L’arte può curare persone e società. Intervista a Vanessa German

Dopo Nari Ward e Nona Faustine, prosegue con Vanessa German la serie di interviste che la nostra corrispondente da New York sta realizzando con gli artisti black che operano negli Stati Uniti.

In un’America convalescente e provata da mesi di forte conflittualità sociale, l’arte può essere una terapia, un’opportunità per unire e condividere anziché dividere. Ma perché questo avvenga bisogna riconoscere la violenza insita in una società che sembra ancora incapace di vedere una ricchezza nella propria complessità.
Il percorso dell’artista Vanessa German (Milwaukee, 1976) nasce dalla disperazione causata dalla violenza, dall’oppressione, dall’imposizione di miti unilaterali e va verso la ricerca del potere curativo dell’arte e dell’amore. È un percorso che origina da un’identità che si riafferma nell’esternalizzazione della violenza subita da generazioni di donne nere, per poi trovare una riconciliazione nella forza che nasce da quella sofferenza. Le sue power figure sono feticci attraverso cui l’artista si libera e libera il proprio potere di donna gay, di colore, artista. La sua casa nel quartiere di Homewood a Pittsburgh è diventata un centro di creatività e aggregazione per la comunità locale. A febbraio un incendio l’ha danneggiata gravemente ma, grazie a una campagna di raccolta fondi online, l’artista conta di riuscire a ristrutturarla e restituirla al quartiere.

INTERVISTA A VANESSA GERMAN

Ci parli del processo dietro il tuo lavoro? Utilizzi spesso oggetti trovati: come decidi cosa entra a far parte delle tue opere?
Gli scrittori hanno un linguaggio, usano un vocabolario per uno scopo, giusto? Dato questo scopo, lo scrittore sceglierà il linguaggio che racconta la storia di cui vuole parlare. Io colleziono oggetti, quindi costantemente raccolgo la mia lingua, raccolgo questo vocabolario visivo. E in questo mio lessico visivo, alcune cose hanno un significato storico o simbolico e a volte ne sovverto il significato. Scavo continuamente nel mondo intorno a me alla ricerca di materiale che mi parli su più dimensioni, politicamente, culturalmente, spiritualmente. A seconda di ciò che accade nel mondo, vedo gli oggetti in modo diverso e li uso in modo diverso. Allo stesso tempo, c’è un livello nascosto, segreto, nelle mie opere.

Ce ne parli?
È un livello che io riesco a leggere ma magari non tutti vedono. È il mio modo di esprimere cose che le donne di colore non sentono di poter esprimere. A volte il lavoro è fortemente dettato dallo scopo, altre volte rilascio me stessa nella magia della frequenza, dell’artista che sono. Cosa che, in un mondo dell’arte ferocemente accademico ed esclusivo, non sempre viene rispettata… ma chi se ne frega!

Cos’è che non viene rispettato?
Dire di aver fatto qualcosa solo perché lo si riteneva giusto. Parte del mondo dell’arte è radicato in questi luoghi rigidi, in definizioni statiche di cosa è pittura, cos’è arte concettuale, cosa è arte alta, cosa è arte popolare. Ma l’arte non deve funzionare come l’architettura: le porte non devono essere dritte o aprirsi in modo uniforme, può essere viva all’interno della frequenza di tutto ciò che è attivo all’interno del mio corpo, della mia mente e della mia anima.

Vanessa German, White King Soap, 2013. Courtesy the artist & Pavel Zoubok Fine Art, New York

Vanessa German, White King Soap, 2013. Courtesy the artist & Pavel Zoubok Fine Art, New York

Dicevi che quelle che crei sono power figures e che hanno uno scopo. Puoi spiegarcelo?
All’origine di queste figure ci sono io che cerco di salvarmi la vita. Mi ero data sei mesi, al termine dei quali mi sarei uccisa, perché vedevo solo disperazione nel mondo e avevo deciso che non volevo restare viva in quella disperazione. E così, per sei mesi ho fatto quello che mi andava, quello che mi sentivo. Raccoglievo materiali dalla strada, estraevo oggetti dal terreno… Cercavo di capire cosa fosse la forza per me come artista, dove potessi trovare la forza non semplicemente per sopravvivere ma per essere viva, felice e nera in America.

Cosa è nato in quei sei mesi?
Ho realizzato sei oggetti, fatti con materiale trovato in giro, e mi sono liberata dal peso della disperazione. Nella costruzione degli oggetti, il mio corpo, il mio sé fisico è stato liberato. Allora sono riuscita ad affrontare le cose che mi stavano uccidendo a livello mentale.

