Intervista a Lucia Pescador. L’artista che colleziona gli scarti del tempo
In mostra da Assab One a Milano, Lucia Pescador racconta la sua passione per il frammento e gli scarti, ma anche il desiderio di usare l’arte come strumento per fare un inventario del mondo
Abbiamo incontrato in questa intervista Lucia Pescador (Voghera, 1943) in occasione della sua mostra Geometrie per Sonia Delaunay e Joseph Beuys da Assab One a Milano, a cura di Marta Sironi e realizzata in collaborazione con APalazzo Gallery. Tra l’amore per il Novecento, inventari assurdi e fantastici e la passione collezionistica, è stata l’occasione per indagare più da vicino la sua pratica e poetica.
La tua personale è dedicata a due fondamentali figure del Novecento, Sonia Terk Delaunay e Joseph Beuys. Perché questa dedica? E come hai “evocato” queste due importanti presenze?
Amo moltissime figure artistiche del Novecento. Quando ho pensato di esporre la voce “Geometria” del mio Inventario di fine secolo con la mano sinistra – la prima voce esposta è stata “Natura” nel 2019 nello spazio NonastanteMarras, a cura di Francesca Alfano Miglietti –, stavo lavorando sui pois di Sonia Delaunay ispirandomi a un suo piccolo disegno per tessuti. Poi mi ha affascinata la foto di un suo abito patchwork del 1913, che ho disegnato. Per contrasto, l’ho avvicinato a dei ciclamini stilizzati. Un colpo di leggerezza. Questo abito ha condotto la prima parte del mio Novecento, la più colorata. Mi sono poi ricordata di una elaborazione fotografica su pellicola dell’abito in feltro di Joseph Beuys degli Anni Settanta fatta da me nel 2010 – e questa è la seconda parte del mio Novecento – che trascina con sé come un fiume tutto lo scorrere della vita.
Come è articolata la mostra? Quali opere presenti?
Quella che raccontavo prima è anche l’articolazione stessa della mostra da Assab One con opere che vanno dagli Anni Novanta a quelle recenti realizzate “in tempo di virus”.
L’ARTE DI COLLEZIONARE SECONDO LUCIA PESCADOR
Lo studio è un luogo molto importante per te, tant’è che lo ricrei in un intervento site specific in mostra. Rappresenta un campo di sperimentazione per formulare diverse possibilità di allestimento e riallestimento delle tue opere, storiche o più recenti, creando nuove connessioni e letture.
Certo, vivo in una casa-studio, ma dopo anni di accumulo è diventata studio e piccola casa. Ho invaso anche la camera da letto. Una vita di lavoro. E poi libri, oggetti, tutto stratificato. Come è anche il mio Inventario di fine secolo con la mano sinistra. Anche la mia mente ragiona per associazioni. Mentre parlo mi viene in mente lo studio di Morandi dove c’è un piccolo letto. Lui dormiva lì. Commovente. Mi piacerebbe allestire piccole stanze chiamandole “atelier dispersi”.
Da dove deriva l’impulso di collezionare? E l’attenzione allo scarto, al frammento?
Non è facile a dirsi. Sgabelli, vecchi giocattoli, ceramiche, libri e, naturalmente, vecchie carte su cui disegnare (sono sempre solita lavorare su carte già scritte con il brusio del Novecento): tutto serve per creare un allestimento, li uso come oggetti di scena invadendo pareti e pavimenti. Un mio amico letterato, Marzio Porro, dice che sento la “pietas degli oggetti usati” perché si portano dentro l’anima delle persone del tempo. Credo che lo scarto e il frammento facciano parte della nostra cultura della modernità e del passaggio del secolo. E per me che lavoro sulla memoria culturale del Novecento è una fascinazione vitale. Non posso che raccogliere frammenti – gli stessi che trovo quando vado a teatro e al cinema – di sentimenti. Tutte cose che aiutano a vivere.
L’INVENTARIO DI LUCIA PESCADOR
Dicevi prima che i lavori esposti fanno parte di Inventario di fine secolo con la mano sinistra, un ciclo di ricerca che porti avanti dall’inizio degli Anni Novanta.
Sì, i lavori esposti fanno tutti parte dell’Inventario. Mi piace immaginarmi in una vecchia biblioteca, o in un archivio, a inventariare luoghi, oggetti e luoghi di sentimenti, tradotti in piccoli disegni su carte vecchie da una bambina del 1943 (quando sono nata la guerra non era ancora finita). Lo chiamo Inventario perché lavoro per serie, tutte tra loro vicine, di disegni, come una classificazione un poco assurda o di fantasia. Negli Anni Settanta-Ottanta le chiamavo Ipotesi di volo, Ipotesi del colore del cielo, Geometrie impostate sulle nuvole. E poi Reliquiari botanici, geologici, di meteoriti, animali sino ai Giardini dei semplici.
Forte quindi è la fascinazione per la cartografia, per la tassonomia, per gli ordinamenti. Come invece ti rapporti al caso, all’aleatorietà?
Il caso c’è sempre, ma si sviluppa quando incontra la disponibilità dello spirito. Se poi si è curiosi, le occasioni non mancano.
In che modo i titoli entrano in rapporto con le tue opere?
I titoli possono essere banali come un Inventario – la banalità diventa ambigua – o concreti, ma estranei al soggetto, come nel caso degli ultimi disegni su carte trasparenti che ho chiamato Cartilagini o dei frammenti di carte colorate intitolati Frattaglie. Il nostro corpo è sempre compromesso.
Perché la scelta di lavorare con e sui vasi?
Prima ne ho disegnati anche di molto grandi, di 1,80 / 2 metri. Come colonne. Il vaso diventava elemento architettonico. Con un colore unico. Diciamo che nella composizione della parete è come un colpo di percussioni. Poi ho comprato vasi nei mercatini, che sono la mia passione. Faccio parte della tribù dei raccoglitori. In seguito ho disegnato sui vasi le avanguardie storiche. Anch’io mi domando il perché di questa scelta! Direi che si sono imposti loro. Da grande farò il vasaio a Creta, isola dei vasi.
‒ Damiano Gullì
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