Studio visit. L’arte epica e austera di Lucia Cantò
Cofondatrice – insieme a Simone Camerlengo, Gioele Pomante, Francesco Alberico, Eliano Serafini, Gianluca Ragni, Matteo Fato e Lorenzo Kamerlengo – dell’Associazione culturale SenzaBagno, con sede a Pescara, Lucia Cantò racconta qui il suo lavoro d’artista e non solo.
Nella sua ultima mostra personale alla galleria Monitor di Roma, Lucia Cantò (Pescara, 1995) ha utilizzato i due ambienti espositivi – quasi speculari tra loro – per mostrare le diverse tensioni che abitano la sua poetica. Da una parte una coreografia di gru idrauliche: elementi duri, industriali – quasi un ready-made, se non fosse per la postura inconsueta delle gru, accoppiate come in una danza, un gioco o perfino un atto erotico. Dall’altra una serie di calchi in argilla di vasi da giardino di diverse dimensioni: anche in questo caso Cantò ha formato delle coppie, visto che ogni vaso è “tappato” nella parte superiore da un altro recipiente dello stesso diametro e di analoga fattura, a comporre così una popolazione di sculture silenziose, placide, senz’altro meno slanciate delle gru viste in precedenza. Sul pavimento del piccolo corridoio che unisce le due stanze della galleria, l’artista ha infine disseminato dei fiori di buganvillea in alluminio opaco, una traccia tenue e dimessa, anch’essa originatasi a partire dal calco del fiore ancora non schiuso.
In questa mostra ci sono degli aspetti ricorrenti, che Lucia Cantò aveva già presentato in altre occasioni: penso soprattutto all’idea di un “gioco di coppia” tra gli elementi, all’utilizzo alternato di un materiale “caldo” come l’argilla e altri di origine industriale, al ricorso al calco di oggetti. Ma c’è un’altra costante nella pratica dell’artista che mi sembra rappresentata da una qualità di tipo più squisitamente attitudinale: un approccio quasi d’altri tempi, poco interessato alla coolness e orientato piuttosto a una certa austerità, per quanto venata di lirismo. Mi sorprende, in Lucia Cantò, la totale concentrazione – una dedizione quasi ossessiva che emerge anche dalle sue parole.
INTERVISTA A LUCIA CANTÒ
Partiamo da qua, dalla tua ultima mostra, che mi sembra pensata come un cervello costituito da due emisferi asimmetrici e complementari. Qual è la materia grigia che l’attraversa?
Per mesi ho analizzato i rapporti tra coppie: studiarli nelle posture e nei brevi contatti che avvengono sotto gli occhi di tutti, guardarli e rendermi conto di essere distante mi ha messo in una condizione di vuoto, ma non negativo, in cui la distanza, a volte, mi è sembrata parte integrante di questo addizionarsi. Analizzare la vicinanza tra corpi – tra persone – è qualcosa che mi ha portato a mettere in atto delle trazioni invisibili, dei contraccolpi. Volevo che la materia riuscisse in qualche modo a tenere in piedi queste domande sullo “stare insieme”. Ho sentito l’esigenza di lasciare dei vuoti per ospitare risposte altrui, ma allo stesso tempo ho provato una spinta a escludere la possibilità di una piena accoglienza. Sentendomi io stessa una terza parte nella questione. Sicuramente questo contrasto ha attraversato entrambi gli emisferi della mostra. Tenere aperti dei dialoghi con degli amici, dei colleghi, è stato necessario per poter leggere, durante il processo, quello che stavo facendo.
Ma a livello formale, come hai cercato di tradurre questo sentimento? E qual è la relazione tra le coppie di gru idrauliche e le coppie di vasi?
