Il mio Afghanistan dieci anni fa e oggi. Parla Carolyn Christov-Bakargiev
dOCUMENTA (13) da Kassel a Kabul. La scoperta della città grazie ad Alighiero Boetti. La situazione attuale. Le riflessioni sul fallimento dell'Occidente in Afghanistan. La grande critica e curatrice italo-americana a tutto campo.
Si attenua, purtroppo, l’intensità dei riflettori sulla situazione afghana. Mentre procede la “normalizzazione” talebana e la creazione di un nuovo ordine, abbiamo chiesto alcune riflessioni a Carolyn Christov-Bakargiev, la grande curatrice e critica occidentale che più di tutti gli altri ha conoscenza e sensibilità sullo scenario. A partire da dieci anni fa, quando trasformò la Documenta di Kassel in una mostra in due sedi, aggiungendo anche Kabul.
Com’è nata l’idea di lavorare con e in Afghanistan dieci anni fa durante la Documenta? Da cosa germina il tuo rapporto con quel Paese?
Nel 2009, allorché cominciai a lavorare al grande progetto della dOCUMENTA (13), mi venne in mente di raccogliere la mostra intorno a quattro assi principali, non formali o di contenuto o di materiali, ma attorno alle quattro posizioni dalle quali di solito gli artisti si trovano a esprimersi.
Quali sono queste quattro posizioni?
Cosa fa un artista quando si trova nella posizione di spettacolarizzazione del lavoro, on stage, sul palcoscenico? Questa posizione rifletteva la mostra di Kassel. Cosa fa un artista che si sente on retreat, in ritiro, e questa è diventata la mostra a Banff in Canada, un luogo con più orsi che esseri umani. Cosa fa un artista quando è in uno stato di speranza, in a state of hope, e questa è stata la mostra al Cairo e ad Alessandria in Egitto, visto ciò che accadeva allora nel mondo arabo con la Primavera Araba. E infine: cosa fa un artista quando è in stato di assedio? Mi è sembrato un tema perfetto da abbinare a una mostra in Afghanistan, a Kabul principalmente, ma anche a Bamiyan, dove i Buddha erano stati distrutti nel 2001. In un senso strutturale, l’Afghanistan era questo stato di assedio, ma in realtà riuniva in sé le altre tre posizioni: è lontano dai centri dell’arte mondiale, quindi è on retreat; era in uno state of hope, perché vent’anni fa si stava costruendo una nuova società dopo il periodo talebano; ed era anche il palcoscenico del mondo – bastava che cadesse uno spillo a Kabul e finiva sulla CNN.
L’AFGHANISTAN DI CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV
Ci sono altri motivi che ti hanno spinto a scegliere Kabul?
Almeno altri due. In primo luogo, io sono una “esperta” di Arte Povera e sono stata molto amica di Alighiero Boetti, e Alighiero mi aveva parlato tante volte di Kabul, del suo One Hotel, del rapporto con quella parte del mondo che poi ha influito molto sul suo valorizzare ciò che prima era criticato da parte dell’arte concettuale, cioè la decorazione, la ricchezza dei colori, del ricamo… – questi elementi, che erano stati messi da parte dall’arte contemporanea in Europa, avevano cambiato il suo modo di fare arte. Boetti ha abbracciato questa idea della diversità. C’erano quindi l’amore e la dedizione per l’Arte Povera e Alighiero Boetti – passione che fra l’altro condividevo con l’artista Mario García Torres, che da poco aveva fatto un lavoro per la sua mostra al Reina Sofía, nel quale aveva simulato una ricerca del One Hotel attraverso uno scambio di fax, una forma d’arte che richiamava le opere di mail art di Boetti. Quindi ho detto a Mario: “Andiamo a cercare il One Hotel, andiamo a Kabul”, e l’abbiamo trovato, abbiamo affittato l’edificio e attivato un nuovo centro per l’arte nel 2011-12.
Qual è stata la vostra attività a Kabul?
Abbiamo allestito mostre nel parco Bagh-e Babur, al Queen’s Palace, nel Museo Nazionale d’Arte, in vecchi cinema bombardati… Abbiamo collaborato con le istituzioni che allora stavano nascendo, tra le quali il CCAA – Centre for Contemporary Art Afghanistan.
Resta da spiegare l’ultimo motivo per il quale hai scelto l’Afghanistan.
L’ultima, o forse la prima ragione, deriva dal fatto che io penso sempre in maniera archeologica – mia mamma era un’archeologa – e guardando Kassel nel 2009 non ti spieghi perché proprio lì si debba fare una grande mostra d’arte contemporanea. Si capisce solo scavando nella storia della Documenta: siamo a sessanta chilometri da dov’era il confine con la Germania Est, in una città fortemente bombardata dagli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, visto che era un centro di produzione militare importante per i nazisti. Documenta era nata per volontà di Arnold Bode, che sin dal 1948 sosteneva bisognasse fare qualcosa come la Biennale di Venezia. La prima edizione, curata proprio da Bode, si tenne nel 1955. Io volevo trovare un luogo che fosse simile alla Kassel del 1945-48, un luogo occupato dai suoi liberatori – un paradosso! –, che deve ricostruirsi come nazione, conoscendo l’estremismo al quale può portare il nazionalismo o la religione e le conseguenze anche drammatiche che genera: i nazisti in Germania, i talebani in Afghanistan.
Solo che adesso i talebani sono tornati…
È una vergogna dell’Occidente: andare a liberare un Paese e poi lasciarlo senza aver creato una condizione stabile è quanto di peggio si possa fare. Andare a Kabul per la Documenta era un po’ come entrare nella mostra di Kassel nel 1955. Si sovrapponevano periodi storici e luoghi diversi, entrambi caratterizzati da un trauma, dalla guerra e dalla ricostruzione dopo un collasso. Sono particolarmente interessata alle capacità curative dell’arte, vengo da Melanie Klein e dall’idea dell’arte come reparation e come healing, e nella mostra a Kabul molti artisti, sia occidentali che afghani, hanno lavorato su questa convinzione.
AFGHANISTAN IERI E OGGI
Quante volte sei andata, anche con Andrea Viliani, in Afghanistan?
Tante, davvero tante! Già nel 2009 ho cominciato a pensare a questa seconda venue, che aveva un corrispettivo a Kassel, in un edificio dietro il Fridericianum dove esponevano 26 artisti afghani. Non si trattava quindi soltanto di portare artisti noti e internazionali in Afghanistan, ma anche di portare artisti afghani o della diaspora afghana a Kassel. Dal punto di vista della politica culturale c’era un equilibrio totale, con grande attenzione a non importare dall’alto un’operazione per l’appunto culturale.
Torniamo ai tuoi viaggi in Afghanistan.
Il primo approccio è stato grazie all’Aga Khan Foundation, istituzione che supporta la ricostruzione soprattutto di architetture nei Paesi islamici. Li ho contattati attraverso la loro sede in Svizzera e mi hanno sostenuta nel mio viaggio di ricerca. Andrea Viliani era il responsabile della sezione afghana della Documenta e ha trascorso molti mesi lì nel 2012: è stato bravissimo! Nei due anni precedenti io ho viaggiato con l’antropologo Michael Taussig, con Mariam Ghani, Francis Alÿs e tanti altri artisti. Non era ancora chiaro se avremmo fatto una mostra in Afghanistan, ma intanto abbiamo visitato tutti i centri culturali, l’università, il teatro, la Afghan Film (ti ricordi le immagini dei talebani che bruciavano le pellicole? Erano i positivi, mentre i negativi erano stati murati in una stanza e quindi si sono salvati!) e poi la Scuola di Miniatura a Herat e, durante uno dei viaggi, siamo andati nella valle di Bamiyan, ho voluto vedere i laghi di Band-e-Amir – dove Alighiero Boetti aveva chiesto che fossero disperse le sue ceneri – e i monti dell’Hindu Kush. Tieni conto poi che Andrea Bruno, l’architetto del Castello di Rivoli, per molti anni aveva studiato i Buddha di Bamiyan, realizzando delle canalizzazioni affinché l’acqua non li rovinasse, gli stessi Buddha che i talebani hanno distrutto nel marzo del 2001. Tornando alla tua domanda: a un certo punto trascorrevo metà del tempo a Kabul e l’altra metà a Kassel, due luoghi remoti dai centri dell’arte contemporanea – ma viaggiavo anche nel resto del mondo per invitare gli artisti alla Documenta.
Com’era la situazione? Che momento politico era?
Quando sono stata a Kabul la prima volta, nel 2010, per cercare il One Hotel di Boetti e in preparazione della Documenta, la situazione era abbastanza ottimista. Certo, c’erano le truppe degli eserciti che avevano liberato l’Afghanistan dai talebani, ma dopo il 2001 il Paese stava rinascendo dal punto di vista delle istituzioni. Era un Paese islamico, ma non era governato dalla legge della shari’a. L’esperimento consisteva nel capire se l’arte e l’internazionalizzazione dell’arte potessero avere un effetto benefico a livello di cura di una società che aveva vissuto guerre civili pazzesche negli Anni Novanta e poi la “pace” sotto la dittatura dei talebani. Nel 2010 ho trovato un Paese pieno di ottimismo e di buona volontà. Il fatto che il mio fosse un viaggio non tedesco ma organizzato dall’Aga Khan Foundation, che si occupa di cultura islamica, era il modo migliore per costruire un rapporto. Non fu facile convincere il Ministero degli Esteri tedesco e soprattutto il Goethe Institut. A Bangkok ci fu una riunione di tutti i direttori dei Goethe dell’Asia, mi chiesero una relazione e spiegai il rapporto con l’Italia e con Boetti, quello fra arte e trauma, arte e guerra, arte e ricostruzione post-bellica. Evidentemente superai la prova, perché mi fu dato un grant dal Ministero degli Esteri tedesco per realizzare questa sezione della Documenta a Kabul.
