Cos’è la curatela oggi. Parlano 13 professionisti
Seconda tappa del focus sul ruolo dei curatori pubblicato fra le pagine del nostro magazine. Stavolta a prendere la parola sono una decina di addetti ai lavori
Dalla pandemia al cambiamento climatico, sono tanti e attuali i temi con cui un curatore deve misurarsi nella sua pratica. Senza dimenticare l’imprescindibile dialogo con gli artisti e la relazione con il pubblico. Abbiamo chiesto a tredici professionisti in questo campo di raccontarci il loro punto di vista.
LA TRADIZIONE COME CHIAVE PER IL FUTURO ‒ ALEJANDRO ALONSO DÍAZ ‒ direttore di Fluent – curatore associato Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Madrid
Continueranno i musei a essere luoghi rilevanti nel futuro o sono già un dispositivo storico? Sarebbe radicale, ma probabilmente corretto, considerare la figura del curatore e il concetto di tradizione come realtà più vicine di quanto si potrebbe pensare, costituite reciprocamente dallo spazio e dalle dinamiche del museo. È per questo che smantellare l’idea di tradizione, rompendo con il suo racconto conservatore, dovrebbe essere una delle urgenze centrali del progetto curatoriale. La tradizione pensata come vicinanza o familiarità tra materiali e persone, tra società ed ecosistemi, tra climi e tecnologie, permette di immaginare ciò che è tradizionale come un sofisticato protocollo che non perpetua idee del passato, bensì stabilisce necessità e urgenze del presente. Come parte di questa narrazione, il sorgere e lo svilupparsi della figura del curatore deriva da un’idea di struttura sociale e civica che oggi sta cambiando radicalmente: si potrebbe dire che le preoccupazioni per i modi di rappresentazione sono state sostituite da un interesse per l’azione, in particolare riferita alla natura e all’emergenza climatica.
In questo senso, le attuali forme di produzione e distribuzione, caratterizzate dalla precarietà e dalla violenza strutturale, spingono sempre più artisti a riprendere l’idea di artigianato e di tradizione come uno spazio di possibilità. Questa posizione è attraversata dalla questione di scala, intesa come condizione fondamentale per la ricostruzione degli usi e dei significati dell’arte nei rispettivi ambiti socio-naturali. Mettendo in dialogo fra loro diverse prospettive (sia in termini di disciplina che di contesto), è urgente per il curatore accompagnare l’artista nella messa in discussione di modelli e riferimenti razionalisti e riduzionisti, così come della mercantilizzazione di metodologie d’incontro e di conoscenza differenziali.
RIVOLUZIONARI CORNETTO-E-CAPPUCCINO – ANDREA BELLINI ‒ direttore del CAC – Centre d’Art Contemporain di Ginevra
Il ruolo del curatore oggi appare più interessante che mai: si tratta di provare a comprendere, accompagnare e forse anche promuovere gli importanti cambiamenti socio-culturali e politici che stanno trasformando il mondo. E qui i grandi temi vengono ormai in mente a tutti, perfino ai più pigri: fine del patriarcato, femminismo, discriminazione razziale, decolonizzazione, ecocidio, technofascismo. Come sempre nel mondo dell’arte, se la causa è buona, la sua banalizzazione cammina con essa. Con l’aria da nulla e con la leggerezza tipica di chi non ha mai dovuto temere nulla nella vita, i curatori toccano quotidianamente questioni delicate e tragiche, dolorose per tutti tranne che per loro. A me sembra che il principale motore che muove oggi il mondo dell’arte sia il tentativo maldestro di acquisire capitale morale adottando la posa più comoda, cioè quella del rivoluzionario formato cornetto e cappuccino, magari in abito nero. Atteggiamento questo che disgusta proprio coloro che vengono quotidianamente esclusi dal mondo disuguale e narcisistico nel quale viviamo. Un poco di senso del pudore e di umiltà, che consiglio a tutti (me compreso), potrebbero far bene a questo nostro piccolo ecosistema. A fare chiarezza, almeno relativa, rimangono quindi le mostre, il cui significato finale – come si sa – non dipende solo dalle buone intenzioni.
