Cos’è la curatela. Una conversazione sul curare mostre
Non è una storia della curatela e nemmeno un manuale in formato ridotto per costruire mostre efficaci. Questo è un confronto a più voci – le tre che dialogano direttamente, la dozzina che offrono il loro punto di vista individuale – che fa emergere un nugolo di problemi e questioni, e fortunatamente pochissime soluzioni preconfezionate. E il pensiero non può che andare al brainstorming ante litteram contenuto in “Autoritratto” di Carla Lonzi.
Punti di Frontiera è un progetto realizzato con il supporto di Giulio Verago e Viafarini [associazione non profit di Milano nata trent’anni fa e focalizzata sulla “crescita professionale dei giovani artisti”, N.d.R.], iniziato a ottobre 2020. Un viaggio attraverso le storie dei curatori e delle curatrici italiani tra i 25 e i 35 anni (circa), che stanno strutturando il loro percorso e le loro scelte professionali. Decine di conversazioni private sulla curatela contemporanea, con l’obiettivo di scorgere i cambiamenti, le problematiche e i punti di forza di un sistema e un panorama culturale in forte cambiamento.
Attraverso meccanismi di connessione inclusiva, di scambi e suggerimenti, Punti di Frontiera è diventato un contenitore di oltre sessanta punti di vista, per capire la responsabilità di un ruolo su un piano etico e professionale. Il progetto si è aperto a tutto il territorio italiano, tracciando i moti e i bisogni che lo attraversano.
Parlare è costruire. Nel confronto dei suoni delle parole sono racchiusi i semi della concretezza. Delle forme del divenire.
Lavorare nella cultura è un facilitatore, passiamo molto tempo a raccontarci immagini, scelte, visioni, azioni. E i progetti, spesso, sono la struttura con cui si cerca di comunicare un’idea. Un insieme di visioni e valori concreti.
Riflettendo sulle dinamiche di Punti di Frontiera ho capito che, per iniziare a portarlo fuori, avrei dovuto mettere in atto un processo, una modalità. Qualcosa che avesse le stesse sembianze dei contenuti: fluidi, modellabili e in divenire. Ho iniziato il percorso di Punti di Frontiera in silenzio, facendomi domande, studiando e leggendo. Poi sono passata all’ascolto delle storie di tutti i curatori che si rendevano disponibili a darmi il loro punto di vista e ora credo sia giusto parlare. Non volevo essere solo la mia voce, cercavo altro. Un processo di senso partecipato. Discutere il pensiero, mettersi a confronto.
Conversazioni in itinere è l’inizio di questo processo di formalizzazione. Non troverete le conversazioni private avvenute con i curatori e le curatrici, ma il dopo, ovvero l’inizio del confronto con l’esterno, portandomi dentro tutte quelle storie. Quelle voci.
Quello che segue è un estratto da una conversazione con Giulio Verago (G) e Dario Moalli (D).
PARTIRE DA NOI
(A) Ho scelto di partire da noi, da tre diversi approcci di analisi della pratica curatoriale e alla ricerca. Giulio Verago per Viafarini, Dario Moalli per Osservatorio Curatori e io con Punti di Frontiera. Tre mondi, tre modi di relazione e interazione con i curatori, con modalità che ci siamo dati o che ci sono state date. Esperienze di un singolo che toccano e coinvolgono tanti individui. Inclusive in modi diversi. Vorrei provare a raccontare insieme queste letture trasversali che ognuno di noi porta avanti.
(G) Faccio una riflessione iniziale: raccontare tre approcci e perché se ne sente il bisogno. Vorrei partire proprio da questo, dal bisogno. Sono arrivato alla curatela attraverso l’esercizio della mia professione e non perché ho dedicato la mia vita accademica alla curatela. Detto questo, mi è sembrato chiaro fin dall’inizio come la curatela risponda a un bisogno, un bisogno ampio, che ognuno interpreta da un punto di vista personale.