I RICORDI DI CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV
Quali momenti ricordi di più?
Quella con l’Afghan Film fu un’esperienza pazzesca! Uno dei nostri progetti fu il restauro delle macchine per fare gli internegativi, facendo lavorare insieme gli anziani che sapevano gestire la pellicola – erano soprattutto persone che avevano studiato a Budapest, nell’orbita russa, durante l’occupazione sovietica – con i giovani che, proprio per il fatto di essere al centro del mondo a causa della guerra, avevano a disposizione le più avanzate tecnologie video e facevano le commission per i grandi network televisivi americani ed europei. Il workshop per salvare Afghan Film, anche digitalizzando e uploadando molti materiali, l’abbiamo fatto insieme a Camp e Padma, un collettivo di artisti di Bombay – questo è uno dei momenti che ricordo di più. Sono successe tante cose… Ricordo l’incontro con un gruppo di donne scrittrici organizzato dall’ufficio culturale americano; ho invitato Jérôme Bel, in collaborazione con il Centre Culturel Français, e in quel periodo ci fu un attacco talebano, e io scrivevo di notte delle mail a Jérôme dalla Germania… Ricordo i momenti di difficoltà, ma Andrea Viliani gestiva bene la situazione e abbiamo sempre trovato una soluzione ai problemi che si presentavano. Con gli italiani abbiamo lavorato benissimo, ad esempio con l’Ambasciata e con la Difesa: invece di occuparsi di guerra, si sono occupati di questioni culturali!
Raccontaci di più su questo “intervento” italiano.
Dalla valle di Bamiyan, quella della minoranza sciita hazāra, hanno prelevato delle pietre, le stesse con le quali nel VI secolo sono stati realizzati i Buddha. Michael Rakowitz voleva farle lavorare dagli artigiani del nord Italia. Grazie all’aiuto del collezionista Josef Dalle Nogare, le pietre sono state depositate sulle Dolomiti e lavorate per riprodurre in pietra i libri che erano bruciati nel grande incendio della biblioteca di Kassel nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale. In questo modo, attraverso un’opera d’arte, Rakowitz ha collegato la distruzione della cultura in Europa alla distruzione della cultura in Asia. E poi all’incontrario…
… c’è anche un viaggio di ritorno?
Giuseppe Penone ha donato una scultura, un albero di marmo, con le venature scavate in maniera tale da sembrare canali linfatici che stanno all’esterno anziché all’interno. Questo cilindro è appoggiato su un albero vero nell’ultima terrazza del Bagh-e Babur. La scultura si trova ancora lì, immagino abbastanza sola; siccome è un’opera astratta, non vedo la ragione per la quale debba essere danneggiata da chicchessia. Non credo che i talebani danneggeranno un’opera d’arte astratta che celebra il rapporto tra l’umano e la natura. Non vedo l’ora di tornare, un giorno, a vedere come l’albero sarà cresciuto attorno al marmo. Insomma, furono gli italiani delle Forze Armate a portare l’albero di Penone a Kabul, perché non esistevano trasportatori “normali” da e per l’Afghanistan.
La situazione in città allora era tranquilla?
Gli attacchi talebani erano sempre possibili. Bisognava stare all’erta e seguire gli ordini impartiti dalle autorità. Io stavo dentro il Serena Hotel, che è nella piazza centrale di Kabul, e uscivo solo in maniera organizzata con l’Aga Khan Foundation, che era a sua volta in contatto con le autorità locali. Era una normalità anormale, con i cartelli nei locali che invitavano a lasciare le armi all’ingresso… Una volta o due sono uscita con il burqa, per girare da sola, più libera perché irriconoscibile.
GLI ARTISTI IN AFGHANISTAN
Che idea ti sei fatta della situazione attuale, alla luce di quell’esperienza e delle notizie che provengono in queste settimane?
Credo che la situazione sia drammatica. Mi auguro che i talebani di adesso non siano i talebani di allora, però la vedo abbastanza negativamente. Penso alle tantissime giovani artiste che nel 2012 erano ancora studentesse. A parte Zainab Haidary, che allora andò in Germania e che è rimasta là, in Afghanistan è rimasta ad esempio, a quanto so, Shamsia Hassani, che per la Documenta fece un workshop sull’arte dei graffiti. Bisogna occuparsi di tutte queste artiste, come Fatimah Hossaini [che nel frattempo è riuscita a fuggire a Parigi, N.d.R.], una generazione che è nata artisticamente dopo la Documenta, anche grazie ai workshop fatti insieme agli artisti della diaspora afghana, che per l’occasione erano tornati a Kabul.
