Intervista a Danh Vo per la sua prima mostra italiana

Alla galleria Massimo De Carlo di Milano l'artista Danh Võ approccia un nuovo tipo di archivio, vivente. Applicandovi il suo interesse per il ruolo dell’artista nel tempo, la percezione umana nei confronti degli oggetti e il rapporto con il concetto di senso intrinseco.

Fiori che sbocciano nel marmo. Dopo aver fatto a pezzi la Statua della Libertà, aver scomposto crocifissi e fuso materiali, Danh Võ (Bà Rịa, 1975) è riuscito infine a far gemmare una nuova vita dal peso della storia. È questo l’effetto che fanno i piccoli ritratti floreali in dialogo con i pesanti marmi nelle stanze della sede di viale Lombardia della galleria Massimo De Carlo, a Milano, inaugurata nel 2019 all’interno di Casa Corbellini-Wassermann, gioiello architettonico progettato da Piero Portaluppi. Nella sua prima personale italiana, aperta dal 7 settembre, l’artista danese-vietnamita è ancora una volta perfettamente consapevole del fatto che ogni cosa è unica e contestuale: se di molti artisti si dice che creino opere site specific, per essere onesti con la visione di Võ bisogna riconoscervi una pulsione site exclusive. Le cinque stanze di cui sono composti gli spazi espositivi della galleria ospitano ciascuna una sua opera, composta da più elementi in dialogo tra loro e con l’ambiente. Ciascuna scaturisce proprio dall’impressione che lo spazio – un appartamento dalle pareti alte cinque-sei metri e ricoperte di marmi pregiati – ha esercitato sull’artista: “Quando ho visto l’appartamento in cui è nata la galleria, ho pensato fosse incredibile”, racconta Võ, che, nonostante abbia visto sue opere ospitate nei maggiori musei del mondo (e abbia vinto premi come l’Arken Art Prize, l’Hugo Boss Prize della Guggenheim Foundation e il BlauOrange Prize di Berlino), trattiene un’umiltà piena di meraviglia raramente riscontrabile nei personaggi più illuminati.
Quando ti affidano uno spazio devi analizzarlo: puoi decidere di lavorarci contro, o insieme, o giocarci. Io volevo accentuare il marmo, che qui è ovunque, ma non marmo lavorato e raffinato come questo, volevo gli scarti. Recuperando gli scarti si riesce a mostrare come il tempo e la mano umana abbiano cambiato il materiale, come lo abbiano alterato”. In cinque giorni l’artista ha composto l’incontro tra linee creative tradizionali della sua pratica e nuovi filoni, e tra i materiali tratti dal suo monumentale archivio artistico e i pezzi marmorei recuperati da una cava di Bolzano insieme allo staff della galleria. Come relitti fluttuanti, i marmi occupano lo spazio con il loro peso e la loro presenza: appoggiati su laconici tronchetti di legno da cantiere, questi sono soggetti e piedistalli allo stesso tempo, in una conversazione aperta e piena di significati con i molti altri elementi esposti, come le quadrerie di fiori del giardino di Võ in Germania e quelle delle statue michelangiolesche (stampe recuperate dal suo fidanzato, poi ristampate) o una preziosissima lettera.

Danh Vo. Exibition view at Massimo De Carlo, Milano 2021. Photo Nicholas Ash. Courtesy Massimo De Carlo

Danh Vo. Exibition view at Massimo De Carlo, Milano 2021. Photo Nicholas Ash. Courtesy Massimo De Carlo