RUOLO E FUNZIONE DEL CURATORE
(G) Perché si senta il bisogno oggi di parlare di curatela è una domanda che ci dobbiamo fare, e del perché se ne senta il bisogno in un momento storico come questo, pure. Ce lo dobbiamo chiedere. Perché quello che può fare la curatela è quello che può fare anche l’arte. Le due cose per me vanno in parallelo. Secondo me è anche un’occasione per riflettere sul ruolo che può avere l’artista, perché non c’è curatore senza artista. E, allo stesso tempo, il fatto che l’artista sia sempre più e sempre meglio curatore è la prova del nove che la curatela può essere interpretata come una carriera, come un ruolo, un ruolo nel grande gioco del potere. Infatti si dice ritagliarsi un ruolo e non ritagliarsi una funzione. Quindi: qual è il ruolo e qual è invece la funzione.
La funzione che la curatela esprime è ciò che la curatela può fare, le risposte che può dare, i desideri che può includere. Invece il ruolo – i giochi di ruolo –, come Viafarini che ha un suo peso, è la parte più interna a un organigramma. Le scelte che fai, come ti poni rispetto alle dinamiche di potere, perché la curatela è molto legata anche a quello.
Curare: io ho un punto di vista da più punti di vista eccentrico, perché non sono formato come curatore, ma sono formato in filosofia. Non ho mai privilegiato l’exhibition making e questo mi rende eccentrico, se eccentrico è la parola giusta. E ho sempre creduto moltissimo in dinamiche di coalizione, che non è sempre stato il paradigma della storia della curatela in questo Paese, soprattutto per i curatori della mia generazione. Io ho quarantuno anni e appartengo in maniera molto chiara a un inquadramento quasi storicizzato. Inevitabilmente.
Essendo legato a Viafarini, mi sono ritrovato a interpretare questo ruolo in contesti che avevano il privilegio di essere lontani dalle dinamiche commerciali. Le dinamiche commerciali piegano lo spazio e il tempo, l’economia è una forza, come la forza di gravità che ti piega. Magari ti piega anche verso l’alto, non per forza verso il basso, ma comunque ti distorce. Non che le dinamiche di economia non ci siano nel non profit, ci sono eccome, però sono interpretabili in una logica meno prestazionale. Nel mio contesto io non devo rispondere nell’immediato a una prestazione. C’è una logica di più ampio respiro. E secondo me è necessario, soprattutto per il tipo di curatela che mi trovo a fare io e che è sintetizzabile in una curatela di una scena emergente, soprattutto ma non unicamente. Quindi una curatela che interviene in un momento delicato, decisivo, aurorale del proprio percorso. Cioè un momento che può portare a X o Y e tra i due c’è un confine labile.
IL PRIMATO DELL’ASCOLTO
(G) Da un punto di vista deontologico, dal ruolo che ho, io lavoro in un contesto che ha a sua volta una storia, quindi io sono una storia dentro una storia. E sono molto caratterizzato dalla storia di Viafarini. Ci ho passato la maggior parte della mia vita professionale. Anche se sto cercando sempre più di astrarmi da questa posizione, che è privilegiata da tanti punti di vista.
Al di là di quello che mi ha lasciato come rapporti personali, che sono una cosa fondamentale, soprattutto nel nostro settore: coltivare i rapporti umani tra artisti, con i colleghi.
Oltre a questo, ho dietro anche una bella scia di formati diversi e di tentativi diversi di dare ordine al caos. Tentativi che mi sono stati lasciati in custodia, come bigliettini da visita, progetti che sono stati fatti dagli Anni Novanta a oggi. Da Critical Quest con tutti i grandi nomi, i grandi geni che hanno dato le loro riflessioni, dove si vedeva tutto il divertissement di quegli anni e che non c’è più, non c’è più tutta quell’ironia. Quello è stato un capitolo bellissimo di Viafarini, ma come posso io, Giulio Verago, relazionarmi con quella storia lì? Mi è molto difficile. Per problemi di relazioni e storici. Vedo un altro mondo oggi, è una memoria ma non è riattualizzabile. Mi lascia più riflessioni Curatology, che era un interrogarsi generazionale, diverso e complementare, rispetto al tuo, Annika. In quel caso si trattava di fare il punto con gli altri colleghi e cercare di fare una narrazione.