Quali?
Le idee americane, l’idea del sogno americano, l’idea di come gli americani trascorrono la loro vita in un sistema capitalistico. Dovevo uscire da quelle trappole e creare una mia vita. Quando definisco le mie opere power figures, c’è una relazione con le power figures congolesi e geechee, di cui non conoscevo l’esistenza finché, a un festival, alcuni esperti di storia africana precoloniale videro una delle figure che avevo fatto e mi dissero che cose del genere si facevano in Congo da secoli. Cose che utilizzavo simbolicamente nel mio lavoro sono state fatte per migliaia di anni e io non ne avevo idea.

Ad esempio?
I chiodi. Io raccoglievo chiodi arrugginiti perché mi sembravano belli, mi sembrava un materiale che potesse raccontare chiaramente un’esperienza interiore per la quale non riuscivo a trovare il linguaggio. Il chiodo, affilato, segnato dalle intemperie, era un linguaggio per comunicare uno di questi luoghi di disperazione.

Cosa è successo dopo quei sei mesi?
Ho scoperto che il potere del fare era in grado di tenermi in vita. Quelle sei opere furono viste da un curatore importante che era nella giuria della mostra dell’Associated Artists of Pittsburgh, uno dei collettivi artistici più antichi d’America. Vinsi diversi premi. Poi le vide un dealer di New York e le acquistò per diverse migliaia di dollari. E così capii che potevo vivere e prosperare. Non solo sopravvivere, non solo il minimo indispensabile. C’è un linguaggio politico per quell’esperienza, ovviamente, perché essere neri e con le ovaie in America ha uno specifico significato. Nell’immaginario di chi rubò questa terra e creò la Costituzione non era previsto che fossimo completamente umani, che avessimo la libertà o le risorse per possedere delle proprietà. Thomas Jefferson possedeva migliaia e migliaia di schiavi grazie alle ovaie e ai corpi delle donne nere. Quindi c’è un linguaggio politico per il tipo di libertà che ho ottenuto. Ma c’è anche un linguaggio spirituale. Ho trovato l’amore della mia vita in quel fare e poi ho capito che non basta nemmeno trovare l’amore della tua vita, ma che, affinché l’amore dia il meglio di sé, va condiviso. E quindi ho iniziato a condividere il processo creativo, e così è nata la Art House.

Vanessa German nella Art House dopo l'incendio di febbraio 2021

Vanessa German nella Art House dopo l’incendio di febbraio 2021

LA STORIA DELLA ART HOUSE

Inizialmente era casa tua. Come si è trasformata in residenza artistica e luogo d’incontro e apprendimento per i giovani?
La Art House è nata spontaneamente: mi mettevo sul portico a lavorare con l’argilla e alcuni bambini arrivavano a guardarmi. Allora ho iniziato a dare loro dell’argilla per creare degli oggetti oppure, quando facevo foto con le mie vecchie reflex, mostravo loro come fare. È nata dalla mia comprensione che i bambini amano creare cose e dalla condivisione. E la condivisione è amore.

Ho letto in alcuni articoli che l’Art House nasce in risposta a un quartiere violento.
Quando leggo questo tipo di articoli, che parlano della violenza o dei traumi di un quartiere senza evidenziare il sistema che li ha prodotti, penso facciano un disservizio. Quando i bambini si mettono a lavorare con l’argilla lo fanno semplicemente perché sono bambini e vogliono giocare, si divertono a creare, e non è una risposta a qualcosa di brutto. La domanda è: perché siamo qui in un quartiere che ha così tanta violenza? È sistemico, la povertà è intenzionale, quindi quando si parla di violenza non bisognerebbe puntare il dito sul mio quartiere come se la gente di qui avesse un problema: la gente è ok, è il sistema che è sbagliato. È il potere che rovina le cose.

Come hai lavorato con i bambini?
Non è un corso”, dicevo, “non ti aiuto e non ti insegno niente, posso mostrarti delle cose ma poi dovrai essere tu a prendere delle decisioni”. All’inizio erano sconcertati, poi hanno iniziato a capire come fare le proprie scelte. Lo raccontavano agli amici e così li vedevo scendere dall’autobus e dire agli altri: “Andiamo a fare arte”. Ho capito che non era una cosa che dovevo monitorare, ma che i bambini erano in grado di badare a se stessi. E così ho saputo che era amore, perché l’amore riproduce sempre se stesso. La violenza è ovunque perché questa terra è stata rubata con la violenza.

