Futuro antico. Intervista a Federico Campagna
Secondo appuntamento con la serie di interviste curata da Spazio Taverna e dedicata alle riflessioni sul futuro in un’ottica che abbraccia presente e passato. Stavolta a prendere la parola è il filosofo Federico Campagna
Filosofo, classe 1984, di origini italiane ma residente a Londra, Federico Campagna si interroga sul futuro a partire dalla propria scrittura e del proprio immaginario.
Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo dell’arte?
Devo dire la verità: i miei riferimenti sono tutti non contemporanei. Quello che guardo dipende dal tipo di ispirazione che sto cercando. I Tiepolo, sia padre che figlio, come Vivaldi o Galuppi nella musica, sono la mia bussola quando cerco di capire che cosa sia la felicità e che sapore abbia. Se invece cerco ispirazioni dal punto di vista metafisico, allora attraverso Pavel Florensky cerco le opere di Andrei Rublev e della grande pittura di icone. Se invece voglio esplorare le fucine dell’immaginazione, di solito guardo l’arte arcaica greca e le decorazioni sulle ceramiche corinzie. Mi affascinano quelle forme mitologiche indefinibili, tra l’umano il divino e l’animale, il loro ricorrere ossessivo e il loro stile marcato.
Qual è l’opera che ti rappresenta maggiormente? E qual è la sua genesi?
Il prodotto che mi rappresenta maggiormente è un’opera che va avanti da anni in forma puramente orale: sono le storie che mio figlio mi chiede di raccontargli la mattina quando va a scuola e il pomeriggio quando vado a riprenderlo. Sono storie per bambini lunghissime e improvvisate, epiche gigantesche con personaggi che inventiamo insieme. Questa è la mia vera palestra come inventore di parole. Tra quelle pubblicate, invece, l’opera che mi rappresenta di più è per forza la prossima, altrimenti non la scriverei! Ogni nuovo libro che scrivo mi serve per rimediare agli errori o alle mancanze di quello che ho appena finito. E il libro che sto scrivendo adesso tratta della storia del Mediterraneo, del suo immaginario e del suo indomabile sincretismo, dall’antichità fino a oggi.
Che importanza ha per te il genius loci?
Il mio rapporto con i luoghi è quello di un migrante. I miei genitori si sono trasferiti da Palermo in Valtellina, dove sono nato. Poi siamo andati a Milano, dove ho vissuto quasi vent’anni, fino a che non sono venuto in Inghilterra, quindici anni fa. Per questo i luoghi fisici, per me, sono solo dei luoghi di passaggio o di lavoro. I luoghi veri, per me, sono quelli immaginari. Il mio rapporto con il genius loci di alcuni luoghi è molto forte, ma si riferisce a posti completamente immaginari. Ad esempio, la Palermo della mia immaginazione indirizza moltissimi dei miei interessi e di quello che scrivo. Ma è una città che non esiste davvero da nessuna parte. Rivendico la realtà dei luoghi non reali, come penso facciano tutti i migranti. Dopo qualche tempo dalla partenza ci si accorge di non avere più niente dietro di sé, che il luogo in cui si abita non sarà mai davvero nostro, e che in fondo non si appartiene più a nessun posto reale. A quel punto, credo, molti decidono di migrare con l’immaginazione in luoghi privi di materialità o di realtà ‘fattuale’. Io credo di appartenere a questi luoghi.
PASSATO E FUTURO SECONDO FEDERICO CAMPAGNA
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Il tempo è una questione complicata, e ancora di più lo è il rapporto tra presente, passato e futuro. Filosoficamente, si può dire che il presente non abbia nessuna esistenza: come un punto nello spazio, è senza volume. Noi crediamo di vivere nel presente, mentre in realtà viviamo sempre nel passato – noi stessi, in questo momento, siamo solo il passato di un futuro a venire. Me ne accorgo quando penso alla mia infanzia e ai miei ricordi degli Anni Ottanta: i miei genitori credevano di vivere nel loro presente, mentre in realtà abitavano nel mio passato. Così come adesso io vivo nel passato di mio figlio, e tutti noi in quello di chi oggi è un bambino.