Mi capita spesso di ragionare a lungo sulle parole, che mi portano poi a visioni più concrete. Le gru si sono formate nella mia testa pensando a una specie di meccanica del contatto. Sono partita dal termine “rapporto”, soffermandomi su quello matematico: quale può essere il risultato tra due corpi uguali che imprimono la loro energia omogeneamente l’uno verso l’altro? Ho così immaginato che questa loro spinta reciproca risultasse senza alcun “resto” – hai presente una divisione? –, come se in questo loro agire, nel cercare di stare insieme, non fosse previsto nessun altro, nessuno al di fuori del loro rapporto.
Mentre con i vasi com’è andata?
Percorrere la forma dei vasi dal loro interno era un pretesto per poter creare uno spazio d’accoglienza – meno teso, un legame solido che aveva a che vedere con il termine “corrispondenza”. Volevo che le persone intorno a me scegliessero un vaso, una sembianza, e concretamente la legassero alla mia. Alla fine i motori di entrambe le installazioni sono organici, l’olio e le mani. Sicuramente l’intera formalizzazione mi interessava che avesse a che fare con uno scambio di energia tra due sistemi, veicolato da più persone.
LUCIA CANTÒ ARTISTA E CURATRICE
Questa attrazione per le relazioni si riverbera non soltanto nelle tue opere. A Pescara sei parte di un collettivo di artisti, con i quale condividi spazi, ma anche un certo tipo di orizzonte culturale. Rispetto a qualche anno fa, forse, questo bisogno di prossimità tra artisti sta crescendo, in diversi parti d’Italia.
Credo che in questo momento la prossimità sia vitale. A Pescara siamo un gruppo di artisti e amici che collaborano e dialogano sulle rispettive ricerche. Devo dire che, in generale, trovo delle affinità con molti artisti, condividendo interessi e anche una maniera di mettersi in dialogo, a volte cruda a volte estremamente intima, che mi sorprende. Questa dimensione relazionale è per me una fonte d’ispirazione. Sento anch’io che, da qualche anno, questo desiderio di unirsi e fare fronte comune ha generato un’energia condivisa in molte realtà italiane e lo trovo estremamente interessante, non solo per entrare in contatto con altri artisti, ma anche per poter scoprire luoghi meno conosciuti e realtà sommerse.
Recentemente ti sei anche cimentata come curatrice di una mostra, che ha visto proprio la partecipazione di molti degli artisti di cui parlavi poco fa…
Sì, è stata un’esperienza che non avevo mai fatto, molto difficile. L’ho fatto soprattutto per l’atto di fiducia da parte dei miei colleghi di affidarmi l’ideazione del progetto, per me è stato un gesto importante. In quel momento stavo facendo diverse letture: Louise Bourgeois, Simone Weil, Chiara Zamboni… È da qua che siamo partiti per la mostra The Blind Leading the Blind alla sede di Pereto della galleria Monitor. Mi interessava vedere quali effetti inconsci una certa ricerca personale e intima potesse avere su otto artisti di cui conosco bene il lavoro e la personalità. Il fatto di non esporre mie opere mi ha permesso di guardare ai loro lavori con più attenzione, notando particolari a cui altrimenti non avrei fatto caso.
Tornando alla tua pratica artistica: le tue opere manifestano quasi un senso “epico”. Intendo una struttura, una robustezza (nella scelta dei materiali, nel processo realizzativo) piuttosto rare per un’artista della tua generazione, in confronto a certe tendenze che, sintetizzando, si basano su una forte fragilità costitutiva e su un immaginario per certi versi apocalittico, da “fine del mondo”. Ti ci ritrovi?
Su questo non so bene come risponderti, perché nemmeno io ho compreso a pieno da dove viene questa mia propensione, che devo dire è la stessa da sempre. Credo che, nella mia pratica scultorea, l’utilizzo di materiali concreti sia la risposta a una realtà fatta di sentimenti e stati d’animo che tende a rimanere immateriale, evanescente. Occupare lo spazio fisico equivale per me al tentativo di dare struttura a un’emozione. Spesso questo tentativo coincide con la fragilità.
‒ Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati