Gli artisti e la ceramica. Intervista a Diego Cibelli
Nuovo capitolo della rubrica dedicata al legame tra gli artisti e la ceramica. Stavolta a prendere la parola è Diego Cibelli, protagonista della mostra allestita al Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Diego Cibelli (Napoli, 1987), formatosi tra Napoli e Berlino, da diversi anni lavora alla valorizzazione del periferico e del marginale, con un focus sulla ceramica e la porcellana. Lo abbiamo incontrato per capire come il materiale si adatti alla sua ricerca dell’elemento quotidiano e minore.
Ti muovi spesso tra arte e design. Come si adatta la ceramica ai tuoi progetti in questi due campi?
La mia ricerca segue i significati e le forme dell’abitare e osserva gli strumenti che l’uomo crea per narrare la relazione con i luoghi che attraversa. Vorrei esplorare il modo in cui le persone possono creare una connessione con il paesaggio che le circonda e come questa connessione ispiri il flusso della storia. La bellezza ha una grande capacità di memorizzare il flusso della storia. La bellezza è un’energia che sopravvive grazie alla sua capacità di assorbire memoria e archivio. Nelle bellezze si conservano tutti i tentativi che effettuiamo per trovare una posizione nel mondo terreno e in quello spirituale.
Come si inscrive il tuo percorso in tutto ciò?
Dopo la mia formazione all’Accademia di Belle Arti di Berlino, ho scelto di continuare i miei studi nel design. Ho iniziato questo percorso a Napoli e ho scelto la ceramica e la porcellana principalmente per un motivo: la ceramica come materia ha una dimensione geografica, è possibile risalire al luogo in cui è stata realizzata e prodotta. Questa ‘testimonianza’ ha per me un grande valore perché la dimensione geografica della materia rappresenta, con le sue applicazioni e oggetti, un racconto lungo e antico tra uomo e ambiente. La ceramica è un materiale antico ma assolutamente sperimentale e contemporaneo, come i nostri corpi. La terra è capace di dare agli oggetti un valore antropologico e narrativo, grazie a questi prodotti possiamo rendere lo spazio vissuto come un filtro in grado di riconnetterci con la storia, con i frammenti, i significati e le memorie del quotidiano. La nobiltà di questa materia sta in questa sua capacità di assorbire tutto questo e, nelle mie collezioni, cerco di approfondire questo valore.
Cosa in particolare?
Mi hanno sempre affascinato i vari significati che si nascondono dietro a un oggetto. Gli oggetti sono forme di testimonianza, una metafora del percorso dell’uomo: ricorrendo a essi si cerca di dare ordine, significato e soprattutto di trovare una compagnia. Gli oggetti hanno sempre significati che li sottendono, basti pensare alle frecce preistoriche su cui venivano incisi alcuni simboli, in cui si chiedeva perdono per quell’atto di brutalità con cui l’uomo uccideva gli animali.
Perché hai studiato design?
Perché pensavo che potesse darmi un metodo per la mia ricerca. L’Accademia e il liceo artistico danno la possibilità di spaziare tantissimo dal punto di vista delle tecniche, però per me è importante avere un metodo.
DIEGO CIBELLI, LA CERAMICA E IL DESIGN
La tua formazione è avvenuta tra Napoli e Berlino. Come sono entrate queste due città all’interno della tua ricerca?
Il mio primo tentativo di utilizzare le ceramica risale a quando ho iniziato a considerare come l’elemento installativo ‒ attraverso la produzione di una serie di oggetti ‒ potesse essere un dispositivo in grado di comunicare visioni alternative dell’abitare contemporaneo. Mi sono chiesto come la ceramica, in quanto terra, potesse guidarmi in tale ricerca e come rintracciare, grazie alla sua dimensione materica, quelle visoni e quei progetti in cui l’abitare è stato declinato e considerato nella sua dimensione antropica e culturale. Da qui ho iniziato a osservare come la ceramica è rientrata in alcune costruzioni delle abitazioni del Novecento e della post modernità.
Ovvero?
Le case del Novecento sono costruite attraverso diaframmi, aperture e squarci, alla ricerca di un costante dialogo tra interno ed esterno, e sulla presenza di una contaminazione tra elementi artificiali e naturali lasciati liberi di entrare nella domesticità, comportandosi alla stregua di elementi di arredo. Mi sono interessato all’abitare del Novecento perché di fondo è caratterizzato da questa trasparenza, ma poi di fatto la cultura del razionalismo introduce dei conflitti e delle dicotomie fra tradizione e innovazione tecnologica, tra artificio e natura, tra le parti pubbliche e quelle private. Sarà nella post modernità che verrà effettuata una ricerca su come ibridare le parti. Nella post modernità entrano in gioco due fattori determinati: l’emergenza della questione ambientale e l’esplosione delle nuove tecnologie telematiche e informatiche.
E quali effetti generano?
L’emergenza della questione ambientale introduce una ricerca di compatibilità con l’ecosistema, sperimentando nuove strategie di integrazione e coevoluzione. E l’avvento della società telematica riconfigura le possibili relazioni tra chiusura e apertura dello spazio. Come sostiene Andrea Branzi, nella post modernità l’ambiente viene rifondato dall’interno. All’interno di questo processo evolutivo accade che oggetti e spazi ‒ i principali riferimenti abitativi ‒ vedono invertito il loro ruolo, per cui i primi acquistano una profondità e un’ampiezza tale da accogliere nel tempo l’intera esistenza emotiva dei loro possessori, mentre l’ambiente domestico diviene sempre più scomponibile e ricomponibile a seconda dell’uso, delle esperienze e delle persone con cui interagisce.
Come è arrivata la decisione di tornare in Italia?
Mi sono reso conto che la parte più piccola dell’abitare, che è l’oggetto, può nel migliore dei modi raccontare la dimensione antropologica, culturale ed evolutiva dell’abitare. In me è maturata la volontà di partire dagli oggetti per poter costruire e aprire visioni sull’abitare, sulla storia e sulle relazioni. Per poter realizzare tutto ciò, cioè considerare e affidare al prodotto questa missione, ho deciso di continuare i miei studi In Italia e non a Berlino.
Perché?
In Italia si sono radicate e stratificate esperienze sulla cultura del progetto che sono uniche nel loro genere. La presenza e le logica dell’industria in alcune regioni in Italia è debole e questo ha permesso agli oggetti di avere una loro complessità che travalica i valori legati alla funzione.
IL PROGETTO A CAPODIMONTE
Uno dei tuoi ultimi progetti ha preso corpo dalla lunga frequentazione della Real Fabbrica di Capodimonte. Non un omaggio, ma un attento ripensamento degli stampi. Come è nato e come si è sviluppato il progetto?
Il passato, la storia, non sono mai qualcosa che si appoggia su di noi, nascono dalla relazione tra uomo e ambiente. Da un punto di vista metodologico, il mio lavoro nasce dall’osservazione di archivi, che mi piace immaginare come ‘specchi parlanti’ di una fonte moderna e circolare. In questi ultimi anni a Napoli ho studiato le incisioni borboniche. Da tale ricerca nascono i due progetti L’Arte del danzare assieme e Gates. Il re Carlo III di Borbone aveva un piano politico molto preciso, voleva capire come il suo regno potesse essere ‘ascoltato’ e ‘letto’ dalle corti europee, per questo decise di catalogare i siti artistici e di divulgarli attraverso forme d’arte facilmente riproducibili come le stampe. Mentre sta costruendo una villa a Portici, ritrova alcune antichità. Comprende che sotto terra c’è un tesoro, comincia gli scavi a Ercolano e Pompei e per testimoniarne le scoperte, non essendo ancora state inventate le fotografie, istituisce un’accademia che attraverso incisioni e stampe raccontino i ritrovamenti. Le incisioni e le stampe diventano gesto politico, diplomatico e di propaganda.