IL DIALOGO COME ULTIMA RISORSA ‒ ANDREA LISSONI ‒ direttore della Haus der Kunst di Monaco
Il curatore è una persona con conoscenza, passione, eterno desiderio di imparare, una competenza fondamentalmente tecnica che si può acquisire in un tempo relativamente lungo sul campo e che ha una esplicita vocazione alla condivisione con il mondo, che non necessariamente coincide con il mondo dell’arte. Le urgenze da affrontare, in Europa, sono innanzitutto la restrizione degli spazi e delle opportunità professionali in un’industria dove è una professione in chiaro ridimensionamento. D’altra parte, per chi proviene ed è basato in contesti non occidentali le possibilità sono straordinarie. Quanto alle dinamiche che si innescano tra il curatore e l’artista e il curatore e il pubblico, dopo gli ultimi diciotto mesi la figura professionale del curatore, già precedentemente in discussione e riconfigurazione a favore di competenze decisamente orientate sulla produzione o l’intenso lavoro nelle comunità, si deve necessariamente riorientare. E per chi lavora come curatore – nel senso più vasto, oltre a quello tradizionale di exhibition maker che ha assunto negli ultimi anni – il dialogo con il pubblico è fondamentale. In Europa una nuova generazione di direttori di istituzioni e di manager culturali sta poco a poco assumendo la guida di istituzioni artistiche ed è chiaro che l’orientamento verso il pubblico, la società, le sue trasformazioni sono una priorità. In un certo senso, il dialogo con il pubblico è una sorta di ultima risorsa per la rilevanza delle arti contemporanee nelle società. Credo che il dialogo con l’artista rimanga sostanzialmente invariato, ovviamente senza prescindere dal necessario aggiornamento tecnologico e linguistico, che, almeno in Paesi come UK, Francia e Russia, si è letteralmente rivoluzionato.
CURARE COME LAVORO DI ORCHESTRAZIONE ‒ DAMIANO GULLÌ ‒ head curator del public program di Triennale Milano
Curare oggi – in un mondo in cui tutto è “curato” – significa riuscire a liberarsi di una facile etichetta da professione, ormai, di massa per assumersi la responsabilità di recuperare il senso profondo del verbo, quel saper ascoltare, saper consigliare, quel prendersi cura – lo so, suona banale e ridondante a dirsi, ma forse è comunque necessario –, dedicare attenzione, essere facilitatori e compagni di strada degli artisti, delle opere, ma anche “dei” pubblici, plurimi, diversificati, che a quegli artisti e a quelle opere magari per la prima volta si accostano. Accessibilità allora diventa una parola chiave, e non si allude alla sola accessibilità “fisica” degli spazi, ma il ragionamento si estende a tutti gli aspetti di una produzione culturale, fino alla scelta di dimensioni e tipo del font, come pure taglio e impostazione, di una didascalia. La curiosità poi è un altro elemento centrale. La curiosità di percorrere strade parallele, sulla linea di quella “diversa tradizione”, delineata da un maestro quale Corrado Levi, per trovare o ritrovare figure irregolari, di inattuale attualità, senza inseguire il mainstream a tutti i costi. In una mia conversazione con Luca Bertolo di alcuni anni fa, si parlava di “ampliare l’orizzonte d’attesa” e trovo molto calzante quando Bertolo si soffermava sul fatto che, nella creazione, “meno eclatante, ma non meno intenso, può risultare un carminio in luogo di un cobalto”. Ecco, a volte bastano piccoli gesti, azioni spontanee per risultare davvero rivoluzionari. Bisogna guardare alla transdisciplinarietà, stabilire connessioni inattese – diacroniche, sincroniche, tra artista e artista, tra artista e opera, tra opera e opera – e spostare lo sguardo. Da una visione strettamente antropocentrica passare all’altro, allo sconosciuto, come proverà a fare la prossima Esposizione Internazionale di Triennale Milano Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, a cura di Ersilia Vaudo. Il dialogo, e il rispetto, dello spazio – sia esso white cube o iper-caratterizzato da stratificazioni temporali – è poi fondamentale. E, non da ultimo, c’è tutta la sfera del Public Program – quella di cui più prettamente mi sto occupando ora – sempre più importante e caratterizzante per una istituzione, con l’obiettivo di sviluppare narrazioni coerenti con la storia dell’istituzione stessa, i suoi valori e contenuti. E, ancora – come gli scorsi mesi di lockdown ci hanno insegnato –, è opportuno un sapiente dialogo tra dimensione esperienziale diretta e digitale, in cui la seconda è da intendersi come non sostitutiva ma come arricchente e integrativa della prima. Curare, insomma, è un grande lavoro di orchestrazione, in cui tanti fattori concorrono per arrivare all’armonia finale.