Questa realizzazione credo sia mancata alla gran parte delle generazioni del secondo Novecento, ossessionate come erano con il culto del nuovo, della giovinezza e del presente. Non è un caso che molti di loro adesso incontrino tante difficoltà a invecchiare e a comportarsi responsabilmente nei confronti delle generazioni future.
Io credo invece che sia utile provare davvero a immaginarsi come abitanti del passato. Si può comprendere così come la nostra voce si trovi già insieme a tante altre più antiche, e come i nostri libri appartengano già al passato, insieme a quelli di Gilgamesh, Omero o Lao Tze. Qualunque cosa diciamo, saremo sempre ‘inattuali’ rispetto al futuro che ascolterà le nostre parole. Il problema è cercare di capire che tipo di messaggi e di linguaggi siano in grado di restare vitali anche nel loro essere già passati.
E la risposta?
Un linguaggio del genere è quello che riesce a superare le barriere tra le diverse epoche. Io la chiamo cultura profetica, ed è l’oggetto del mio ultimo libro, di prossima uscita anche in Italia. Tra gli elementi stilistici che caratterizzano questo linguaggio ‘profetico’, c’è l’assenza sia dell’autore che del pubblico. Un’opera come il Corano, ad esempio, non ha né autore (Maometto l’ha semplicemente ricevuto e trascritto) né pubblico. Maometto è solo una ‘posizione’ rispetto alla realtà, da cui è possibile vedere certi aspetti altrimenti invisibili. E il pubblico che legge il Corano, se davvero vuole capirlo, deve diventare esso stesso Maometto e occupare la sua stessa posizione rispetto alla realtà. Lo stesso si può dire di Omero e dell’Iliade, del Tao Te Ching o delle Upanishads. Un altro elemento riguarda i livelli del racconto: i testi ‘profetici’ riescono a tenere insieme in un’unica narrazione una paradossale coincidenza di opposti. Le storie che raccontano sono grottesche, nel senso che sono come quelle immagini senza un inizio né una fine, in cui ogni figura deborda nella successiva. La narrazione di queste opere tiene insieme livelli di realtà tra loro diversi e irriducibili. Il loro racconto è quindi falso se osservato da un qualunque singolo punto di vista, visto che include anche il suo contrario – eppure questo è l’unico modo in cui si può rendere conto tramite il linguaggio di una realtà a molti livelli e per la gran parte ineffabile. Racconti del genere sono le storie mitiche di ogni popolo, così come anche i Vangeli.
Ci sarebbe molto altro da dire sulla cultura profetica, naturalmente – ad esempio, quali siano le sue modulazioni emozionali, quale il tipo di soggettività a cui si rivolge, che rapporto instauri tra linguaggio e silenzio, in che modo costruisca architetture col materiale etereo della memoria, come negozi tra ordine e caos, eccetera. Di queste e altre cose cerco di parlare nel mio libro.
Credi che oggi si sia persa questa capacità di scrittura profetica?
Non credo che oggi si sia persa, anche se è ormai del tutto assente al livello commerciale della cultura. Penso sia importante credere che continui a esserci chi tiene ancora vivo questo discorso, anche se di nascosto, senza pubblicarlo. Nel Sufismo si dice che c’è sempre un ‘polo’ nel mondo, un mistico supremo che è il fondamento spirituale del suo tempo, e di cui nessuno ha notizia. Voglio immaginare che sia così.