A febbraio un incendio ha gravemente danneggiato la Art House. In che condizioni è ora?
Il danno è stato molto esteso. Abbiamo perso la cucina, il bagno, la camera da letto, il corridoio, il muro di sostegno tra il secondo e terzo piano. La cosa più gravosa sarà il tetto. Cercheremo di ottenere dalla città un’autorizzazione di emergenza per coprirlo e mitigare potenziali ulteriori danni causati dalle piogge primaverili.

La campagna di raccolta fondi per la ristrutturazione ha avuto successo?
Sì, mi è sembrato di assistere a uno sversamento di cuore, amore e forza umana. Il futuro è luminoso. Ho così tante poesie di ringraziamento da scrivere!

Vanessa German, More than one thing is happening at the same time, 2019. Courtesy the artist & Pavel Zoubok Fine Art, New York. Photo Concept Art Gallery, PA

Vanessa German, More than one thing is happening at the same time, 2019. Courtesy the artist & Pavel Zoubok Fine Art, New York. Photo Concept Art Gallery, PA

L’ARTE DI VANESSA GERMAN

Tornando al tuo lavoro: le tue opere rappresentano spesso corpi femminili neri. C’è una connessione tra quei corpi e le power figures di cui parlavi prima?
Ci sono cose che sono pre-scelta, pre-linguaggio, pre-concettuali. Già da piccola prendevo vecchie bottiglie di sapone per i piatti, che hanno quella forma a clessidra, e ci mettevo una lampadina come testa per creare delle figure femminili che per me erano magiche. Ora, nella mia mente di adulta, riconosco che è una storia d’amore, è la mia storia d’amore. Quando ero bambina, mia madre si intratteneva solo con gruppi di donne, le sue amiche erano donne possenti dai fianchi larghi e così iniziai a identificare il potere di una donna con l’ampiezza dei suoi fianchi, con la mastodonticità del suo corpo. Mia madre era una radicale, un’attivista, e le donne con cui si riuniva non erano mai donne fragili, non erano carine, non parlavano di cose leggere. Mi facevano un po’ paura. Ricordo che mi sembrava parlassero una lingua segreta e avessero un potere particolare. E quindi ho ancora questa fascinazione per il potere invisibile delle donne nere e del lavoro segreto che hanno fatto: sappiamo che questo Paese è stato costruito sul lavoro di corpi neri e marroni tenuti in cattività e forzati alla fatica. Ma c’era anche un lavoro segreto. E così nel mio lavoro c’e la continua ossessione per il corpo femminile nero e il suo travaglio.

Cosa intendi per lavoro segreto?
Da bambina mia nonna mi raccontò che, prima di essere un’infermiera, aveva lavorato come domestica. E io non capivo cosa fosse e cosa facesse una domestica. Ricordo che parlava di stirare camicie da uomo, cucinare e pulire. E io le dicevo: “Eri una donna delle pulizie”. E lei diceva: “Più o meno, ma non proprio”. Alla fine ho capito che quello che faceva era rendere vivibile la vita di un’intera famiglia. E mi interessavano gli strumenti di quel lavoro, perciò uso tutti quegli oggetti domestici nelle mie opere. Ma mi interessava anche il riconoscere che, se mia nonna dedicava tutte quelle ore a rendere la vita di qualcun altro vivibile, non lo faceva per amore. Nella sua mente, c’era un altro tipo di lavoro che era simultaneo al lavoro fisico ed era il lavoro emotivo. Una fatica segreta, la fatica dell’anima. Il lavoro spirituale che doveva fare per mantenere la sua umanità mentre stirava le camicie che quest’uomo bianco indossava per andare a fare soldi e poi pagarla una miseria per i suoi servizi. Allora immagino che mia nonna pregasse su ogni asse del pavimento di quella casa, pregava per i suoi figli che aveva dovuto lasciare in Louisiana con i bisnonni, per andare a lavorare e procurarsi da vivere per la sua famiglia (come facevano in molti al tempo, andando a cercare lavoro al Nord, durante la Grande migrazione). Il lavoro segreto è tutto quello che mia nonna doveva fare per non andare fuori di testa, è il non potersi permettere di vivere all’esterno la propria vita interiore perché sai che potrebbe essere causa della tua distruzione. Nelle mie opere rendo fisico questo lavoro segreto, lo porto in superficie, lo faccio affiorare dai corpi.