PER UN FUTURO MIGLIORE ‒ KATYA GROKHOVSKY
artist, curatrice – fondatrice e direttrice della Immigrant Artist Biennial
Come artista-curatrice, immigrata e donna, sono perennemente sospesa in uno spazio fluttuante di indagine, curiosità, cancellazione ed espansione. Operando all’interno delle pallide fiamme del nostro mondo attualmente in fiamme, non sono interessata a sostenere uno status quo pre-condizionato. Il mio approccio, invece, propende per la ricerca di pratiche sperimentali “non commerciali” aperte, spesso ignorate dal mercato dell’arte e dalle tendenze governative.
La TIAB – The Immigrant Artist Biennial (TIAB) è stata lanciata nel 2020, fornendo una piattaforma di supporto per il lavoro politicamente orientato, concettualmente stimolante, rivolto al processo interdisciplinare, realizzato da artisti immigrati storicamente emarginati e che vivono negli Stati Uniti. In quanto creativa io stessa, considero il mio lavoro curatoriale come un’altra branca della mia pratica artistica, con cui posso formare una visione distinta, puntando fondamentalmente sulla collaborazione, l’umanità innata e il coraggio indispensabile. La mia indagine è cercare l’invisibile, il meno noto, ritenuto “infruttuoso” o “indesiderabile” dal mainstream, operando principalmente all’intersezione tra fai-da-te, non profit, ambiti artist run, pubblici e virtuali.
Lavorando incessantemente per decodificare i pregiudizi patriarcali, coloniali e capitalisti e i tropi consolidati dell’esclusione, immagino modi per sfondare le barriere egocentriche, dominate dagli uomini, competitive e individualiste. Cresciuta come outsider in una famiglia non artistica proveniente dall’Ucraina, mi batto costantemente contro lo spazio chiuso ed elitario; il mio obiettivo è contribuire a “cancellare” le gerarchie e le ingiuste oppressioni, a elevare l’“oscuro” e ad amplificare voci ed espressioni diverse. Che cosa va fatto? Come posso contribuire alla necessaria evoluzione della cultura attraverso il potere dell’atto creativo e il desiderio di plasmare un futuro migliore? Io insisto. “Puoi scrivermi nella storia con le tue battute amare e contorte. Puoi anche calpestarmi nel fango, ma comunque, come polvere, mi alzerò” (Maya Angelou).
IL MIGLIOR COMPLICE DELL’ARTISTA ‒ LUDOVICO PRATESI ‒ docente, critico d’arte e curatore – direttore artistico di Spazio Taverna
Il ruolo del curatore di arte contemporanea è duplice. Quando la curatela riguarda la mostra personale di un artista, deve affiancarlo nella costruzione di un racconto che lo aiuti a presentare nella maniera migliore il suo lavoro in rapporto allo spazio espositivo che lo accoglie. Quando invece cura una mostra collettiva, il suo impegno consiste nel preoccuparsi di costruire un dialogo tra le opere, necessario e utile per rendere chiaro e preciso il tema dell’esposizione all’interno dello spazio, in modo diretto e non eccessivamente didascalico, avendo sempre in mente che una mostra non è un libro o un saggio, ma un racconto visivo, una narrazione per immagini in dialogo continuo con il visitatore.
La regola principale consiste nel rispettare il pensiero dell’artista e la qualità della sua opera, che va presentata nella maniera più rigorosa e precisa possibile, per permettere al pubblico di fruirla in modo corretto, senza inutili sovrastrutture: il curatore non deve sostituirsi all’artista ma essere il suo migliore complice e conquistarsi la sua fiducia attraverso uno scambio fecondo e costruttivo.