SCRITTURA, LAVORO E IL FUTURO DEL MONDO
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Mi sentirei di dare solo due consigli. Il primo ha a che fare con la sopravvivenza. Se, come me, non sei nato ricco, prova a trovare un lavoro qualsiasi, che impegni il meno possibile e che paghi abbastanza per vivere. Il lavoro è un male, ma per chi come noi non ha altri mezzi, al momento è un male inevitabile. Suggerisco di prenderlo con distacco, come un’esperienza degradante da cui dobbiamo cercare di non farci travolgere. Il lavoro non dice nulla su chi siamo davvero, e per quanto provi a umiliarci non potrà mai davvero scalfire la nostra dignità. Anche se non riusciremo a liberarci dalla condanna del lavoro, possiamo almeno provare a ridimensionare il suo impatto su di noi.
Il secondo consiglio è la costanza nel tempo. Per esempio, come scrittore io sono nato senza alcun talento. Mi ci sono voluti due decenni di esercizio per iniziare a scrivere decentemente. Per chi è come me, e credo come la maggior parte degli scrittori, è importante darsi tempo e rimanere costanti nell’esercizio – soprattutto quando sembra non portare a nulla.
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora una forza il concetto di sacro?
Il sacro è ciò che travalica tutti i concetti e tutti i linguaggi, quindi come concetto non ha molto valore. Quello che invece ha senso è l’esperienza del sacro, che potremmo chiamare volgarmente autocoscienza o ‘awareness’ di esistere: l’esperienza del sacro è l’autoriflessione di un esistente che guarda il fatto che sta esistendo, e non trova parole per descrivere ciò che sta contemplando. Se osservi il puro fatto dell’esistenza abbastanza a lungo puoi venirne rapito, e questo ti porta nella mistica. Se invece non lo osservi abbastanza, il rischio è andare fuori strada, fino a parlare di un ‘concetto’ di sacro.
Ci sono cose che si rivelano vere a seguito di un processo scientifico di osservazione e di controllo, mentre altre cose non sono né vere né false, ma sono autoevidenti. Per me l’elemento del sacro, ovvero l’ineffabile ‘essere’ delle cose, non è qualcosa di vero, ma è una pura autoevidenza – e a questa io mi affido. Per questo non sono persuaso della realtà della morte: le cose vere sono suscettibili di confutazione, trasformazione e morte, mentre quelle autoevidenti non rientrano nell’ambito di questo divenire (anche se sostengono ogni tipo di divenire, così come l’esistenza di qualcosa sostiene tutti i suoi mutamenti).
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Credo che nei prossimi decenni ci sarà, purtroppo, il ritorno di qualcosa di molto tragico che il mondo occidentale sembra aver rimosso. La guerra tornerà a essere una realtà concreta anche per quella parte di mondo che ormai se ne crede immune. Non so dire se sarà guerra civile o guerra nucleare, ma temo che la guerra, grande costante della storia del mondo, farà il suo ritorno nelle nostre vite. In uno scenario del genere, la paura sarà un elemento dominante nella nostra vita psichica. E non farsi travolgere dalla paura sarà una sfida cruciale per il futuro.
Parallelamente a questo, quasi come una terapia automatica, credo che assisteremo a un movimento sempre più intenso di distacco dal mondo. Una persuasione sempre più diffusa che il mondo del dolore e della distruzione non sia tutto ciò che esiste, e che noi stessi siamo ‘qui’ solo in parte. Infine, immagino che arriverà un momento in cui si proverà nuovamente a investigare quella parte di noi, e del mondo, che non è suscettibile di distruzione. Una nuova esplorazione dell’eternità immortale che abita ogni cosa mortale nel tempo.
Un movimento del genere si affermò già nella tarda antichità, quando le certezze del vecchio mondo crollarono sotto una tempesta di guerra, carestie e disastri ambientali. Il nostro futuro sarà forse una ripresa di quanto già avvenuto a quel tempo, quando nacquero l’Ermetismo, il Neoplatonismo magico e lo Gnosticismo. Questo non perché la storia si ripeta – nessun evento si ripete mai identico – ma perché gli umani tendono ad avere risposte psichiche simili a situazioni simili.
‒ Marco Bassan
www.federicocampagna.eu
www.spaziotaverna.it
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