Quali erano e quali sono gli artisti afghani che hanno dimostrato maggiore sensibilità nel raccontare e analizzare ciò che succedeva e succede nel Paese?
Prima della Documenta era già abbastanza nota Lida Abdul, che nel 2012 ha esposto sia a Kassel che a Kabul. Lei è molto sensibile nell’esporre questi drammi. Un’altra grande artista è Mariam Ghani; è una videomaker e all’epoca mi ha aiutato moltissimo e in questi giorni ha lavorato tanto per far uscire gli artisti dal Paese. Ed è la cosa più importante da fare, perché una cultura è tanto più civile quanto più difende i suoi artisti. Nel nostro mondo occidentale, spesso si sottovaluta l’importanza degli artisti, invece in Afghanistan i talebani conoscono benissimo quanto sia rilevante la rappresentazione, l’immagine, e quindi per gli artisti la situazione è pericolosissima. In questi ultimi dieci anni abbiamo fatto crescere decine di artisti, ora non possiamo abbandonarli. Mohsen Taasha era un ragazzino durante la Documenta, ora è un pittore riconosciuto e fortunatamente è riuscito a scappare in Francia pochi giorni prima dell’arrivo dei talebani a Kabul. Ma tanti altri sono rimasti bloccati e si sta tentando di farli uscire dal Paese, non so se usare il passato o il futuro…
Tornando alla prima fase della dittatura talebana, chi erano gli artisti attivi nel Paese?
Un artista che vorrei citare è Yousef Assefi. Lavorava alla National Gallery of Art e durante il primo periodo talebano portava a restaurare i dipinti con le figure di animali o di esseri umani e li copriva con l’acquerello. Così li riposizionava ed erano… paesaggi! In questo modo ha salvato centinaia di quadri dell’Ottocento e del Novecento. Non so se sia riuscito ad abbandonare il Paese, me lo auguro, perché ha ingannato il primo governo talebano. È quello che qui chiameremmo un activist artist. Nel Brain della Documenta avevo esposto un suo piccolo dipinto. Tra i più grandi artisti afghani c’è Khadim Ali, che ho presentato alla Documenta e che ora fa mostre in tutto il mondo. Più che raccontare, lui crea oggetti che contengono quel trauma, cioè essere oggi un Paese per certi versi arretrato a causa di decadi di guerra, con un vago ricordo di anni abbastanza vitali e vivaci – negli Anni Settanta, quando ci andava Alighiero, era sulla happy route; ma anche negli Anni Cinquanta o durante il periodo sovietico. Il Paese è crollato nella povertà ma nel passato era un centro culturalmente alto: la miniatura persiana è nata a Herat – Herat è Afghanistan! Quindi è sconcertante che la nostra contemporaneità, che il nostro mondo così avanzato e digitale, abbia questa macchia addosso che è l’Afghanistan. E non se ne vede la fine.
Ritieni che la reazione dei grandi artisti, dei grandi direttori di museo, dei grandi critici sia idonea rispetto alla crisi?
La reazione è sostanzialmente assente, ed è un peccato. Non so perché. I musei al momento sono molto deboli. Stanno vivendo un periodo di grande difficoltà economica. Questa debolezza porta a essere cauti, per non perdere quel poco che resta. C’è una tale paura che porta a non fare niente, in generale. Per quanto riguarda gli artisti, privatamente ne ho sentiti tantissimi che sono devastati per la situazione e chiedono come fare per essere d’aiuto. La mia opinione è che dare troppa visibilità a chi è rimasto in Afghanistan possa costituire un danno. Bisogna farli uscire dal Paese. Il nostro compito è salvare gli scrittori, i musicisti, soprattutto gli artisti figurativi, i filmmaker, i fotografi… Occorre fare pressione sui nostri politici per convincerli a trovare delle vie diplomatiche, magari attraverso quei Paesi che sono in rapporti almeno accettabili con i talebani, affinché si creino dei safe passage, in modo che possano uscire in maniera discreta dal Paese. Questo è il momento della protezione. Poi verrà il momento per tornare. Io sono sempre stata ottimista, penso che i talebani di oggi si rendano conto che non possono essere come quelli del 1996. Ma fino a un certo punto. Non sono totalmente una relativista culturale, non penso che vada tutto bene solo perché è una cultura diversa. E non è una questione religiosa: ci sono decine di Paesi in cui l’Islam dimostra di essere generoso e dolce. Quindi ripeto: ora è il momento di far espatriare gli artisti, coloro che celebrano la fioritura della vita.
‒ Carolyn Christov-Bakargiev
https://www.documenta.de/en/retrospective/documenta_13
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #62
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