I dimenticati dell’arte. Matteo Olivero, il pittore amico di Pellizza da Volpedo
Dalla Val Maira a Torino e ritorno. L’esistenza del pittore Matteo Olivero, vissuto a cavallo di Otto e Novecento, si divise tra montagne e città, fino al tragico epilogo. Qui ne ripercorriamo la storia
Tra i maestri del Divisionismo italiano non figura in prima linea, ma è indubbio che le tele del pittore piemontese Matteo Olivero (Pratorotondo, 1879 ‒ Saluzzo, 1932) siano dipinte con una tecnica ineccepibile. Del resto quel ragazzo nato a Pratorotondo, una piccola frazione del comune di Acceglio nell’alta Val Maira, dall’omonimo padre, un fuochista della marina mercantile, e dalla madre Lucia Rosano, di famiglia contadina, aveva dimostrato fin da giovanissimo uno spiccato interesse per l’arte.
LA STORIA DI MATTEO OLIVERO
Rimasto orfano di padre, morto di colera, fin da bambino Matteo sviluppa un attaccamento profondo e quasi morboso alla madre, che durerà tutta la vita. Insieme si trasferiscono a Cuneo nel 1891, dove il giovane si diploma quattro anni dopo all’istituto tecnico. La sua abilità nel disegno spingono la madre a vendere il podere della famiglia per trasferirsi a Torino e iscrivere Matteo all’Accademia Albertina di Belle Arti, che il ragazzo frequenta con grande profitto, allievo di insegnanti del calibro di Giacomo Grosso e Leonardo Bistolfi, il quale lo introduce alla scultura. È uno studente brillante, premiato per la sua tecnica precisa e accurata, tanto che nel 1900 ottiene una borsa di studio per un viaggio a Parigi, dove visita l’Esposizione Universale, ammira la pittura di Picasso, Braque e Giovanni Segantini, e rimane colpito dal fermento culturale della Ville Lumière. Tornato a Torino, riprende la pittura e si dedica a temi sociali e in particolare alle magre esistenze degli emarginati: la sua tela d’esordio, ‘L lunes, è una scena d’osteria esposta alla Promotrice nel 1901, mentre l’anno seguente presenta la piccola tela Ultime capanne, dipinta in stile divisionista, alla Quadriennale di Belle Arti, dove incontra il giovane e ancora sconosciuto Giuseppe Pellizza da Volpedo, che espone nella stessa sala Il Quarto Stato: tra i due nasce una profonda amicizia. Ultime capanne viene venduto per 1100 lire e questo primo successo convince il giovane artista a tornare in Val Maira, dove dipinge Solitudine, vicino al Simbolismo di Segantini.
MATTEO OLIVERO E LA MONTAGNA
Isolato tra le montagne innevate, Olivero sviluppa uno stile personale, legato alla dimensione emotiva del paesaggio: “La natura solo mi è maestra”, confessa l’artista, sempre più lontano dai rumori del mondo e intento a sviluppare la propria ricerca, legata all’applicazione del Divisionismo alla natura. I suoi quadri sono dedicati soprattutto ai paesaggi della Val Maira, accompagnati da scene religiose e a ritratti. Per questo Olivero lascia Torino e si trasferisce a Saluzzo nel 1905, dove si dedica alla pittura trascorrendo periodi di entusiasmo alternati a momenti di difficoltà anche economiche. Lo sostengono, oltre alla madre, alcuni collezionisti come Alice Galimberti Schanzer e Luigi Burgo. A Saluzzo frequenta il palazzo della contessa d’Isasca, partecipa a feste e fa baldoria nelle osterie, dove la sua vena goliardica si esprime al meglio, anche se il suo carattere bipolare lo porta a vivere momenti di grande malinconia, espressi nell’intenso Autoritratto al chiaro di luna, eseguito nel 1908, dopo essere guarito da una brutta polmonite. Negli anni successivi Olivero continua a dipingere tra Saluzzo e Acceglio, sempre vicino all’amata madre, unica donna della sua vita, che scompare nel 1930. Per Olivero la sua morte è una tragedia dalla quale non si riprenderà, tanto che due anni dopo il “figlio della montagna” si uccide buttandosi dalla finestra del suo studio a Verzuolo, in un rustico che gli aveva messo a disposizione l’ingegnere Luigi Burgo, suo grande estimatore. Oggi le opere dell’artista sono esposte alla Pinacoteca Matteo Olivero di Saluzzo, mentre la sua vita è stata ricostruita nel documentario di Andrea Icardi Matteo Olivero ritratto di un pittore (2017).
– Ludovico Pratesi
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