IL SENSO SECONDO DANH VŌ

Non c’è titolo alla mostra, né cartella stampa, e non sperate in una copertina. Le connessioni tra gli oggetti esposti (molti dei quali Untitled) sono aperte, senza imposizioni preordinate – scoprirete quindi che non sono facilmente classificabili, fotografabili, postabili. “Il ‘significato’ non è una qualità che gli oggetti hanno”, spiega Võ “è qualcosa che gli diamo noi, che acquisiscono in un contesto ideologico, temporale, culturale. Ognuno di noi guarda alle cose diversamente, in virtù di quello che si porta dietro. Quello che tento sempre di fare è distaccarmi dagli oggetti, lasciargli avere nuovi significati. È così che si crea tensione, tra oggetti ma anche con le persone e gli ambienti, e si creano significati nuovi. È un modo semplice di fare arte: si inizia un dialogo con il pubblico. So che alcuni artisti vogliono essere predicatori e preti, io sono l’opposto: amo quando gli oggetti sono sospesi tra diversi sensi e significati”. La tensione di cui parla, camminando nelle silenziose stanze, è palpabile. Complice anche l’insopprimibile disagio che emerge nel rendersi conto di non capire o sapere a prima vista ogni elemento e significato di quello che si sta guardando: una condizione a cui noi abitanti del XXI secolo non siamo più abituati. “Eppure amavamo queste cose”, incalza Võ, “è il motivo per cui Ingmar Bergman era un regista così straordinario, creava questa confusione. La tendenza che noi ora abbiamo nel leggere dei precisi significati è una cosa culturale, mentre prima c’è sempre stata la tensione, e l’arte deve essere sempre soggetta a un’interpretazione”. Tutti i significati imposti dall’alto sono per l’artista qualcosa di cui diffidare e da cui scostarsi, per farsi una propria idea – cosa che ha investito anche la sua percezione della religione. Ha sempre messo in discussione gli stralci di culto cattolico provenienti dalla sua famiglia, si vede nel Cristo d’avorio sospeso tra ossa di mammuth nel Palacio de Cristal di Madrid così come nel celebre Oma Totem del 2009, in cui sintetizza la figura di sua nonna in una pila di elettrodomestici (ricevuti al tempo della richiesta d’asilo in Germania) con incastonato un crocifisso. E lo si vede ancora adesso in viale Lombardia, dove un pezzo di crocifisso è stato bronzato e incastrato (senza chiodi né niente) in marmo e legno. È appoggiato su parte di un sarcofago, a tutti gli effetti reinventato in una panchina, e per vederlo da vicino il pubblico deve scendere in ginocchio. Ogni prospettiva provoca ripensamenti, dubbi: anche per questo molte persone appartenenti alla comunità cattolica hanno detto di apprezzare il suo lavoro.

Danh Vo. Exibition view at Massimo De Carlo, Milano 2021. Photo Nicholas Ash. Courtesy Massimo De Carlo

Danh Vo. Exibition view at Massimo De Carlo, Milano 2021. Photo Nicholas Ash. Courtesy Massimo De Carlo

LA LETTERA E IL RAPPORTO CON IL PADRE

Parte della sua pratica artistica è sempre girata attorno al recupero degli oggetti, dalle aste o grazie alle donazioni di amici in tutto il mondo, a cui poi segue un certosino processo di studio e archiviazione. È stato così per il candelabro degli Accordi di Pace di Parigi, messo ad altezza occhi in un anfratto angusto del Guggenheim di New York, il torso di Apollo alla Biennale di Venezia del 2015 (in cui rappresentò la Danimarca, dopo essere già stato incluso in quelle di Berlino, Singapore e Gwangjiu) ed è così anche oggi, con i ritratti fotografici dei fiori e la lettera scritta a mano esposta nella seconda stanza – il primo pezzo entrato nella personale. Questa, recuperata anni or sono da Võ durante la permanenza a Parigi, è scritta dal prete cattolico francese Théophane Vénard all’alba della sua decapitazione in Vietnam, a metà dell’Ottocento, e contiene un saluto accorato al proprio padre. Il linguaggio è poetico ma asciutto, adatto a un addio. Il religioso si paragona a un fiore che verrà reciso a piacere del giardiniere, con una speranza finale: ritrovarsi un giorno di fronte a Dio, il Signore e giardiniere della vita. Emergono dalla polvere del tempo tanti elementi dello studio dell’artista: la religione cattolica, la soppressione della libertà di pensiero, l’importanza semantica dei fiori, il rapporto con il padre. Quest’ultimo spicca nel lavoro, visto che la grafia è proprio quella del padre di Võ – la stessa che cataloga le diverse specie di fiori con il nome scientifico. Lavorano insieme dal 2009, il figlio gli commissiona i pezzi calligrafici a 300 euro l’uno. “Stiamo sviluppando una relazione diversa, ho un motivo per chiamarlo, diciamo. L’ho coinvolto perché volevo che facesse qualcosa che non fosse vendere robaccia per strada. Gli dà una nuova ragione per fare le cose. Certo, poi è faticoso: ho persino assunto una persona a un certo punto perché si prendesse cura dei suoi bisogni perché io non riuscivo a stargli dietro, anche portarlo in viaggio con me è un lavoro full time. Però sono contento che il nuovo archivio floreale apra nuove possibilità per coinvolgerlo”.

