Musei, brand identity e futuro. Intervista al designer Elio Carmi
Le sue competenze vanno dalla progettazione alla brand identity, senza dimenticare i musei – si deve a lui il Museo dei Lumi di Casale Monferrato. Abbiamo chiesto a Elio Carmi di fare il punto sulla sua attività e di fare qualche pronostico sul domani.
L’anno appena trascorso è stato difficile per i musei italiani, con l’alternanza di lunghi periodi di chiusura e timidi spiragli di ripartenza. Al tempo stesso, però, è stato un laboratorio di nuove pratiche, soprattutto digitali, di divulgazione e comunicazione, anche per i “piccoli” sparsi sul territorio nazionale che hanno potuto mantenere la connessione con i propri visitatori abituali e, in alcuni casi, cercare un dialogo con un pubblico geograficamente meno ristretto. Il Museo della Ceramica di Mondovì, per esempio, ha coinvolto nel suo ciclo di Riflessioni anti-pandemia un personaggio poliedrico come Elio Carmi (Casale Monferrato, 1952): designer, esperto di branding, docente universitario e ideatore del Museo dei Lumi di Casale Monferrato.
I “lumi” in questione sono le Chanukkiot, candelabri rituali ebraici a nove bracci, in versione tradizionale e nelle loro rivisitazioni contemporanee realizzate da artisti e designer del calibro di Mimmo Paladino o Ugo Nespolo. Alberto Milazzo, scrittore e social media manager del MOMUC, ha condiviso con Artribune la sua conversazione con Carmi, che spazia tra comunicazione, brand identity, considerazioni sul sistema museale e sugli scenari del contemporaneo.
Elio, nel 2013 per il MOMUC hai curato, insieme alla direttrice Christiana Fissore e a Claudia De Benedetti, la mostra Forme di Luce. Portavi a Mondovì 25 Chanukkiot in ceramica, selezionate fra le 250 del Museo dei Lumi di Casale Monferrato, di cui sei ideatore e animatore. Com’è nato questo dialogo?
È stata la ceramica il veicolo del dialogo. Da una parte Marco Levi, ultimo ebreo di Mondovì, fondatore del Museo della Ceramica e proprietario dell’ultimo stabilimento ceramico di quel distretto. Dall’altra la rispondenza con Casale Monferrato, col suo museo delle Chanukkiot, alcune delle quali in ceramica, la sua identità ebraica. E poi la presenza in entrambi i luoghi di una Sinagoga, di una storia della provincia italiana con elementi di eccellenza. I due musei hanno un territorio comune.
Abbiamo portato fra le altre opere di Mimmo Paladino, Ugo Nespolo, Emanuele Luzzati. In futuro mi piacerebbe riaprire il dialogo con il MOMUC, in particolare sulla figura di Antonio Recalcati.
Un dialogo che hai saputo tessere con realtà molto diverse.
Al momento abbiamo una ventina di nostre opere esposte nel museo ebraico della città di Padova. In passato siamo stati presenti ad esempio al museo ebraico di Amsterdam. I candelabri a nove bracci vengono in genere esposti alle finestre. Sono presenze visibili e invisibili che punteggiano i luoghi.
IL MUSEO DI ELIO CARMI
Com’è nato il tuo museo?
Da un’assenza. Dopo la Shoah, alcuni ebrei tornarono a Casale e trovarono la Sinagoga depredata ma ancora in piedi. Qualcuno offrì dei soldi in cambio del candelabro del tempio di Casale. Era una grande fusione in bronzo dell’Ottocento. Il candelabro fu acquistato per essere portato al tempio ebraico italiano di Gerusalemme, e oggi è spesso esposto al museo di Nahon in Israele. Quell’assenza ha generato dunque la possibilità di continuare. Le nostre Chanukkiot d’arte sono le presenze di quell’assenza. Sono la possibilità di andare verso la modernità, verso l’interpretazione del contemporaneo. La collezione è fatta solo di donazioni, 250 opere che si sono sommate con generosità nel tempo.