Allo stesso modo mi chiedo: cosa mi può lasciare il tuo progetto, inserito in questo filone di riflessione? Forse il tuo è quello che sento di più perché ha questa natura di ascolto. Di ascolto fin dall’inizio, ascolto non mediato, non programmato. Non ci hai chiesto “scrivimi qualcosa”, non ci hai chiesto e non ci chiedi statement, non sei stata rigida ma molto accogliente. È un carattere distintivo che trovo molto contemporaneo.
Il contributo di Viafarini sono questi progetti. Credo infatti che il mio ruolo, e di Viafarini, debba cambiare. Dobbiamo porci in una condizione più di ascolto e meno di spiegazione, perché il rate del cambiamento è accelerato e quindi le spiegazioni, il curator explaning, è in grave crisi. E con lui le logiche di formazione, l’accademia e tutto quanto. Invece l’ascolto deve prevalere, anche se nell’ascolto può esserci molta retorica. Perché nessuno ascolta più. Come sbarazzarsi della retorica? Come cercare di avere con l’altro un rapporto veramente empatico? Io cerco di farlo facendo a volte un passo indietro, l’ho fatto cercando di non far uscire l’autorialità della mia visione curatoriale a favore di una visione curatoriale più disposta all’ascolto, quasi come un sismografo che cerca di captare per lasciare spazio agli altri di fare. Però parlo così perché io curo una residenza, quindi curo un processo in fieri. Sta accadendo mentre lo curo, quindi ovvio che non c’è un’idea da spiegare attraverso una mostra alla XX secolo. È un’idea di curatela che risponde alla funzione.
Pensando in chiave di evoluzione rispetto al posizionamento che vorrei per me, e continuando a far crescere Viafarini, è di traghettarci verso il cambiamento tracciato dai risultati che possono uscire da un punto di vista come il tuo, attraverso Punti di Frontiera, e che potenzialmente saranno utili a ridefinire un po’ i ruoli o almeno le modalità.
LA PUNTA DELL’ICEBERG E COSA RIMANE SOMMERSO
(D) Non ho la capacità di astrarre di Giulio, vivo molto più nella frenesia del quotidiano, non so se ho un’idea così generale della curatela. Parlare della curatela dell’arte è un po’ come parlare dell’amore, tutto e niente. Se ne scrive, se ne parla, se ne fanno anche tante canzoni, ma alla fine non si riesce mai a definirla.
Io con la rubrica Osservatorio Curatori ho accolto, ho parlato con giovani curatori e curatrici che, secondo me, hanno pochissima libertà di fare quello che vorrebbero fare. Ogni tanto gli viene bene qualcosa, ogni tanto no, perché sono giovani ma prima di tutto dovrebbero trovare uno spazio, dovrebbero potersi mettere alla prova. C’è una continua negoziazione con i rapporti che hanno. Lo spazio, gli artisti, loro stessi. Perché comunque è inutile negare che c’è ambizione, di essere curatori, di essere potente, quella figura come Obrist affascina, si vorrebbe essere lui.
(G) Certo, ed è importante averla perché è una meta, una fata morgana ma una meta.
(D) Mentre parlavi mi è venuto in mente che io forse non ho mai visto nella mia vita una mostra non curata da qualcuno. E questo è molto strano. Ho avuto la possibilità di lavorare in contesti istituzionali e lì ti cade un po’ il fascino della curatela, rispetto a come ti viene raccontata. Perché alla fine o hai già fatto un percorso con un artista, lo conosci da tanto tempo, vi siete incrociati tante volte, c’è un rapporto, uno scambio, altrimenti è un confronto, non dico sulle uova, perché si cerca sempre di capire che persona si ha davanti, sia a livello artistico che a livello umano (e ne ho avuto la conferma con la rubrica), che resta superficiale.