Per quanto riguarda il percorso che ha definito la mia identità curatoriale – riassunta per exempla nel testo Contemporaneo 30×30 (Castelvecchi, 2019) –, si può delineare una linea che riguarda il rapporto tra la storia dell’arte e il contemporaneo, con la creazione di dialoghi come Incontri (Galleria Borghese, 2002) o il ciclo dei Giganti ai Fori Imperiali (2002-2009), oltre alle personali di Ugo Rondinone (Macro e Mercati di Traiano, 2016) e Matthew Monahan (Palazzo Altemps, 2016), unita a un interesse per la promozione di artisti italiani delle ultime generazioni e alla riscoperta di personalità da rivalutare come Fernando Melani (Scultura a due voci, Palazzo Fabroni, 2012) e Claudio Cintoli (Pesaro, Roma, Jesi). Durante la pandemia ho aperto con Marco Bassan Spazio Taverna, un luogo all’interno di Palazzo Taverna a Roma, in cui artisti, curatori, stilisti, collezionisti e professionisti di varie discipline sono invitati a immaginare serate esperienziali basate sull’incontro tra mondi lontani, dove l’arte interloquisce con altre discipline per comprendere e interpretare la complessità del nostro tempo.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DEL CURATORE ‒ MARCO SCOTINI ‒ arti visive department head di NABA
Sembra che non si possa più fare a meno della curatela. E, forse, è vero. Non gli avrei dedicato uno dei primi corsi in circolazione, a NABA, se non ci avessi realmente creduto. Il rapporto tra la cosiddetta moltitudine e il dispositivo curatoriale è direttamente proporzionale. La figura del curatore emerge con la scoperta della friabilità generale dei suoli e delle rappresentazioni, con la moltiplicazione dei punti di vista, con la fine della sovranità dell’Uno: tanto della Storia dell’Arte modernista che dell’idea di Popolo. “Da qui la mia devise”, mi diceva Harald Szeemann in riferimento ai fondatori radicali del Monte Verità, “che solamente le cose più soggettive possono un giorno diventare oggettive”. Ma nella mia personale genealogia del curatore preferisco vedere Gustave Courbet che rompe con i Salons e apre il Pavillon du Réalisme – non tanto la comunità anarchico-salutista di Ascona quanto la Comune di Parigi…
Per questo una scienza curatoriale sarebbe una contraddizione in termini: esistono solo politiche curatoriali. Anzi, geopolitiche curatoriali, come ho intitolato un mio libro recente. ll curatore è una figura dell’Institutional Critique: ci dovrebbe sempre essere un gap costitutivo tra la sua proposta e le attese programmate e codificate. Avrebbe dovuto corrispondergli una de-istituzionalizzazione dei musei, delle collezioni e delle assegnazioni disciplinari (la generazione degli Anni Novanta preferiva la dizione “indipendent curator”), mentre si è realizzato il contrario: il curatore è stato istituzionalizzato. Negli ultimi dieci anni, le sperimentazioni curatoriali sono state, di fatto, canalizzate in e assorbite da un sistema artistico sempre più compromesso dall’economia e dagli obiettivi delle industrie creative (le top ten, i pubblici, le artistar, i musei-brand). Il valore della sperimentazione è diminuito e, tanto la pratica curatoriale ha guadagnato in visibilità, tanto ha perso in termini di libertà di pensiero ed espressione. Oggi, la moltiplicazione esponenziale di mostre e biennali che sfruttano temi come l’ecologia, il genere e la questione razziale quale vetrina dell’emancipazione liberale va letta nei termini di un processo di pacificazione (anti-conflittuale) e artwashing che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine. Altro che coerente sviluppo del dispositivo curatoriale! In un sistema totalmente omologato si tratta piuttosto di “artecrazia”, come recita il titolo di un mio libro appena ristampato.
IL VEGETALE AL CENTRO ‒ PAULINE LISOWSKI ‒critica d’arte e curatrice
Il mio percorso transdisciplinare, fra arte e paesaggio, mi ha portato a interessarmi alle pratiche artistiche che riguardano principalmente l’architettura, l’ambiente, la natura e l’ecologia. Focalizzo l’attenzione su opere che tessono un legame con il paesaggio e il giardino, e su progetti artistici fondati sulla storia e sulla geografia di un luogo. Sviluppo la mia pratica curatoriale ispirandomi a quella del paesaggista, che inizia prendendo le misure del territorio in cui interviene. Costruisco i miei progetti partendo dall’ambiente, dalla storia, dall’architettura dello spazio espositivo. Presto attenzione al ruolo del vivente vegetale e mi interrogo sulle sue condizioni d’esposizione nel tempo e nel ciclo delle stagioni.
Invito gli artisti a prendersi il tempo di scoprire i luoghi, di trovarvi stimoli creativi per investirli e rivelarli. Parallelamente, con loro esploro il territorio in cui sono invitati a creare. Con questa modalità, cerco di stabilire un legame tra lo spazio espositivo e l’ambiente circostante.
