Gli artisti e il corpo. L’arte ibrida di Julie Monot
Maschere, performance, installazioni: sono tanti i linguaggi e gli strumenti adottati dall’artista svizzera per affrontare il tema del corpo, proprio e altrui. Recentemente in mostra presso The Bass a Miami, l’abbiamo intervistata per approfondire i nuclei della sua ricerca
La produzione artistica di Julie Monot (Losanna, 1978) si sviluppa a partire dall’interesse specifico verso le dinamiche culturali di significazione del corpo. L’abbiamo incontrata per parlare del processo creativo e del potenziale performativo nell’ideazione di personaggi, costumi, figure e opere scultoree di diversa natura, protagonisti delle sue performance e installazioni.
Non prediligi una tecnica specifica per la produzione dei tuoi lavori. Il fil rouge della ricerca è piuttosto un interesse verso la figura, i suoi limiti, e la documentazione di una certa gestualità del corpo. Ho riconosciuto queste caratteristiche in See Double (2020). Puoi parlarci di questo progetto?
See Double è un’opera tessile, un tappeto che ho realizzato a mano con la tecnica della taftatura, Viene installato a parete e il grande viso che vi ho rappresentato, una maschera con gli occhi aperti, sfida lo sguardo dell’osservatore. La potenzialità e specificità dell’opera sono svelate nel momento dell’attivazione performativa: ho realizzato See Double con l’idea che due performer potessero scivolarvi dietro e trasformare l’opera in una sorta di costume, un arredo per il corpo che aggiunge spessore alla figura nel momento performativo. È un gioco metaforico, sul legame tra la figura del doppio e la sua rappresentazione, e una riflessione sullo statuto dell’opera stessa, al confine tra opera plastica, costume e oggetto parte di una scena performativa. Mi affascinano molto la non-purezza e instabilità delle cose.
Per lavori come Double Trouble (2018) o Modern Nature 1/2 (2018) hai disegnato maschere che sostituiscono e congelano l’espressività del viso dei performer, caratteristica con cui è possibile descrivere anche le opere tessili Pierrot o la Medusa del progetto 22 Lames. Che ruolo gioca la cultura classica nella tua produzione e quali sono invece gli autori contemporanei che senti vicini alla tua ricerca?
Non parlerei di un’attrazione specifica per la cultura classica, ma di un interesse per l’approfondimento dell’origine dei nostri costrutti sociali. La storia consente di svelare i rapporti ambigui che abbiamo con l’idea del volto e la nozione di identità.
Per quanto mi riguarda il viso è un oggetto tecnico, lo considero secondo una sfaccettatura molto meno romantica del riflesso della nostra anima, è un’interfaccia. Marion Zilio, nel suo libro Faceworld: the face in the 21st century, offre un punto di vista illuminato sull’argomento e su questa specifica parte del nostro corpo. Il volto e la maschera sono soggetti che sono penetrati nell’immaginario collettivo con ruoli riflettenti e in grado di narrare costrutti sociali e contemporanei.
Ci fai qualche esempio?
Potremmo pensare, ad esempio, all’autoritratto e all’uso dei selfie come modalità contemporanee di comunicazione e interazione. Per me l’uso delle maschere è sempre qualcosa che scopre più di quanto possa nascondere, una rivelazione, un bizzarro spostamento verso l’esterno. Per quanto riguarda la tua domanda sugli artisti contemporanei potrei nominarne tanti, ma nello specifico Caroline Achaintre per la poeticità del suo lavoro tessile, o la ricerca di Shana Moulton per i personaggi presenti all’interno delle sue scenografie.
PERFORMANCE E SCULTURA SECONDO JULIE MONOT
Dennis è una performance che hai presentato per la prima volta nel 2018, in occasione di VEDO NON VEDO presso l’Istituto di Cultura Svizzero di Roma, e riproposto nel 2021 in occasione dell’iniziativa del Dipartimento di Cultura Svizzero Die Raum. A distanza di tre anni la percezione della plasticità del corpo umano dei performer è andata perdendosi totalmente. Come si è evoluto il progetto?