E per quanto riguarda la porcellana?
Sia la porcellana sia le produzioni di stampe incise richiedono una maestria che non passa solo ed esclusivamente nelle mani del singolo creatore. La porcellana in quanto materia favorisce pratiche che celebrano la collaborazioni e il dinamismo tra le varie identità che entrano in gioco per produrre un obiettivo finale, che non è l’oggetto in se stesso ma il know-how di un determinato territorio. La serie dei vasi, la carta da parati del progetto L’Arte del danzare assieme, le 130 pietre del progetto Gates si ispirano a quella visione di know-how capace di creare continuità, collaborazione e dialogo tra diverse parti.
InIt tastes like landscape ti sei focalizzato sui frammenti, su parti di corpo che rimandano al frammento archeologico, ma anche agli ex voto che a Napoli si trovano in moltissime chiese. Quanto influenza Napoli il tuo immaginario creativo?
I territori sono qualcosa di altamente formativo. Le tradizioni nella loro dimensione macro si inscrivono nei luoghi e, grazie alla nostra capacità di assorbire i luoghi, finiamo per ereditare le forme e riti presenti in esso. Napoli è certamente un luogo che ha inciso tanto nella mia formazione. Il valore del contemporaneo di questa città risiede proprio nella sua capacità di essere una cultura che si è sempre posta in una condizione di dialogo e di confronto: questa sua capacità di assorbire le stratificazioni le conferisce la capacità di produrre pensieri e azioni universali che hanno in sé il valore del meticcio.
‒ Irene Biolchini
LE PUNTATE PRECEDENTI
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
Gli artisti e la ceramica #12 – Emiliano Maggi
Gli artisti e la ceramica #13 – Benedetto Pietromarchi
Gli artisti e la ceramica #14 – Francesca Ferreri
Gli artisti e la ceramica #15 – Concetta Modica
Gli artisti e la ceramica #16 – Paolo Gonzato
Gli artisti e la ceramica #17 – Nero/Alessandro Neretti
Gli artisti e la ceramica #18 – Bertozzi & Casoni
Gli artisti e la ceramica #19 – Alberto Gianfreda
Gli artisti e la ceramica # 20 – Sissi
Gli artisti e la ceramica #21 – Chiara Camoni
Gli artisti e la ceramica #22 – Andrea Anastasio
Gli artisti e la ceramica #23 – Michele Ciacciofera
Gli artisti e la ceramica #24 – Matteo Nasini
Gli artisti e la ceramica #25 – Luisa Gardini
Gli artisti e la ceramica #26 – Silvia Celeste Calcagno
Gli artisti e la ceramica #27 – Michelangelo Consani
Gli artisti e la ceramica #28 – Andrea Salvatori
Gli artisti e la ceramica #29 – Serena Fineschi
Gli artisti e la ceramica #30 – Antonio Violetta
Gli artisti e la ceramica #31 – Ugo La Pietra
Gli artisti e la ceramica #32 – Tommaso Corvi-Mora
Gli artisti e la ceramica #33 – Paolo Polloniato
Gli artisti e la ceramica #34 – Amedeo Martegani
Gli artisti e la ceramica #35 – Emanuele Becheri
Gli artisti e la ceramica #36 – Gianni Asdrubali
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Gli artisti e la ceramica #39 – Federico Branchetti
Gli artisti e la ceramica #40 – Aurora Avvantaggiato
Gli artisti e la ceramica #41 – Marco Ceroni
Gli artisti e la ceramica #42 – Enzo Cucchi
Gli artisti e la ceramica #43 – Liliana Moro
Gli artisti e la ceramica #44 – Luca Pancrazzi
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Gli artisti e la ceramica #47 –Ludovica Gioscia
Gli artisti e la ceramica #48 – Christian Holstad
Gli artisti e la ceramica #49 – Brian Rochefort
Gli artisti e la ceramica #50 – Tony Marsh
Gli artisti e la ceramica. Intervista a Sam Bakewell
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