Nell’epoca dei grandi cambiamenti climatici, delle sfide ambientali e delle problematiche legate all’infragilimento dei nostri paesaggi, a mio avviso è urgente riprendere contatto con la natura. Gli artisti possono spronarci a comprendere il vivente non-umano. Le opere possono stimolare esperienze sensibili, proporci di condividere momenti di contatto con le piante e attivare il nostro desiderio di impegnarci nella cura degli elementi naturali e degli spazi pubblici.
Concepisco mostre in gallerie, spazi espositivi non profit, centri d’arte e artist run space – mostre che indagano la nostra relazione con la natura, con il paesaggio e con i diversi modi in cui possiamo essere collegati al mondo vegetale.
Durante le mie mostre, organizzo incontri-dibattiti e propongo visite per ogni tipo di pubblico. In particolare, cerco di creare delle relazioni fra le diverse discipline dell’arte, della natura e del paesaggio.
DECELERARE E FARLO REALMENTE ‒ ROSA LLEÓ ‒ curatrice indipendente e direttrice The Green Parrot
Due delle mail che mi hanno reso più felice ultimamente mi giungono da artiste che scrivono dai luoghi di produzione dei loro nuovi progetti audiovisuali. Progetti che si sono tramutati in percorsi per apprendere insieme e nei quali il mio apporto è stato quello di accompagnare e facilitare la loro realizzazione. In questo momento, come curatrice, ritengo che questa sia la cosa più importante.
L’attuale epoca di emergenza ci è servita per riflettere e prenderci cura di noi in ogni senso. Molte di noi, ne sono testimone, nell’ultimo anno si sono sentite esaurite, stanche di fare e disfare progetti, di cambiare i propri piani, di soffrire fisicamente per la mancanza di tempo; credo sia urgente decelerare – non solo come statement nei nostri testi oppure come argomento delle nostre lecture – e lottare affinché le nostre condizioni di lavoro siano più dignitose, per uscire dalla spirale della precarietà, prendendoci del tempo per la ricerca e l’attenzione che ogni cosa merita. L’ideale sarebbe ripensare i tempi e i modi adeguati per accompagnare ogni artista e, dal punto di vista del curatore, è necessario lavorare per renderlo possibile. Per tale cammino passa anche l’essere inclusivi ma, attenzione, senza che ciò serva come scusa per sgravare le coscienze. È necessario ripensare anche alla sostenibilità dei materiali: cercare cioè di creare utilizzando il meno possibile materiali non riciclabili o, eventualmente, che si possano poi riciclare.
In questo momento mi concentro su quello che l’arte fa da sempre: immaginare altre maniere di agire o altri mondi possibili, attraverso il linguaggio della poesia, della fantascienza, del corpo, della pittura e della musica. Mi sembra imprescindibile, in un momento in cui tutto è imbevuto di concetti saturi e caduchi. Negli ultimi tempi, una lettura, una passeggiata, un film o un laboratorio creativo sono stati i momenti che ho apprezzato di più, concentrata e nel contempo rilassata. Questa è l’epoca ideale per approfondire certe pratiche, soprattutto considerando che non ci sono molti opening e quelli che ci sono non hanno il carattere sociale e mondano di un tempo.
Mi piace curare mostre. Oggi, tuttavia, bisogna riflettere bene se sia il format adeguato per ogni tipo di progetto, pensando all’artista ma anche al pubblico al quale si rivolge, e considerando che spesso uno dei due attori soffre durante tale processo.
Infine, a proposito del consumo dell’arte online: mi soddisfa esclusivamente quando si tratta di progetti pensati appositamente per queste piattaforme, per screening o podcast, dei quali sono un’avida fan e consumatrice.
L’ODORE DELL’ARTE ‒ SANDRA BARRÉ ‒ storica dell’arte, critica d’arte e curatrice
Il legame con il mondo contemporaneo è essenziale per il curatore. Qualunque sia il periodo sul quale lavora, vive nel proprio tempo, e la sua percezione dell’arte ne è profondamente influenzata. La celebre storicizzazione di cui parlano numeri teorici e teoriche (Benjamin, Danto ecc.), che ricolloca l’opera nel contesto della sua epoca, è valida altresì per la lettura che ne viene fatta. Questo ancoraggio nel presente dà il tono di ogni mostra e su di essa si basano i soggetti di articolazione e interpretazione delle opere.
