La storia del poeta mercante Mario Diacono al Macro di Roma
Artista, critico, pensatore. Alessandra Mammì racconta Mario Diacono (e Bruno Corà che racconta Mario Diacono).
A Mario Diacono (Roma, 1930) piace definirsi mercante, non gallerista. Non per vezzo, ma perché sa molto bene dare il posto giusto alle parole. E se gallerista è un mestiere stanziale ancorato al luogo che lo identifica, mercante è l’immagine del viaggiatore nomade e avventuroso. Per di più Diacono si sentiva un Poeta Mercante. E come André Breton o Marco Polo univa lettere e commercio. È cosa possibile. O almeno lo era fino agli Ottanta dello scorso secolo. E Diacono appartiene totalmente allo scorso secolo, non solo perché abbia 91 anni e quindi per almeno 70 ha pienamente vissuto il Novecento, ma anche perché è un protagonista di quella categoria di artisti/ critici/ pensatori che hanno proliferato in quegli anni e che Luca Lo Pinto nel suo Macro ha incoronato come gli Aritmici dedicando una sala al primo piano di un museo che si sta sempre più confermando come uno degli esperimenti più interessanti del paese.
L’INCONTRO CON BRUNO CORÀ
Dunque, è lì, nell’auditorium del Macro, che Bruno Corà su Mario Diacono ha tenuto una conferenza, o meglio è venuto a raccontarci le “due o tre cose che sa di lui” regalandoci il ritratto di una speciale congiunzione astrale nella quale si incontrano su una stessa linea e in uno stesso luogo Ungaretti e Emilio Villa, Achille Bonito Oliva e Sandro Penna, Daniela Palazzoli e Cesare Vivaldi, Claudio Parmiggiani e Achille Maramotti, Graziella Lonardi e Bruno Corà appunto. Diacono (che sia il suo vero nome o meno, poco importa) è esattamente un diacono: colui che non è sacerdote (artista) e neanche un laico (critico) ma una figura intermedia che lega tutto e all’occorrenza fa funzioni religiose, ma senza sposare il sacerdozio per l’intera vita. Quindi il diacono è trasversale esattamente come Mario Diacono che è stato non solo gallerista e poeta, ma critico d’arte e letterario, scrittore, traduttore fondatore di riviste e poi :antropologo e artista lui stesso o perlomeno inventore di oggetti di natura surrealista che chiamava Objtext, ma che nascevano da quell’ossessione per il feticcio che lo aveva portato ad essere un eccentrico esploratore di mondi come il viaggio nel 1962 in Africa da cui ha riportato la stesura di testi sui totem, i feticci e gli oggetti apotropaici e poi più tardi il desiderio di continuare in peregrinazioni tra gli indiani del Nord America.
LA MOSTRA DEDICATA A MARIO DIACONO
Di tutto questo, entrando nella aritmica sala allestita al Macro la prolifica produzione di Diacono parla da sola. Incontriamo le riviste che hanno ospitato i suoi eccentrici pensieri ( Bit, Ex, Continuum, Quaderno); le annotazioni alle traduzioni che Ungaretti fece di William Blake ma che si avvalgono delle note, del pensiero e della mano di Diacono; le testimonianze dei viaggi lontani;, il lavoro di critico d’arte che precede e accompagna quello di gallerista; la storia delle sue tante gallerie che lo seguono nelle grandi tappe della vita Roma, Bologna, Boston, New York e ancora Boston dove tutt’ora risiede. E c’è un salto continuo e giustamente aritmico in questa sala, tra la carta e gli oggetti (compresa la sua macchina da scrivere con i tasti verde menta), i dipinti e le opere (di Vito Acconci, Enzo Cucchi, McDermott&McGough, Donna Moylan); i suoi ritratti tra i quali il più vero e inverosimile: quello di Francesco Clemente che vede un Diacono spennacchiato e con occhi sbilenchi che sembrano godere di un campo visivo ben più ampio di quel che la natura ci ha concesso.
CONTEMPORANEA
È quello che lui ha avuto in dono probabilmente, insieme ad un carattere sanguigno e diretto, come racconta Bruno Corà che ammette non fu facile convincerlo a curare la sezione di poesia visuale a “Contemporanea” nel 1972 e per accettare chiese garanzie che non ci sarebbero state intromissioni nelle sue scelte. Perché per lui la coerenza del suo lavoro era tutto e ci credeva al punto che in fondo (sospetta Corà) la finalità del suo essere gallerista risiedeva nel vivere il più vicino possibile agli artisti per partecipare all’ ideazione e realizzazione di un atto creativo. Anche la sua idea di libro era quanto di più lontano dal libro commerciale, ma viveva di invenzione e costruzione di un oggetto/libro prodotto come un multiplo d’artista in poche straordinarie, innovative copie. E che sia questa la prima mostra personale dedicata a Mario Diacono è la conferma che la strada di percorrere sentieri inesplorati sia sul futuro che sul passato intrapresa dal Macro è quella giusta. Una strada di ricerca e lavoro che si fa carico di parole faticose e scomode come memoria o sperimentazione. L’unica cosa che un po’ dispiace è che questa ricognizione su una figura tanto complessa stia per chiudersi il 24 ottobre senza un volumetto, un librino o almeno un pieghevole “alla Diacono” che ne lasci traccia. Lo avremmo acquistato volentieri…
– Alessandra Mammì
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