Dal segno storico e religioso delle Chanukkiot allo studio del segno. Tu sei un apprezzato designer.
Avevo un nonno che faceva il tipografo e mia mamma si occupava di figurini di moda. Questi retaggi, insieme alla frequentazione con il segno, hanno contribuito a formarmi. Io sono prevalentemente un designer grafico. Ho iniziato negli Anni Settanta, al Centro Studi Arte-Industria di Novara retto da Nino di Salvatore, che aderì al MAC, Movimento Arte Concreta. Nel MAC c’erano Dorfles, Munari e molti altri. Questo segno mi ha contrassegnato. La mia competenza è oggi saper costruire l’identità di marca. Cioè capire il senso di un contenuto, plasmato sulla capacità di essere distintivo e pertinente. È il “processo” che ho imparato a fare e che sta dietro l’elaborazione d’immagini.
Ad esempio nel tuo lavoro per gli Uffizi.
Il mondo cambia. Gli Uffizi sono cambiati. Il ministro Franceschini aprì i bandi a direttori stranieri. Eike Schmidt, persona di grandissimo spessore, prese in mano gli Uffizi e si chiese ‘cosa sono questi luoghi’? Gli Uffizi non erano più solo gli ex Uffici dei Medici, erano diventati un sistema che comprendeva Boboli, Pitti, il Corridoio Vasariano. A me e al mio gruppo è stato chiesto di ripensare l’identità di comunicazione globale. Oggi questi luoghi si chiamano Le Gallerie degli Uffizi. Prima non era così. E poi ci sono gli strati, e cioè come si racconteranno gli Uffizi ai bambini o alle famiglie?
DAL DESIGN AI MUSEI
Quindi tu dici che il percorso del design è un non-finito, deve rimanere aperto a nuove sollecitazioni di senso.
Esatto. Si chiama “responsive”. La capacità di essere responsivamente modificabile. Derrick de Kerckhove, insieme a Erri de Luca, ha coniato la parola “iper-tinenza”. Cioè la capacità di tenere insieme molti contenuti rilevanti anche in un mondo esteso come il nostro. La stessa capacità che, dice de Kerckhove, sta cambiando il nostro cervello, rendendoci abili a fare molte cose insieme, anche grazie alle nuove tecnologie. Vale anche per il segno.
Credi che la musealità in questo senso stia cambiando? C’è più futuro nella mission dei musei, storicamente rivolti alla conservazione e al passato?
Esiste solo il presente dei musei. Sono istituzioni che agiscono nel presente, nel contemporaneo. Certo, puoi assolvere delle funzioni, ad esempio indirizzare il futuro sulla base del passato. Questo non vuol dire che non si debba conservare, tutt’altro. Noi stiamo lavorando alla presentazione della nuova identità di Ercolano. Un luogo orientato al passato ma proiettato nel futuro. Lì si lavora, con le nuove tecnologie, per poter leggere i libri che facevano parte della biblioteca della Villa dei Papiri. Passato e futuro stanno insieme nell’oggi. Io mi occupo di dare identità ai luoghi. Ercolano deve essere diversa da Paestum e da Pompei.
In questo mondo che cambia, il Covid ha impresso un ulteriore cambiamento?
Tu hai pensato a questo progetto, Riflessioni, proprio perché è cambiato il sistema di riferimento. Essere ancora capaci di “correre una relazione”, di metterci in relazione nonostante le distanze enormi coperte dai social, è da un lato un vantaggio, dall’altro però manca di consistenza. Manca cioè della forza di un vero contatto fra esseri umani. Il che apre a continue distrazioni. Ma anche questo può essere un bene, perché è dall’incomprensione che nasce il dialogo. Stiamo imparando, siamo adolescenti rispetto a questi temi.
– Alberto Milazzo
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