Credo sia interessante partire dalla genesi del progetto. Dennis ha una storia abbastanza significativa, nasce dopo aver visto una scultura esposta nel cortile dell’HEAD di Ginevra nel periodo in cui frequentavo l’università. Facendo ricerca su quell’opera, mi sono imbattuta in un libro di Aby Warburg che racconta di una scultura che rappresenta Dioniso, giovane e androgino, attualmente esposta al Campidoglio di Roma. La cosa interessante è che molti storici dell’arte, nel tempo, hanno erroneamente associato la statua alla rappresentazione di Arianna, attribuendo un cambio di genere al personaggio rappresentato. Quindi ho deciso di realizzare delle riproduzioni in resina del viso della statua, due facce che sono diventate un lessico di possibilità. Potremmo definirlo un riferimento queerness o al mio rapporto con il corpo, ma la sua caratteristica fondamentale è la variabilità. E infatti è vero, nell’ultima versione di Dennis i corpi sono scomparsi e i visi sono diventati più vividi: stiamo attraversando un periodo di smaterializzazione corporea, credo sia rilevante domandarsi se è questo il futuro che desideriamo.
Le ultime sculture in ceramica che hai creato (Possibly Maybe) sono realizzate con diretti innesti biologici e un richiamo al regno animale. In che modo questa produzione dialoga con progetti performativi precedenti, come Play Dead e Before It Was Water?
Credo che questo dialogo esista e che sia necessario guardare e osservare il regno vivente, quindi anche quello animale; noi stessi ne facciamo parte, nonostante la storica dissociazione tra Natura e Cultura, che è tempo di rivisitare. Penso ad esempio a ciò che dice Donna Haraway sull’animalità, ma anche al più recente articolo di Paul B. Preciado, Le féminisme n’est pas un humanisme, che dice: “Il femminismo è animalista. In altre parole, l’animalismo è un femminismo dilatato e non antropocentrico”. Amo questo testo, risuona molto con la mia pratica.
LE INSTALLAZIONI DI JULIE MONOT
Marcel Broodhaeter parlava del riposizionamento dell’oggetto artistico in ambito funzionale e nel 1974 contestava le istituzioni culturali con un’opera installativa dal titolo Un Jardin d’Hiver. Con Green Room (2019, presso Fondation Arsenic, a Losanna) ti sei confrontata anche tu con il concetto di white cube, producendo un’opera caratterizzata da rimandi tautologici alla performing art e all’esperienza teatrale. In termini di rapporto con il pubblico, che tipo di esperienza relazionale ti interessava produrre quando l’hai progettata?
Per Green Room ho scelto di sfumare i confini preposti dagli spazi istituzionali, dai white cube e dal teatro. Lo spazio in cui poteva muoversi il pubblico era un dispositivo ibrido, dove lo spettatore aveva l’opportunità di confrontarsi con opere d’arte viventi, in movimento, incarnate nel corpo dei performer. Chi ha assistito alla performance non si è confrontato con il punto di vista tradizionale del teatro, la quarta parete, mentre chi ha visitato l’installazione ha attraversato una scenografia composta da elementi scultorei e costumi, installati al pari di opere d’arte. È un progetto che continuerò a sviluppare nel 2022 con una nuova opera, intitolata Changing Room.
Un tuo lavoro del 2020, Hamacs, è stato presentato qualche settimana fa in occasione della mostra collettiva Species of Spaces presso il museo The Bass di Miami. Come ti rapporti allo all’architettura e allo spazio pubblico e domestico nella progettazione di performance, scenografie e installazioni site specific?
Le opere presentate al Bass di Miami sono fruibili sia dall’interno che dall’esterno dello spazio, perché allestite in una vetrina. Un esempio di due contesti estremamente diversi per il punto di vista dello spettatore, che permette all’opera di aprirsi oltre la sua matericità e oltre il confine con il contesto nel quale è inserita. A questo proposito ti faccio un altro esempio: Raven A, il personaggio scultoreo con le sembianze di gatto concepito di recente per la collettiva presso PALAZZINA (Basilea), è una scultura di per sé carica di intimità domestica. In questo caso lo spazio espositivo è anche l’abitazione di artisti e curatori e Raven A partecipa alla condivisione dell’ambiente come farebbe un nuovo inquilino, fumando e lasciando tracce della sua presenza in diverse aree della casa. Cambiare il contesto installativo e performativo delle opere fa parte della ricerca stessa, permettendomi di articolarla da angolazioni sempre diverse. Se c’è una cosa che mi spaventa è il dover rinchiudere la mia produzione in specifiche categorie, precludendomi la possibilità di metterla in discussione.
– Eleonora Angiolini
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