Arte e cibo. Intervista a Inês Neto dos Santos

Materia tra le più comuni e quotidiane, il cibo è protagonista della nuova rubrica dedicata agli artisti che hanno trovato negli alimenti il loro medium. La prima a prendere la parola è l’artista portoghese Inês Neto dos Santos, la cui ricerca si ispira alla fermentazione.

L’artista portoghese Inês Neto dos Santos (Lisbona, 1992) si è distinta nella sua ricerca artistica attraverso l’uso del cibo. Tra workshop, installazioni tutte da gustare e oggetti da attivare insieme al pubblico, crea “spazi culinari” dove affrontare urgenti tematiche in maniera conviviale.
La fermentazione, protagonista assoluta, diviene metafora per criticare la società patriarcale e il modo in cui questa ha scritto la storia della natura, dimostrando quanto l’esistenza umana e quella naturale siano interdipendenti. Le creazioni dell’artista hanno un’estetica molto forte: colori vivaci, profumi intensi e sapori imprevedibili che, tra una kombucha di rose e un burro fumé alla salvia, celano una critica socio-politica che si fa strada pian piano in chi osserva.

INTERVISTA A INÊS NETO DOS SANTOS

Come hai iniziato a usare la fermentazione?
In realtà per praticità, volevo conservare il cibo che avanzava dalle mie performance/installazioni. Ora è fondamentale la longevità che la fermentazione dà alle mie opere, spesso effimere: è divenuta il filo comune che rende persistente l’effimero, dandomi modo di trovare una continuità a tutti i progetti a cui do vita.

Il tuo uso della fermentazione va ben oltre una pratica culinaria. Cos’è per te?
È una metafora molto poetica del mondo. Avviene grazie alla collaborazione simbiotica di più microorganismi, tra loro e con l’ambiente, compresi noi! Questi esistono ovunque, sugli alimenti, nel nostro corpo, nell’aria… Siamo fatti da dieci volte più cellule batteriche che umane. Guardare i cibi cambiare colore, sapore, odore grazie all’interazione di più organismi fa subito capire che esistiamo in simbiosi con la natura e non in dominio su essa, non siamo autosufficienti.

In quest’idea di una natura dominata dall’uomo si può parlare di eco-femminismo?
Mi ci sono avvicinata leggendo Timothy Morton, che esorta a superare la visione fallocentrica e colonizzante di una natura esterna a noi, dominata dall’uomo, per considerarla, invece, come qualcosa dove tutti viviamo in continua connessione.

Inês Neto dos Santos, Walk&Talk, 2019. Photo Mariana Lopes

Inês Neto dos Santos, Walk&Talk, 2019. Photo Mariana Lopes

CIBO E CONVIVIALITÀ

La fermentazione può aiutare a opporsi a questo sistema?
Sì. È una pratica antichissima, integrata nelle culture di tutto il mondo da sempre. È un sapere accessibile a chiunque, tramandato nel tempo e nello spazio quasi inconsapevolmente. Non può essere colonizzata o commercializzata, per quanto ci si provi. Non esiste un custode unico di questo sapere.

Nei tuoi lavori la critica resta velata. Quello che colpisce è la bellezza dei colori e il clima conviviale più che la disamina negativa della società. Perché?
Lavorando con il cibo è impossibile non vedere quanto il sistema alimentare sia dominato da soprusi e sfruttamento a beneficio solo di una minima parte di popolazione. Con le mie opere invito ad agire, ma lo faccio attraverso la metafora, introducendo argomenti ostici in uno spazio familiare, pacifico. Se lo spettatore trova poesia e bellezza, piuttosto che rabbia, diventa più facilmente empatico.

Quindi il cibo facilita il dialogo su temi altrimenti difficili da affrontare?
Con l’artista Nora Silva diciamo sempre che il luogo migliore per parlare di politica è il desco, rende ogni cosa meno intimidatoria. Insegnando la fermentazione, pian piano si forma l’idea che, riutilizzando gli sprechi e facendo in casa ciò che è fatto dalle industrie e di cui vediamo solo il prodotto finale, possiamo contrastare il sistema patriarcale-capitalista che ci governa.

Inês Neto dos Santos, Sacred Elements. Photo Carlotta Marangone

Inês Neto dos Santos, Sacred Elements. Photo Carlotta Marangone

EMANCIPAZIONE E CIBO

Spesso parli del cibo in termini di emancipazione. Come funziona nella tua arte? 
Ho fatto del cibo il mio medium per offrire a chiunque uno spazio nell’arte, come con il progetto Tender Touches dove, trasformando una galleria in un bar d’artisti, abbiamo accolto un pubblico diversificato e vasto. Tutti ci riconosciamo in una cultura gastronomica; il cibo è talmente comune da rendere inclusivo anche il mondo ermetico ed elitario dell’arte. Avvalersi del cibo nell’arte è un’enorme fonte di empowerment!

È un’emancipazione per il pubblico più che per te, quindi?
Sì! Ovvio che ha anche offerto tanto a me, facendomi entrare in connessione con l’ambiente, vedere ciò che la globalizzazione nasconde. Con il mio lavoro dono queste conoscenze agli altri, rendo la catena alimentare trasparente spronando le persone ad agire in modo conscio e sostenibile. Con la fermentazione creo una nuova consapevolezza del cibo che sia poi riutilizzabile.

Il tuo ultimo progetto, una giacca ricoperta da un collage di pasta madre essiccata, ti vede lavorare sola nel tuo studio, non in un ambiente di condivisione. Cosa implica tale approccio?
Il lockdown mi ha forzata a lavorare così, ma ho comunque mantenuto un legame con l’ambiente e chi ci abita con questa giacca-madre che è un oggetto da toccare, annusare; un oggetto che parla di comunità, migrazione, resilienza.

Come si sviluppano queste idee nell’opera?
Stavo leggendo delle storie di migranti dell’Europa dell’Est che, nella fuga dalle loro nazioni, portavano un panno con dentro della pasta madre essiccata. È commovente, soprattutto nel clima attuale d’inasprimento delle misure ai confini, Brexit, lockdown… Questa gente portava con sé ciò che all’apparenza era un comune pezzo di stoffa, nessuno l’avrebbe confiscato, ma che rappresentava un’intera cultura, un ricordo, la storia. La giacca che sto cucendo è ricoperta di toppe su cui ho fatto seccare del lievito madre, che così può durare in eterno. Questa pezza di cotone simboleggia, dunque, vita, nutrimento, storia.

Irene Machetti

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