Per me, tutto si traduce innanzitutto qui, nella soggettività di ciascuno e di ciascuna. In quella degli artisti, certo, ma anche in quella dei curatori e delle curatrici, in quella dei critici e delle critiche d’arte ovviamente, e in quella delle istituzioni che continuano, ancora oggi in Francia, a stabilire cos’è arte.
Dal mio punto di vista, ci sono tre principali argomenti da considerare: il rapporto dell’essere umano con il mondo vivente e sensibile, in cui si pone la questione dell’ecologia; le problematiche legate ai generi, in cui si inscrive il femminismo; e le questioni decoloniali. Tutto ciò mette in discussione la nozione di gerarchia che per secoli ha corrotto la posizione dominante in cui gli esseri umani si sono arroccati. L’autorità dell’umanità nei confronti della natura, quella rispetto al femminile e quella dei bianchi rispetto ai non-bianchi è messa in discussione dalle scienze umane, e l’arte funge da supporto a queste riflessioni.
Considero l’opera d’arte come un supporto, un collegamento. Avvicina l’artista allo spettatore, ma anche gli spettatori tra loro, e in questo senso prediligo gli incontri diretti, fisici e non virtuali. A mio avviso, la smaterializzazione fa perdere il rapporto diretto con l’opera, ed è per questo che lavoro molto con opere che emanano odori. Obbligano alla presenza, all’ancoraggio nel presente del respiro dell’opera e a una soggettività particolare, poiché i profumi hanno un rapporto interpretativo molto intimo. Alla fine, tutto si sovrappone.
NON SEMPRE LE MOSTRE SONO NECESSARIE ‒ SOLEDAD GUTIÉRREZ ‒ curatore capo di TBA21 e content manager di st_age
Penso che il termine curatore contenga tante definizioni quante le persone che lo utilizzano. Per me essere curatrice significa stabilire e sostenere una conversazione non solo con gli artisti ma anche con il contesto che li sostiene e circonda. Ciò comporta l’essere cosciente delle implicazioni politiche di ogni azione e l’essere attenta al momento nel quale viviamo, il che rappresenta un’attitudine attiva di ascolto. Nello stesso tempo, tutto ciò deve essere accompagnato da una curiosità per imparare e ricercare, per immergersi, nel mio caso, nella storia affinché si possa comprendere meglio il presente.
I contenuti sui quali mi concentro e su cui focalizzo il mio lavoro sono connessi a forme alternative di vivere la realtà, proposte intorno ad altri futuri possibili e che si connettono con i diversi ecosistemi naturali e politici, nei quali viviamo in maniera cosciente, spirituale e critica. A livello strutturale, credo sia fondamentale riconoscere il ruolo che svolgono gli artisti e garantire una cornice degna alla loro produzione. Allo stesso modo, è molto importante riconoscere le disuguaglianze strutturali inerenti al proprio sistema dell’arte contemporanea e lavorare affinché si stabilisca un ecosistema più giusto ed egualitario.
Per quanto riguarda le modalità di realizzare una mostra, direi che una delle strategie più efficaci al momento di affrontarla sia proprio ammettere che spesso non dobbiamo fare esposizioni, ma dobbiamo rispondere alle necessità dei progetti ai quali partecipiamo e questi non sempre devono convertirsi in presentazioni oggettivali. E, nel caso si trattasse di ciò, in ogni presentazione dobbiamo osare, esplorando e ridefinendo il concetto stesso di esposizione.
LA CURA COME AFFETTO E ATTENZIONE ‒ TANIA PARDO ‒ vicedirettrice del CA2M – Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid
La pratica curatoriale va intesa come un esercizio di accompagnamento, pieno di sottili complessità però basato fondamentalmente sulle relazioni e il dialogo diretto con l’artista attraverso la sua opera. In quest’epoca di incertezze, nella quale la crisi pandemica ha schiaffeggiato in pieno la cultura, la pratica curatoriale deve insistere – più che mai – nel potenziare il carattere affettivo e di attenzione legato alla nostra prassi, al nostro modo di agire. Nonostante gli effetti devastanti del Covid-19 nella vita di musei e centri d’arte e l’accelerato processo di migrazione al virtuale, la mostra continua a essere una delle forme analogiche di cultura che meglio ha resistito all’impatto. Le reti sociali e la tecnologia sono altresì un potente strumento che permette di comunicare con immediatezza, viaggiare virtualmente in qualunque angolo del pianeta per scoprire opere di artisti di altre realtà. Senza dubbio, si tratta di una delle rivoluzioni del XXI secolo che gioca a favore dei curatori. Forse, perciò, in molte impostazioni curatoriali si nota un ritorno alla sperimentazione, all’uso di formati dove l’arte plastica è intesa dal punto di vista tattile e dove la carica soggettiva è marcata dalla potenzialità dei sensi. Mostre che insistono sull’idea di vicinanza e di ricerca di nuovi materiali convivono con altre centrate su temi più specifici come l’anticolonialismo, l’eco-femminismo, le nuove narrative di fronte alla crisi socio-ambientale o l’Antropocene, solo per citare alcuni esempi di temi intorno ai quali stanno lavorando i giovani curatori europei.
