fugace. Questa visione si è rivelata forse troppo dogmatica agli occhi di tutti quegli artisti che, nella loro pratica, prevedono di poter replicare le proprie opere performative già eseguite in passato. Per quanto riguarda la tua produzione artistica – in particolare durante la fase di ideazione dell’opera –, prevedi che una performance possa essere replicabile in futuro?
Fino a questo momento ho riproposto soltanto due performance: Tip-Tap del 2008, realizzata per la prima volta alla The Why Gallery a Londra, poi ripetuta nel 2011 a “The Dandysm of Contempt” al Camden Town Unlimited sempre a Londra e nel 2013 al Teatro Florian di Pescara; poi Agiudamia Tui, Virgini, realizzata nel 2011 a Matter of Action presso O’ a Milano e nel 2015 per POMADA al Centro d’Arte Contemporanea Ujazdowski Castle di Varsavia.
Per quanto non sia particolarmente contrario all’idea che una performance venga replicata, personalmente preferisco realizzarle soltanto una volta: mi sono reso conto che quando le faccio per una seconda o terza volta, le azioni si “spengono”, l’adrenalina viene meno e quindi la capacità di gridare qualcosa viene indiscutibilmente ridimensionata. Questo è anche il motivo per cui non provo mai le azioni prima di realizzarle davanti al pubblico, seppure le studi nei minimi dettagli.

In termini di oggettualità, c’è qualcosa che resta delle tue performance? Se sì, prevedi che ciò possa essere vendibile? Più in generale, quali sono le modalità e/o i media che permettono di acquisire una tua performance?
Naturalmente gli oggetti che utilizzo o che realizzo durante la performance possono essere acquisiti indipendentemente o insieme al registro dell’azione: fotografie e video che, per quanto mi riguarda, insieme alla Prometeo Gallery che rappresenta il mio lavoro, abbiamo fissato in edizione di 3 + 2.
Oppure, delle mie performance può essere acquisito il protocollo in edizione unica per ciascuna azione: questo permette al collezionista di comprare il diritto di farmi realizzare il lavoro una volta e di possedere i diritti per la realizzazione di un’unica edizione video e fotografica di quella (ri-)esecuzione. Questo è vincolato da un contratto stipulato da noi (artista e galleria) e collezionista, che regolarizza il luogo e le modalità in cui l’opera deve essere realizzata.

Ruben Montini, MADRE, 2019, performance, 10’. Alsova Jihoceska Galerie, Hluboká nad Vltavou, Repubblica Ceca. Photo Ela Bialkwoska, OKNOstudio. Courtesy l’artista & Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano-Lucca

Ruben Montini, MADRE, 2019, performance, 10’. Alsova Jihoceska Galerie, Hluboká nad Vltavou, Repubblica Ceca. Photo Ela Bialkwoska, OKNOstudio. Courtesy l’artista & Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano-Lucca

PERFORMANCE E PANDEMIA

Viviamo in un’era in cui, per via di circostanze avverse, gli artisti che decidono di ricorrere alla performance come modalità di espressione si trovano spesso costretti a rimodulare il proprio lavoro. Il ricorso al digitale potrebbe rappresentare un’alternativa efficace, sebbene la forma di interattività diverga da quella a cui eravamo abituati. In tal senso, come ti poni nei confronti dei processi di digitalizzazione dell’arte performativa? Pensi che la mancanza di un pubblico fisicamente presente possa rappresentare una discriminante in termini di suggestioni che arrivano al performer durante la realizzazione del lavoro?
Un esempio eclatante è stato Corpi sul Palco, il programma di performance ideato e curato da Andrea Contin, che durante il primo lockdown è stato sviluppato interamente online.
In quel momento preciso, quello del primo lockdown, la tensione e l’empatia erano così alte che il contatto con il pubblico c’è stato anche se fisicamente lontani.
Penso che se il lavoro è forte e parla di una situazione condivisibile dai più, arrivi anche se presentato in maniera digitale.

Edoardo Pontecorvi

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Edoardo Pontecorvi

Edoardo Pontecorvi

Edoardo Pontecorvi (1995) è nato a Velletri e vive a Milano. Ha studiato al D.A.M.S. dell’Università di Padova, laureandosi in storia dell’arte contemporanea con una tesi sulla replicabilità della performance. Ha successivamente conseguito il diploma di master in Contemporary Art…

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