Però i giovani curatori stanno cambiando, fanno più lavoro che non si vede di quello che si vede. Lavorano in profondità. Il punto però è che o trasformi quel lavoro che non si vede in qualcosa, lo rendi pubblico, altrimenti non si vede quello che stai facendo. E solitamente quella che rimane nascosta è la parte più importante.
Perché curare una mostra? Bonami diceva che fare una personale è essere un cameriere mentre fare una collettiva è fare il curatore. Però secondo me non è vero. Fare un personale vuol dire avere un rapporto molto intimo con l’artista. Poi magari Obrist va da un artista, gli dice facciamo una mostra, e l’altro dice di sì. Però se vuoi costruire qualcosa, funziona diversamente.
L’IMPRONTA DEL CURATORE
(G) Torniamo alla funzione del rapporto: non sempre lo vedi.
(D) No, non sempre lo vedi. E forse è anche per questo che è difficile trovare un curatore che abbia sviluppato una sua impronta. Penso ad Andrea Lissoni: se mi vado a rivedere le sue mostre, lo vedo che ha un’impronta, ma se lo faccio con gli altri non lo vedo e mi dico: quindi? Cos’è che c’è? Forse un altro tipo di ricerca? Trovare l’artista giusto per te al momento giusto?
(A) Però per impronta, domanda che mi sono posta e che ho posto a tanti, cosa intendi tu? Quanto si è consapevoli dell’impronta? È più estetica, è un’impronta relazionale, oppure di crescita? Tutto questo fa parte di un pensiero molto poco concreto, molto intimo e di riflessione. Per questo è anche così complesso riuscire a parlarne bene, in modo lucido. Mentre Giulio parlava io stessa mi dicevo che ho una visione più interna – ristretta – rispetto a lui. Non riesco ad avere una panoramica così aperta e completa rispetto a queste dinamiche perché, inevitabilmente, non conosco altro. Ho visto, e quindi conosco, solo questo e tutto quello che sto vedendo è in difficoltà. E quando c’è una difficoltà vuol dire che sotto sta succedendo qualcosa, questo non visto – che ha bisogno di essere raccontato. Mi pongo domande.
QUANTO È COMPLICATA LA LIBERTÀ
(A) Qui volevo chiederti: attraverso questi Osservatori, al di là del contenuto che ti hanno dato, scrivendo a ciascuno di loro, come reagivano? Quanto ci mettevano?… Quei piccoli dettagli che raccontano la possibilità di una voce, anche se piccola, perché poi era solo un trafiletto.
(D) La cosa più strana è che, nella maggior parte dei casi, mi chiedevano che cosa dovevano scrivere. Io rispondevo: scrivi quello che vuoi. La libertà assoluta li metteva più in difficoltà che non se gli avessi dato qualcosa su cui scrivere. Perché quello che faccio io è cercare dei curatori che possano essere interessanti, gli mando una mail quando è il momento e lascio totale libertà. Ci sono stati casi in cui questa libertà si è riflessa nella modalità di scrittura come il modo di approcciarsi alle mostre. Altri invece hanno scritto il loro statement. Tendenzialmente erano contenti di questa possibilità, ma mi sono reso conto che non tutti sono stati in grado di restituire quello che hanno in mente. Perché non è facile, perché sono giovani e perché non hanno la visione di quello che vogliono fare. Però ci sono delle idee, non sempre sincere, ma cercano di cogliere lo spirito del tempo.
(G) Questo è fondamentale. Il rapporto con lo spirito del tempo. È il curatore che insegue la realtà? Che la plasma? La curatela è una forma di creazione, o no?