IL SIGNIFICATO DEI FIORI

Con l’età e l’opportunità di vivere in campagna – seguita per ragioni di tipo prettamente economico – ho sviluppato una nuova necessità di stare nella natura e comprenderla. Sono una persona pratica e dopo il mio trasferimento fuori Berlino volevo darmi da fare per sistemare il terreno e far crescere verdura”, dice Võ, che si sarebbe dovuto trasferire con degli amici e colleghi artisti nella casa di campagna ma ha finito per andarci da solo, e ora ci vive con il fidanzato. “Mi sono reso conto di non sapere nulla del giardino in cui ero immerso, nessun nome di fiore o animale, e ho iniziato a studiare. Anche perché mi sembrava assurdo sapere tanti nomi di galleristi ed esperti di arte e non sapere nulla delle cose che vedo dalla finestra, di quello che mi costituisce: sono dopotutto naturale anche io”. È così che ha deciso di creare un archivio nuovo, dedicato alle piante, dando vita a una grande serie di quadri che appaiono anche nell’esposizione italiana e con cui Võ sperimenterà in futuro. “Ho dovuto cambiare prospettiva, l’archivio vivente è diverso da quello storico in sé. Quando ho chiesto a due diversi giardinieri di piantarmi degli alberi adulti in due diversi spazi, cinque anni fa, ed entrambi mi hanno detto di no, ho piantato alberi piccoli. E poi ho capito: deve essere così, esiste un tempo della natura che è diverso dalle aspettative e dai tempi umani. Ho imparato la pazienza e a vedere le cose in modo diverso: ogni volta che vedo un albero piccolo ora vedo la potenzialità”. La stessa potenzialità vive nelle opere degli artisti del nostro passato, tra cui Võ annovera come suo maestro ideale Isamu Noguchi: “Le sue opere vivono al di là dello spazio e del tempo in cui sono create, la stessa cosa che fa l’arte politica meglio riuscita. Io cerco di fare la stessa cosa. Noguchi ha fatto tantissimo e mi ha insegnato altrettanto, soprattutto nei suoi lavori con le pietre: se fai un errore con un’incisione, lo sistemerà il tempo. Noguchi era americano e giapponese, ha creato per sessant’anni con tutti i materiali possibili non appena erano disponibili: era una specie di artista pop, fondeva nuove idee con antiche tradizioni. La sua scultura rossa fatta con i pezzi di tubature è geniale: come fossero ready made, ha preso questi pezzi di scolo e ne ha montati sei insieme creando un’opera straordinaria”.

L’IMPORTANZA DELL’ESSERE FUORI POSTO

Il tema del displacement (“fuori posto”) vive nella sua storia personale – la sua famiglia è stata costretta a lasciare il Vietnam su una barca per timore delle persecuzioni del governo negli Anni Settanta (al tempo Danh non andava ancora a scuola) – ed è un concetto che si tende a riconoscere anche nelle migrazioni attuali, basti guardare ai flussi che toccano le frontiere del mondo occidentale. Per Võ, però, le cose oggi sono diverse dal suo tempo, e in meglio. “I tempi sono cambiati da quando sono cresciuto io: mentre diventavo adulto ‒ negli Anni Novanta ‒ l’egemonia occidentale era ovunque, mentre oggi ci sono nuovi poteri, come la Cina. Si possono criticare molte cose, e spero che i nuovi contrasti non portino a guerre, ma le strutture sono più equilibrate e quindi ‒ per me ‒ più sane. In tutti i cambiamenti ci sono possibilità, che possono essere e sono state negative, ma io voglio credere alle possibilità positive. Sono un ottimista”. Tra le possibilità positive per l’artista c’è anche quella di essere nuovamente in Italia, questa volta per una grande personale: “L’Italia mi era mancata molto, insieme al Messico, la Cina e gli Stati Uniti è uno dei luoghi che più amo visitare. C’è tantissimo da vedere, e anche se io non vivo più in città qui ne apprezzo ancora la concentrazione, gli stimoli. C’è molto materiale interessante qui [come i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer all’HangarBicocca, di cui ha detto sognante: “Vorrei averla fatta io un’installazione così”, N.d.A.]”. Io raccolgo tutto in forma di suggestioni visive da portare con me”.

Giulia Giaume

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Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

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