Studio visit. Intervista a Stefania Carlotti
Il curatore Saverio Verini incontra qui Stefania Carlotti. Laureata in Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, nel 2019 ha conseguito il Master Visual Art European Art Ensemble presso l’École Cantonale d’Art di Losanna (ECAL), città dove vive.
Le opere di Stefania Carlotti (Carpi, 1994) si collocano in uno strano punto d’incontro tra realtà e finzione. Hanno la concretezza di un modellino architettonico e tradiscono l’impostura della cartapesta; manifestano il piacere per il dettaglio e la sfocatura del ricordo; esibiscono la familiarità di oggetti d’uso quotidiano e il carattere weird di qualcosa che si trova irriducibilmente fuori contesto. Soprattutto, sono percorse da una strana atmosfera, che prefigura un collasso avvenuto o imminente: un’atmosfera onirica che può mutare improvvisamente in visione inquietante, se non addirittura in incubo.
Osservando la sua produzione più recente, si direbbe che è attratta dalle ricostruzioni di ambienti e oggetti, plasmati alla maniera di set cinematografici in miniatura. Mi piace pensare che le eventuali pellicole girate al loro interno possano somigliare a un film d’exploitation, un po’ western all’italiana e un po’ Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez. Ma al di là degli accostamenti cinematografici, le opere di Carlotti somigliano alla materializzazione di qualcosa di difficilmente esprimibile a parole, capace di tenere insieme vitalità e nostalgia, stati di agitazione e languore, cinismo e tenerezza.
Cominciamo dalle maquette, in particolare quelle dei bar, che mi sembrano una tua ossessione. L’apparenza tutto sommato familiare di questi luoghi è contraddetta dal colore grondante e vischioso che ricopre i modellini in cartapesta, oltre che dal gran casino all’interno, come se si fosse consumata una rissa o la furia degli elementi avesse investito lo spazio. Anche l’inclinazione dei piedistalli e dei supporti tradisce una certa instabilità. Come nascono queste architetture così strambe?
Le maquette partono dalle immagini dei luoghi che frequento abitualmente, da ricordi personali e stereotipi. La memoria ha un ruolo essenziale. Uso un colore che ho visto da qualche parte e che si imprime nei miei ricordi, ricoprendo ogni cosa. Lo stesso con la cartapesta: trovo sia il materiale “finto” per eccellenza, lo utilizzo come una patina che riveste l’ambiente.
Ma perché proprio i bar?
Da un po’ di tempo il bar, luogo d’incontro ed evasione legato al fine-giornata, è al centro della mia attenzione. Spesso le mie maquette sono locali dagli interni abbandonati e sottosopra, sorretti da supporti storti e instabili, ubriachi. Mi piace pensarle come ambienti congelati nel tempo dopo un evento sconvolgente, o come possibili set per eventi futuri. Trovo davvero pertinente l’accostamento ai film d’exploitation: adoro Dal tramonto all’alba! Penso che sia proprio il loro essere “sottogeneri” a renderli incredibilmente interessanti, svincolandoli dall’aspettativa generale per concedergli maggiore libertà d’espressione.
LE TECNICHE DI STEFANIA CARLOTTI
Effettivamente si tratta di pellicole dal budget ridotto. Mi sembra che anche nei tuoi lavori ci sia una specie di economia di mezzi, che corrisponde a una dichiarazione di poetica: penso all’utilizzo di un materiale povero come la cartapesta, ma anche alle dimensioni contenute.
I miei lavori hanno spesso un’estetica low-tech e artigianale. Sono oggetti di piccola scala, simili alle cianfrusaglie che si possono trovare nei negozi dell’usato, sculture dall’aria consumata, video con effetti semplici che evidenziano la finzione al loro interno, animazioni dalle atmosfere infantili. In Untitled (work in progress), per esempio, ho photoshoppato le mie ceramiche inserendo sullo sfondo le esplosioni del finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. In questa serie di fotomontaggi, le dimensioni degli oggetti e la loro materialità sono ambigue. Sono stati davanti alla macchina fotografica o esistono solo come immagini generate dal computer? Queste ceramiche non sono mai state realmente mostrate, e probabilmente non lo saranno mai, chissà.
Ho come l’impressione che i tuoi lavori nascano in contesti domestici.
Finora la mia camera è stata il mio studio, e ciò ha influito sulla realizzazione delle opere. A volte mi appoggiavo ad atelier delle scuole che frequentavo o di amici; l’anno scorso, invece, anche se solo per otto mesi, ho avuto la possibilità di avere uno studio da CASTRO, a Roma. Adesso ho un atelier in una vecchia fabbrica elettrica, grazie a SCALA (Société Coopérative d’Artistes ‒ Lausanne et Alentours), cooperativa della quale faccio parte, nata nel 2020 con l’obiettivo di localizzare spazi inutilizzati e riconvertirli in studi.
Ora vivi appunto a Losanna, dove hai frequentato la scuola d’arte ECAL. Trovo che nella tua poetica coesistano una dimensione “di provincia” (i piccoli bar che rappresenti, ma anche le minuscole sculture in ceramica) e una più internazionale (penso a una certa estetica lo-fi e vagamente distopica). Un piede in Emilia, dove sei nata, e l’altro nell’“aggiornatissima” Svizzera.
La dimensione “di provincia” di cui parli mi ha sempre affascinata e spaventata allo stesso tempo. A dire la verità, penso che Losanna abbia addirittura meno abitanti di Modena! Sicuramente il continuo passaggio di artisti e designer, alimentato anche da una “diaspora italiana”, mantiene la città viva. L’ECAL, riconosciuta soprattutto per la grafica e il design, ha lasciato una grande impronta sul rigetto che ho per l’eccesso di rigore e precisione: una presa di distanza da un universo che non mi apparteneva e che in seguito ho trasformato in un punto di riferimento, distorcendolo ed enfatizzandone il carattere inquietante.
LE OPERE DI CARLOTTI
Sculture in cartapesta e ceramica, installazioni, immagini digitali: mi sembri decisamente eclettica, come spinta da un nomadismo che ti porta da un medium all’altro. Anche nella produzione video ritrovo quella combinazione di cinismo e ironia che caratterizza le altre opere.
L’animazione è un mezzo decisamente appropriato per esprimere questa combinazione di cui parli. Uno dei miei ultimi lavori è They said they were hot stuff and that’s what they have been reduced to, un video di un’ora, in loop. Sullo sfondo, un camino simulato arde incessantemente. Di tanto in tanto appare il disegno animato di un braccio che alimenta il fuoco gettando una ciambella, una scarpa, un ferro da stiro e ancora altri oggetti. LIES LIES LIES è invece il primo episodio di una serie di animazioni che vede protagonisti i prodotti del marchio svizzero low-budget Prix Garantie. I disegni dei prodotti sono gli abitanti di questo mondo immaginario e per sopravvivere devono seguire una sola regola: non smettere mai di sorridere. Ciò porterà a tragiche conseguenze. Tutti i personaggi delle mie animazioni sono mossi da un’inerzia o da una forza inspiegabile, costretti in un loop a cui non possono sfuggire.
Hai un progetto non realizzato che vorresti prendesse forma?
Ne ho un’infinità. Uno di questi è un cortometraggio in collaborazione con Alessandro Polo e Marco Rigoni. La storia è già delineata: decisamente apocalittica, vedrà un susseguirsi di incendi distruttivi e salti nel tempo, tra passati psichedelici e futuri liquidi. I protagonisti saranno cumuli di oggetti di scarto. Il cortometraggio sarà girato in timelapse e con riprese in soggettiva. Non ci saranno dialoghi.
‒ Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #59-60
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