Se negli Anni Sessanta i curatori misero l’accento su discorsi di carattere sociale legati alle minoranze, prendendo in considerazione questioni di razza, sesso o classe, coinvolgendo Paesi che fino a quel momento non avevano avuto visibilità nel discorso egemonico dell’arte – come i Paesi dell’Est europeo, l’Africa, l’Asia ecc. –, oggi più che mai e con urgenza dobbiamo continuare su questa strada. Si tratta di promuovere e riflettere su temi che riguardano il femminismo, i comportamenti LGTBQI+ o l’ecologia, così come dare nuovi significati e mettere in discussione molti dei valori che la storia dell’arte tradizionale non si è posta finora. Il cambiamento nel XXI secolo non passa dalle coordinate della trasformazione industriale del XX secolo, ma nasce da un ampliamento di tutte queste idee.
In questo senso, è di vitale importanza ripensare il contesto politico, sociale e geografico nel quale ciascuno di noi vive, nel quale lavoriamo come curatori; prospettare la pratica curatoriale – ricerca, produzione ed esposizione – a partire dalla prossimità, tenendo in conto gli scenari locali, tessendo legami e considerando la collettività come parte del nostro processo, senza dimenticare di gettare ponti dall’Europa agli altri continenti. Malgrado la complessità della globalizzazione – la pandemia, la crisi economica, le guerre ecc. –, dobbiamo continuare a credere nella capacità trasformatrice dell’arte e nella necessità di mettere i nostri discorsi al suo servizio, considerando il lavoro curatoriale come un continuo scambio di idee e come metodo di apprendimento.
MOSTRE E STORIA DELLE MOSTRE ‒ VALÉRIE DA COSTA ‒ docente di storia dell’arte contemporanea all’Università di Strasburgo
Sono una storica dell’arte contemporanea, docente all’Università; le mie ricerche si concentrano principalmente sull’arte italiana della seconda metà del XX secolo, su cui pubblico regolarmente testi e libri. Sono queste riflessioni e queste pubblicazioni che spesso danno luogo a mostre. Tuttavia, per me fare una mostra non è scrivere un libro. Si tratta di due ricerche diverse nell’approccio, che però si completano e si alimentano a vicenda.
Curatrice indipendente, non sono legata a nessuna istituzione, il che mi garantisce una grande libertà, sia che si tratti di mostre in galleria, come quella che ho organizzato a settembre 2020 alla galleria Michel Rein (Parigi) presentando diversi aspetti del lavoro di Piero Gilardi attraverso un scelta di opere storiche e attuali (Piero Gilardi, dalla natura all’arte); sia che si tratti di esposizioni museali, come quella che sto preparando per maggio 2022 per il Musée d’art moderne et contemporain di Nizza (Mamac), che proporrà una nuova lettura dell’arte italiana dagli Anni Sessanta-Settanta (Vita Nuova. Nouveaux enjeux de l’art en Italie 1960-1975), mostrando la diversità e la ricchezza della creazione artistica in Italia in quegli anni, di cui, a parte l’Arte Povera, in Francia si conoscono pochissimi artisti.
Una mostra, a mio avviso, deve far scoprire o riscoprire artisti e opere, tenendo in considerazione una riflessione sulla scenografia. Se guardiamo alla storia delle mostre, che è un campo di studi ancora relativamente recente, vediamo infatti che la mostra ha permesso di rinnovare profondamente la lettura della storia dell’arte. Esporre consente un’immensa creatività, dove quasi tutto è possibile. Ogni volta che facciamo una mostra, dobbiamo porci la domanda: cosa sto dicendo e come lo sto dicendo?
‒ a cura di Marco Enrico Giacomelli
Versione integrale dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #62
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