Gli artisti e la ceramica. Intervista a Florence Peake
La lunga ricognizione sugli artisti che hanno trovato nella ceramica il loro mezzo espressivo primario cede la parola a Florence Peake
Coniuga arte performativa e lavorazione dell’argilla Florence Peake (Londra, 1973), ottenendo risultati di grande impatto visivo nei quali il corpo gioca un ruolo fondamentale. L’abbiamo intervistata per saperne di più.
La tua pratica si basa spesso sul confine tra il mondo esterno e quello interno; tra materialità e incontro. Quando hai capito che la ceramica era un materiale perfetto per la tua ricerca?
L’argilla, specialmente nella performance, è per me un mezzo sia iper-materiale sia un veicolo di transfert energetico tra il performer e il pubblico. Una sorta di oggetto/materiale-mediatore. Una sostanza che, partendo dal corpo del performer (che porta con sé tutta la sua esperienza psicologica al momento della performance), comunica molto direttamente all’ambiente esterno e con i corpi del pubblico. Per me il pubblico diventa così una sorta di materiale nello spazio. La muscolarità, la visceralità e la natura corporea dell’argilla ci collega all’empatia/risposta cinestetica all’interno di tutti i corpi/udenti nello spazio. Ci sono quindi per me tre elementi: il corpo dell’argilla, la fisicità del performer e la presenza del pubblico.
L’impronta della performance può poi essere trattenuta come una risonanza all’interno dell’oggetto da cuocere e trasformare in un’opera in ceramica. Questa ricerca è stata esplorata in Voicings, una performance che lavora con il fenomeno della canalizzazione psichica ‒ l’uso dell’argilla era una fase preparatoria con il pubblico per formare un’idea della mente collettiva da cui avrei canalizzato le risposte.
Come interagiscono comunità, performance e argilla in CRUDE CARE (2020-21)? Quando hai deciso che la ceramica era il materiale perfetto per questa ricerca?
Ho lavorato con un gruppo di assistenti sociali nella città di Aberdeen, che ha un legame con le industrie del granito e del petrolio. Abbiamo esplorato la correlazione tra le industrie estrattive e il sistema del lavoro di assistenza nel Regno Unito (in particolare nel contesto del Covid). Volevamo mettere l’accento sulle similarità tra lo sfruttamento del lavoro umano/energia e l’estrazione, con il conseguente prosciugamento delle risorse della terra. Ho sepolto un lavoratore sotto un letto di argilla, per la precisione due tonnellate di terra, per poi estrarre il suo corpo da sotto. Abbiamo poi cotto la forma esplosa con la sua impronta. Si tratta di una grande scultura in ceramica di circa 1,8 metri per 2,8 metri. È stato molto importante lavorare insieme, specie in questo processo di sepoltura rituale. Era per me fondamentale che fosse un’esperienza piacevole e che permettesse un confronto diretto con il conforto e il potere dell’argilla. Abbiamo lavorato con la fisicità e abbiamo ritualizzato il processo di sepoltura; il bozzolo e il conforto, la cura, la tenerezza e il peso sul corpo, ma anche la capacità dell’argilla di trattenere gli stessi elementi. Questo processo è stato tradotto nel lavoro di ceramica cotta, che per me mantiene sia la violenza dell’estrazione che la cura del nostro processo insieme.
LA CERAMICA E IL CORPO SECONDO FLORENCE PEAKE
In Apparition Apparition le tue ceramiche entrano in scena in un rapporto che va ben oltre la semplice scenografia. Ti è sempre chiaro perché e dove saranno esposte le tue ceramiche? O semplicemente le lavori e loro “trovano la propria strada” dopo?
Lavoro con diversi media tra scultura, danza/movimento, film, testo e dipinti per diversi contesti e spazi. Come un’idea si manifesta attraverso un particolare mezzo o come i materiali/mezzi si sovrappongono l’un l’altro è contingente al luogo, al contesto e a come si lavora. Ci può essere un’accumulazione/raccolta di media per formare un ambiente o un mondo. Apparition Apparition aveva molte di queste variabili, essendo anche una collaborazione con l’artista e coreografa Eve Stainton. Abbiamo pensato a un mondo coerente unendo il film collage digitale di Eve, la mia ceramica fumante e la collaborazione con il pubblico che ha realizzato una sorta di costume spontaneo disegnando segni a penna sui nostri corpi. Tutti i componenti formano una sorta di assemblaggio per un mondo che i nostri corpi vivi abitano con la performance. Mi piace il modo in cui la ceramica si unisce con altri materiali contrastanti: mi affascina la sua fragilità (che potrebbe rompersi contro il metallo) o al contrario la sua solidità rispetto ad altri materiali più fluidi (come fumo, tessuto o acqua).
Hai descritto Rite: on this pliant body we slip our wow! come un rifiuto della “normalizzazione neofascista”, un modo per “rifiutare il cinismo postmoderno”. L’argilla, nella sua caratteristica sensuale e allo stesso tempo scatologica, può essere il materiale perfetto per un tale cambiamento? Secondo te è per questo che così numerosi artisti la scelgono oggi?
Trovo che l’argilla sia un materiale ribelle quando le si permette di fare i fatti suoi. Naturalmente, per dire l’ovvio, è molto accondiscendente nel suo uso più tradizionale, ma lasciandomi guidare dall’argilla mi sono resa conto che è anche caotica, diretta e inflessibile alle convenzioni. In Rite abbiamo lavorato con sei tonnellate di argilla. Quando si arriva a questa scala si assiste a una sottomissione della coreografia rispetto all’argilla. È lei che sceglie come muovere i performer. È una materia alchemica per natura; è strana, si trasforma con la temperatura attraversando diversi stadi (polveroso, liquido, solido). Quando si aggiunge più acqua diventa scivolosa o quando si è asciugata si possono lavorare grossi grumi; questi stati contrastanti obbligano i danzatori a particolari qualità di movimento e limitazioni fisiche, costringendoli a sottostare alle sue diverse condizioni. Così, in maniera innata, l’argilla rifiuta e resiste, ma è anche completamente se stessa, in questo modo permette di liberare una vitalità sia nella nostra interazione fisica che psicologica. Germaine Richier, la scultrice del dopoguerra, si riferiva all’argilla come isterica, ma esige anche rispetto nelle azioni che le imponiamo.
PEAKE E LA TRADIZIONE ARTIGIANA
In passato hai esposto anche in Italia. In questa rubrica sono stati intervistati molti artisti che cercano di lavorare in connessione con la lunga tradizione ceramica italiana Qual è il tuo rapporto con il modello alternativo di modernismo presentato dall’arte e dall’artigianato?
Non vengo da una prospettiva artigianale né sono allineata con i processi tradizionali. Tuttavia ho il massimo rispetto per quelle tecniche e pratiche. Mi affido anche alla conoscenza e all’esperienza dei tecnici della ceramica quando si tratta delle fasi di cottura del processo. Mi avvicino alla ceramica da una prospettiva performativa e teatrale, scultorea, utilizzando modalità di pratiche di movimento somatico e inquadrature teatrali. Le mie metodologie partono dal fare aptico e oculare per arrivare alla tattilità del corpo intero, usando tutte le superfici del corpo per fare. Quasi come se l’argilla fosse un’estensione della nostra fisicità, a volte come un ectoplasma che guida il prodotto che viene realizzato. C’è meno di un risultato noto nel mio lavoro che nei processi ceramici tradizionali, quindi in ogni fase, dall’interazione con l’argilla grezza fino alla cottura del biscotto e alla smaltatura, è sperimentale.
‒ Irene Biolchini
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