Parli spesso del potere curativo dell’arte. In riferimento a quanto stai dicendo, mi chiedo se l’arte sia più curativa per chi la fa o per chi la riceve.
La guarigione esiste in relazione al male, al danno, giusto? Non parliamo di guarigione se qualcosa non è malato, danneggiato, distorto, rotto. Quando sono in un museo mi sento diversa: muoversi tra gli oggetti e i dipinti, quell’esperienza, il battito cardiaco che rallenta, mentre lì fuori, nel mondo in cui viviamo, c’è molta violenza e traumi di massa. Allo stesso modo si è scritto tanto di cosa avviene nel corpo quando fai arte, è scientifico, come quando canti insieme ad altre persone o quando balli. Qualcosa che succede fisicamente nel tuo corpo. Pensa ai monaci che fanno mandala di sabbia e tanti altri processi meticolosi di lavoro manuale che gli esseri umani da sempre fanno per costruire le loro vite, ma anche per essere in comunione con gli altri e con la terra. La pratica creativa è un’antica tecnologia umana e ha un potere curativo, è un fatto.

Mi chiedo però se i musei siano davvero luoghi protetti in cui tutti possono avere un’esperienza di riconciliazione. In questi mesi si parla molto di rappresentazione nei musei e di come alcune culture non si siano mai sentite a casa nei musei occidentali.
L’istituzione non è umana, sono le persone che stanno al suo interno che la rendono più o meno umana. I musei nascono come luoghi di esclusività. Un po’ alla volta sono cambiati, ma dobbiamo entrare in una nuova generazione di leader dei musei per assistere a un vero cambiamento. È necessario un cambiamento generazionale, perché non credo che i bianchi possano vedere se stessi. Non mi fido dei bianchi, non credo siano in grado di identificare la supremazia bianca o capiscano cosa sia la giustizia. In questo periodo sento gente lamentarsi del fatto che ora tutti vogliono solo artisti di colore: chissà quando riusciremo a esporre di nuovo un uomo bianco. Ma quanti maschi bianchi sono stati sulle pareti dei musei per anni? E ora che da qualche mese si è scoperto che persone diverse producono arte, loro si preoccupano di quando riusciranno a esporre un maschio bianco. È un modo di pensare pericoloso, perché questa gente sposta un sacco di soldi e ha tanto potere ma la loro definizione di giustizia è compiacente. Servono una decina di anni durante i quali la faccia dei musei deve cambiare radicalmente.

Questa improvvisa attenzione dei musei per gli artisti neri però potrebbe diventare un’arma a doppio taglio. Pensi che per gli artisti neri occuparsi di questioni nere sia una scelta obbligata se si vuole essere riconosciuti?
Il problema non è nel lavoro o nell’artista. Esistono tanti artisti neri che producono lavori astratti o di altro tipo. Il problema è nel curatore o nell’istituzione, nel loro sguardo e in quello che vedono. Come quando, ad esempio, si fanno mostre con soli artisti neri e l’unico criterio curatoriale che tiene insieme la mostra è il colore degli artisti. Questo significa non confrontarsi con l’artista nella sua totalità di essere umano e quindi non riuscire a entrare nella complessità del linguaggio dell’artista, perché ti basta che sia nero. Ma questo non avviene mai con i bianchi. Non si è mai sentito di una mostra di soli uomini bianchi. Perché loro hanno il diritto di essere complessi? Hanno il diritto di essere un meraviglioso e mostruoso tutto, esseri umani benevoli e geniali. E di loro si parla in tutte le sfumature. La violenza per me vive nell’immaginazione altrui. Il problema quindi è quanto è stretta la porta creata da coloro che hanno potere.

Come vedi il modo in cui il movimento Black Lives Matter ha affrontato la questione della rappresentazione culturale attraverso le istituzioni e i simboli del Paese?
BLM è un regalo a questo Paese. Via via che l’America allenta la resistenza all’assalto a un mito che finora è stato protetto, si accorgerà del dono di umanità dimensionale che vive all’interno del movimento BLM. BLM è un’opportunità per l’America di riconoscere il potere e il processo di resa dei conti. E succederà. Nel movimento BLM c’è libertà, qualcosa che questo Paese dice di rappresentare ma di cui ha paura. Quello di BLM è un dono difficile, ma porta i semi della tenerezza e della grazia. C’è la redenzione, la riconciliazione e la giustizia, e sono tutte le cose che questo Paese dice di essere.

Maurita Cardone

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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