(A) Non lo so. La cosa di cui mi sono resa conto ascoltando le storie di Punti di Frontiera è che lo strato che manca, forse, è proprio la capacità di tradurre i propri bisogni. C’è questa grossa voglia, nella collettività ma anche nei singoli. C’è uno strato più umano, una dimensione più ristretta. Nessuno ha manifestato il bisogno, l’ambizione, di diventare Obrist. L’obiettivo è di esistere nella propria comunità. Come prima cosa. E poi crescere. Ma questo nuovo bisogno ha generato delle mancanze pratiche, come appunto l’incapacità di traduzione e azione, l’assenza di appoggio. La forma di cura è una forma apertissima, c’è sempre meno la voglia di vincolare e veicolare. Ma ci si rende conto che si ha bisogno dell’altro. Ma che tipo di altro? A che fine?
Per fare cosa?
USCIRE DAI CONFINI DELL’ARTE
(A) L’idea stessa di mostra sta perdendo tantissimo di potenza. Questa concretizzazione dura e pura, questo estremismo nel tempo che ti tira fuori una mostra, è un bisogno che non è uscito. Non si è assolutamente manifestato. Ma è proprio la cura della ricerca, della persona, progetti con un tempo ampissimo in cui andare a creare estensioni diverse. C’è una distensione della pratica che non è più così “machistica”.
(G) Non più legata a un obiettivo, una manifestazione, una scadenza.
(A) Però in tutto questo c’è sicuramente una complessità del narrare il che cosa. Non c’è ancora una visione.
(G) Ma chi può avere chiaro cosa è la curatela? È impossibile.
(A) Sì però il modello è cambiato, non ci sono più i riferimenti di una volta.
(D) Secondo me non abbiamo ancora imparato a curare una mostra oggi per quelli che sono i cambiamenti che sono avvenuti. Perché comunque io penso che abbiamo a che fare con artisti che fanno una loro ricerca e tu non riuscirai mai ad andare in profondità quanto sono andati loro. E spesso i curatori – forse è un mio errore – si concentrano troppo sull’arte. Leggono libri di arte, guardano tantissime mostre, di arte e artisti, che non sempre sono necessari. Bisogna guardare oltre, perché gli artisti stessi lo fanno, i più interessanti sono coloro che si definiscono ricercatori. Stanno guardando altro e poi questo altro prende la forma finale di opera d’arte. Ma quello a cui stanno pensando è altro rispetto all’arte, e poi lo trasformano. E secondo me la pratica della curatela deve un po’ adattarsi a questo. Deve assimilare questo processo, questo modo di fare. E in qualche caso lo sta facendo.
CURARE IL TEMPO, CURARE LO SPAZIO
(G) Trovo inoltre che ci sia un aspetto della curatela che si scontra con lo spazio e con il tempo. Per esempio: se uno cura nella lunghezza (io curo per quattro mesi un progetto), solitamente la mostra ha un momento germinativo che poi devi quagliare, concretizzare. Finisce per definire lo spazio e il tempo. Proviamo una diversa idea della durata e una diversa idea dello spazio, come quando ti prendi cura di un luogo, di un contesto in cui cresci. Se vado a curare a New York un progetto con la comunità, che magari conosco anche, non faccio però parte di quella comunità. Lo spazio e il tempo vanno ripresi in mano perché diamo per scontato che sia più potente il curatore di entrambi. Qualunque spazio si assuma, qualunque tempo si assuma, il risultato dipende dal suo genio. Che è una visione da sfigati dell’essere umano, perché credo sia molto più interessante l’intelligenza collettiva, in un mondo di complessità come quello che stiamo vivendo, dove se vuoi andare a fondo di una cosa non basta un dottorato, è veramente un po’ ridicolo. Quindi credo nella curatela che crea reti di alleanza con ciò che non è arte. E mi piace lavorare con artisti che si considerano ricercatori e che hanno titolo di andare a trovare l’altro (scienziato, antropologo…), mi piace molto e lo trovo molto attuale. Certo, lo diceva anche Pistoletto, la vecchia guardia, solo che Pistoletto lo diceva mentre adesso sta diventando attuale e non solo più un’intuizione.
Spazio tempo – funzione e ruolo – sono le due direttrici che condivido ora.
‒ Annika Pettini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #62
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