Futuro Antico. Intervista ad Antonio Marras
La ricognizione sul futuro curata da Spazio Taverna cede la parola allo stilista Antonio Marras, da sempre impegnato in una ricerca che guarda non solo alla moda, ma anche all’arte e al design
“La presenza del futuro la immagino come la scoperta di una grande rovina archeologica, di un’architettura che però permetterà di leggere le speranze perdute di tutto il Ventunesimo secolo”. Ecco come vede il domani uno degli stilisti più amati dell’epoca contemporanea: Antonio Marras (Alghero, 1961).
Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo dell’arte?
Sono un visionario innamorato di Rembrandt Harmenszoon van Rijn e di Herbert Gustave Schmalz, di Rogier van der Weyden, di Albrecht Dürer e di Vilhelm Hammershoi. Ma anche di visionari più vicini a me nel tempo come Felice Casorati e Edward Hopper. Mentre per il contemporaneo spazio tra Boltanski, Uncini, Joseph Beuys solo per citarne alcuni. In realtà mani, uomini, animali, vecchi e donne e righe e occhi sono la mia ossessione. I miei riferimenti sono nella convivenza di elementi che permettono formazioni e deformazioni, innesti e alterazioni, armonie e contrasti. I miei riferimenti sono nei fili e nelle corde e nelle cime che possono diventare tutto. Possono essere legami e possono essere direzioni, possono essere cappi e possono essere richieste di aiuto e ormeggi, finalmente il ricovero.
Amo la preistoria e il contemporaneo, Amo le mie radici nuragiche, il bronzetto vecchio di 4000 mila anni avanti Cristo e le felpe di Supreme, le narrazioni di Plinio il Vecchio e i libri di Maria Lai. Amo un’arte che permette di disegnare e dipingere e scolpire ciò che non si vede.
Quale è la collezione/mostra che ti rappresenta maggiormente? Puoi raccontarci la sua genesi?
Non saprei cosa rispondere. Tutte le mie mostre, e anche le mie collezioni, si SOMIGLIANO. Sono così, a prescindere da me, sono loro che decidono.
Sono ossessioni e frequentazioni su personaggi e persone che mi affascinano, sono frammenti di storie e di pensieri e di incontri.
Uomini e donne e animali e cose che vedo, che ritaglio, che incollo, che ridipingo, che installo. Immagini prese da libri, da riviste di moda, trovate in vecchi bar, e cartoline degli Anni Venti, immagini estrapolate dalle regioni del mondo dell’arte confinanti con la moda e con i luoghi del design ma anche dalla geografia del mondo. Se però devo, sotto tortura delle streghe del 1600, dire la mostra che mi ha raccontato di più, allora è Nulla dies sine linea, la mostra della Triennale del 2016 dove ho riversato tutto me stesso.
Che importanza ha per te il Genius loci?
Vuoi sapere quanto è importante la Sardegna per me? Il Genius loci per me è certo un aspetto geografico e antropologico, ma soprattutto la possibilità di indagare l’anima e l’essenza primordiale. Ma quello che mi affascina è il fatto che il ‘mio Genius loci’ non è un posto ma tutte le storie e i popoli e le leggende che una moltitudine di passaggi hanno portato con sé. Fenici, catalani, greci, romani, tutti hanno lasciato e preso qualcosa. Qualcosa che è ancora vivo e che ogni volta mi sorprende e mi commuove. Per me il Genius loci è la non purezza. È l’incontro e lo scontro ed è quello che poi, nel tempo, diventa ancora altro.
Più che le radici e il radicarsi in un posto mi interessano i nomadi e i viandanti, i pellegrini. È così che ci si accorge che in Cambogia e in Sardegna ci sono le stesse gonne e in Russia lo stesso scialle e in Bulgaria la stessa camicia.
PASSATO E FUTURO SECONDO MARRAS
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
“Non siamo chiamati a inventare nulla di nuovo: il futuro ha un cuore antico”, ha scritto Carlo Levi, e a noi non resta che svelarlo, condividerlo e interpretarlo insieme. In questa direzione si inserisce parte della mia ricerca. Io non ho una concezione lineare del tempo e spesso l’antico mi sorprende molto più del presente. Per me l’arte è un modo per riattraversare le storie, amo frammenti e resti, le rimanenze, gli avanzi, le eccedenze, i residui, le differenze, le reliquie, le spoglie, le salme, i ruderi, le rovine. La possibilità di dare nome a un’assenza, di cercare di trattenere qualcosa e di lasciare tracce.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Non amo i consigli, né darli né riceverli, ma poi non penso di essere ‘l’esempio’ di ‘una strada’. Io sono solo uno che non sta mai al suo posto, per citare una mia amica bionda.
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora una forza il concetto di sacro?
Io credo che tutta l’arte abbia a che fare con il sacro, ma in un senso ampio. Credo che il sacro sia la possibilità di incontrare la bellezza, perché la bellezza non ha a che fare solamente con l’edificante armonia, ma anzi appartiene al caos e alle ombre di cui è intessuta l’esistenza. Il sacro penso sia l’invito a ripartire da quella bellezza cantata da Rilke nella prima delle sue Elegie Duinesi:
“Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? E se anche un Angelo ad un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio”.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
La presenza del futuro la immagino come la scoperta di una grande rovina archeologica, di un’architettura che però permetterà di leggere le speranze perdute di tutto il Ventunesimo secolo. Immagino il futuro come un’assunzione di responsabilità che tiene conto dell’ambivalenza dell’uomo: della sua tendenza distruttiva, e della sua possibilità di rinascita. Per me abitare il mondo e creare sono tutt’uno, non credo che mi accorgerò che il futuro è già qui. Mi chiedi tre idee per i prossimi anni? Ma io non saprei cosa risponderti se tu me ne chiedessi una, figuriamoci tre. Io vivo per il QUI E ORA, sempre.
– Marco Bassan
https://antoniomarras.com/it
www.spaziotaverna.it
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